Le conferenze si possono riascoltare a questo collegamento. Un resoconto critico, inoltre, sarà pubblicato sulla rivista ESP (Education et Sociétés Plurilingues).
Da sinistra: Patrick Leech, io, Francesco Sabatini, Claude Hagège
Quello che vorrei qui commentare è il dibattito seguìto ai due interventi. Con l'animosità che lo contraddistingue, e con la fierezza del poliglotta, Hagège è tornato a ribadire la sua avversione contro la "tirannia" dell'inglese, che rischia di uccidere la diversità delle lingue. Non solo: ha stabilito un parallelo tra tale tirannia e la "dittatura della sintassi" in linguistica, legata alla fortuna delle teorie di Chomsky (la cosiddetta "grammatica generativa") a partire dalla seconda metà del secolo scorso.
Che l'espansione del generativismo si sia giovata di circostanze fortunate, che hanno contribuito al suo grande e duraturo successo anche in Italia, ce lo ha spiegato già Raffaele Simone, che ha parlato di un'inedita operazione di marketing culturale.
Hagège ha sottolineato alcuni aspetti più generali, che riguardano il rapporto tra le nostre lingue neolatine (anche nella loro relazione con le lingue classiche) e la nostra tradizione linguistica (povera nell'ambito degli studi di sintassi).
Da un lato, secondo Hagège, le teorie linguistiche dipendono strettamente dalla struttura delle lingue materne degli studiosi che le formulano: la sintassi, per esempio, ha un grande rilievo in una lingua povera di morfologia come l'inglese (la lingua in cui è stata formulata la teoria generativista); in lingue in cui la morfologia è molto sviluppata, viceversa, la sintassi ricopre un ruolo molto meno importante. Hagège definisce le lingue "il mistero che si situa tra un'idea, o la volontà di dire una cosa che ha un contenuto semantico, e il modo di convertirla in una forma". A suo parere, fonetica e morfologia costituirebbero le componenti primarie della lingua; la sintassi sarebbe invece una componente secondaria, conseguente allo sviluppo lineare della lingua tra locutore e uditore. Ovviamente ciò non equivale a negare l'esistenza di strutture sintattiche, ma a ridimensionare la loro importanza nella comunicazione parlata, che avviene come scambio di contenuti espressi da forme articolate - o gesti, nel caso dei sordomuti. Si potrebbe obiettare che le lingue verbali, nel momento in cui sono verbalizzate, sono anche necessariamente linearizzate e quindi organizzate sintatticamente (anche le lingue dei segni hanno una sintassi). La morfologia (che può mancare del tutto in alcune lingue, come il cinese, dette "isolanti") è soggetta inoltre a erosione nel parlato, come mostra la storia del passaggio dal latino parlato alle lingue romanze (in cui la caduta dei suoni finali ha portato alla scomparsa del sistema dei casi).
(Nel corso di una lezione tenuta il giorno seguente nell'ambito del corso di Linguistica tipologica, Hagège ha precisato alcune affermazioni, soffermandosi sulla rigidità delle trasformazioni chomskiane, che propongono equivalenze - come quella tra frase attiva e passiva - inaccettabili sul piano semantico e pragmatico; senza contare che non tutte le lingue conoscono il passivo).
Dall'altro lato, a parere di Hagège, se Chomsky è apparso un innovatore è proprio perché ha esaltato un livello di analisi linguistica (la sintassi) trascurato nella tradizione europea. Inoltre, la diffusione del generativismo, come quella dell'angloamericano, dovrebbe molto allo snobismo (o al provincialismo) degli europei, colpevoli di aver voltato le spalle a una teoria sintattica molto più promettente - perché basata sulla conoscenza di più lingue, antiche e moderne - come quella di Lucien Tesnière (Hagège attribuisce la scarsa fortuna del linguista francese proprio alla "dittatura americana" impostasi negli anni successivi alla pubblicazione postuma dell'opera di Tesnière, nel 1959 - di cui il prossimo anno ricorrerà il sessantesimo). Rispetto a questa teoria, quella chomskiana appare molto più normativa, perché legata a criteri di grammaticalità che ci inducono a ragionare in termini di accettabile/inaccettabile (non lontani dall'opposizione tradizionale corretto/scorretto).
Proprio intorno a Tesnière si è trovato un accordo tra posizioni diverse. Sabatini, infatti, ha rimarcato che c'è sintassi e sintassi: il nucleo della frase identificato da Tesnière, basato sulla dicotomia nome/verbo, è una struttura essenziale e trasversale alle lingue (come ha ribadito del resto Hagège in un classico della linguistica, L'uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, uscito per Einaudi nel 1989 nella traduzione di Franco Brioschi), che ha una base semantica e trova una sua giustificazione nel funzionamento del cervello. Diverso il discorso relativo al periodo, che rappresenta una struttura nata "a tavolino" e che, proprio in quanto tale, nella nostra tradizione è stato studiato come fatto stilistico. Ciò che ci induce a pensare che non si possa dominare una lingua senza conoscerne la sintassi complessa è quello che Sabatini ha chiamato "effetto Cicerone": una certa tradizione di scrittura in latino, considerata forma perfetta della lingua e assurta a modello idealizzato (anche in italiano), ha finito per diventare il canone a partire dal quale deriviamo le regole della lingua.
Con un ulteriore effetto di strabismo, sottolineato in un recente articolo (apparso sull'ultimo numero di La lettura, supplemento settimanale del Corriere della Sera) dal linguista computazionale e classicista Marco Passarotti: si finisce per confondere lo strumento con l'uso che ne è stato fatto (la langue con la parole, in termini saussuriani) e per considerare "geniali" le lingue classiche anziché gli autori che in quelle lingue si sono espressi. Da un punto di vista linguistico, infatti, non ha senso affermare che le lingue sono più o meno facili o difficili, belle o brutte, logiche o illogiche, geniali o idiote. Le lingue classiche sono semplicemente quelle che hanno veicolato alcuni dei testi più belli, geniali, capitali della storia del pensiero occidentale. Cito dall'articolo:
Ciò che di quelle lingue antiche è giunto fino a noi, attraverso secoli di selezione, rappresenta quanto di meglio alcuni massimi autori della storia hanno prodotto. Costoro seppero sfruttare al massimo le potenzialità loro consentite dallo strumento che avevano tra le mani, fosse esso la lingua greca o latina.Continuiamo dunque a proporre lo studio delle lingue classiche nelle nostre scuole (come hanno raccomandato sia Hagège e sia Sabatini) per quello che sono: non lo strumento principe di accesso a ogni forma di conoscenza (e tantomeno un oggetto privilegiato di studio), ma uno strumento ineludibile per accedere ai testi classici e per comprendere il lessico intellettuale europeo che sulle lingue classiche si è forgiato. (Ovviamente - come non ha mancato di sottolineare Hagège - per tradizioni diverse si proporrà lo studio di altre lingue del passato: arabo classico, cinese classico, giapponese classico, sanscrito e così via, con i relativi testi che hanno posto le basi culturali delle rispettive civiltà).
Una sensazione, forte, rimane dopo l'incontro con certi "uomini di parole": che la linguistica e la considerazione storica delle lingue, insieme con la conoscenza di più lingue ci renda capaci di pensare e di pensarci meglio, dentro e fuori dagli schemi.