sabato 26 gennaio 2019

Il dettato a scuola: notizie dalla ricerca

La recente polemica seguita alla "lettera dei 600" ha riportato all'attenzione l'importanza del dettato ortografico nella scuola dell'obbligo ai fini del miglioramento della competenza ortografica.
In realtà questa pratica (di cui già si parla nella Institutio oratoria di Quintiliano) non è mai uscita dalle aule: è una di quelle cose che tutte le maestre fanno, in particolare negli anni della prima alfabetizzazione. Per convinzione o per convenzione.

Ma che testi dettano e come dettano le insegnanti? Quali sono gli scopi che assegnano a questa attività? Che cosa imparano i bambini che scrivono sotto dettatura? L'ortografia trae davvero beneficio dal dettato?
Per rispondere a queste domande è utile leggere il volume di Elisa Farina, uscito nel 2014 per Franco Angeli, con presentazioni della pedagogista Lilia Teruggi e del linguista Gabriele Iannaccaro:
Il dettato nella scuola primaria. Analisi di una pratica di insegnamento.

Il volume nasce da una ricerca sul campo (condotta nel 2009 in alcune scuole milanesi e basata su interviste a maestre, osservazione e analisi di situazioni di dettatura in classe) e restituisce un'immagine sfaccettata di una pratica routinaria finalizzata all'interiorizzazione di corrispondenze tra suoni e grafia. Il dettato rivela infatti connessioni inattese non solo col sistema linguistico di riferimento, ma con il quadro socio-culturale in cui si colloca l'apprendimento della lettura e della scrittura.

Parto da questa constatazione, che è quella che mi ha più colpita: il dettato è efficace solo per quei bambini che sono già alfabetizzati, cioè che hanno già scoperto le corrispondenze tra oralità e scrittura (hanno cioè acquistato una padronanza sufficiente del codice scritto); per quelli che non hanno ancora compreso tale rapporto, il dettato non è di alcun aiuto. Non solo: per i bambini più in difficoltà, la pratica della scrittura sotto dettatura è un'esperienza molto più complessa e frustrante della scrittura spontanea.
L'oggetto di insegnamento della didattica della lingua deve essere individuato nelle pratiche sociali di lettura e di scrittura, facendo attenzione a evitare occasioni di scrittura fine a se stesse e prive di reali scopi comunicativi. Non potendo identificare la scrittura come la semplice traduzione dei suoni orali in grafemi, l'uso del dettato così come osservato nella presente ricerca focalizza esclusivamente l'attenzione sul codice facendo perdere di vista, in molti dei casi analizzati, il senso e lo scopo per cui si scrive.
Se riduciamo la scrittura a una tecnica da apprendere (trascurando peraltro l'entità dello sforzo cognitivo richiesto dall'impianto del circuito visivo della lingua nel cervello del bambino, che Maryanne Wolf ripercorre in un libro splendido: Proust e il calamaro), finiamo per allontanare gli allievi dalla comprensione della funzione sociale e culturale della scrittura: si scrive sempre per qualcuno, con un'intenzione precisa.

Ho letto con curiosità le interviste alle insegnanti per capire se fossero consapevoli del "rituale" previsto dalla situazione di dettatura: l'adozione di un tono di voce particolare, la riduzione della velocità di eloquio, le pause forzate.
Quando mio figlio era in seconda primaria, l'insegnante aveva dato come compito a casa un testo da farsi dettare da un adulto. Io avevo incominciato a leggere lentamente, in modo chiaro ed espressivo, ma mio figlio non scriveva. Di fronte al mio sguardo interrogativo, mi aveva spiegato che io non dovevo leggere per fargli capire il significato: dovevo DET-TA-RE. Così lui si sarebbe concentrato sulle lettere da scrivere, anziché distrarsi per seguire la storia, che peraltro non era nemmeno interessante (spesso le frasi e i testi sono solo un pretesto per inserire parole "capricciose" di cui si vuole verificare la corretta trascrizione). Insomma, mi chiedeva di decontestualizzare le parole e di adottare l'intonazione artificiale tipica della voce della maestra che sta dettato (ma solo quando recita il testo di un dettato: quando detta una comunicazione da scrivere sul diario, infatti, parla in modo normale...).
In effetti, l'analisi delle situazioni di dettatura individua una struttura comune, con una serie di istruzioni iniziali, una breve presentazione del contenuto, ripetizioni e informazioni per scrivere correttamente (spesso espresse per via di metafora: si chiede di fare attenzione a fatine, cappellini, gemelline...). Una maestra interpellata nelle interviste paragona il dettato ai lavori di casa: devi farli e li fai quotidianamente in un certo modo, ma meccanicamente, senza pensarci su ogni volta.

La ricerca conferma che dietro la pratica del dettato c'è la convinzione "adultocentrica" che l'apprendimento proceda in modo lineare e sequenziale, dal piccolo al grande: lettere, sillabe, parole, frasi... (La stessa convinzione che giustifica la presentazione delle parti del discorso nelle grammatiche scolastiche a partire dall'articolo...). Eppure le ricerche sull'apprendimento della scrittura portate aventi negli anni '80 da Emilia Ferreiro e Ana Teberovsky hanno mostrato come sia la ricerca di senso a guidare i bambini nella costruzione di idee sul funzionamento della scrittura...

Il dettato si basa inoltre sulla falsa credenza di una corrispondenza percepibile tra suoni e lettere, che nella realtà non si dà neppure in una lingua come la nostra, che pure ha fama di "scriversi come si legge": in azione, se dessi retta alla pronuncia (standard), dovrei mettere due z. Non ci sarebbe motivo per scrivere diversamente quadro e cuore, non dovremmo ricordarci di mettere la i quando insegniamo o disegniamo e che è importante imparare a mettere la m davanti alla p anche se quella che sentiamo è una n. 

L'apprendimento della scrittura a scuola comporta in effetti una sorta di "ri-apprendimento" dei suoni del parlato (che il bambino è in realtà capace di discriminare con maggiore finezza rispetto a un adulto) finalizzato alla fissazione in segni scritti. Se vogliamo che le norme ortografiche siano introiettate con successo, tuttavia, dobbiamo essere sicuri che il bambino abbia raggiunto una capacità di riflessione sulla lingua sufficiente a fargli cogliere e accettare gli aspetti convenzionali del codice scritto. Deve inoltre avere sviluppato una sensibilità per la correttezza ortografica che si acquista più facilmente attraverso la scrittura di testi significativi, che verranno letti da persone diverse dall'insegnante (che spesso si interessa esclusivamente alla correzione). Conoscere gli effetti pragmatici dell'errore di ortografia - che si tratti di mancata comprensione del testo o, più frequentemente, di una sanzione sociale (non sa scrivere...) - è la migliore motivazione al controllo della grafia.
In generale, poi, per il bambino è più utile "vedere" e non "sentire" come funziona l'ortografia: è il contatto quotidiano con i testi e la riflessione su di essi che aiuta a prendere coscienza delle convenzioni ortografiche e ad interiorizzarle, più che l'esercizio ad hoc decontestualizzato.
Insomma: se il bambino non è consapevole del carattere convenzionale delle corrispondenze tra suoni e lettere, il dettato suona a vuoto...  E quello che verificheremo è il prevedibile vantaggio di bambine e bambine nati in case con molti libri dentro.
Come per la riflessione grammaticale, dunque, meglio non anticipare troppo. Più che la pratica costante del dettato, inoltre, conta la capacità dell'insegnante di sfruttare ogni occasione utile per incoraggiare i bambini a osservare la forma delle parole e formulare ipotesi circa il modo in cui sono scritte. Utili anche i giochi di parole e forme alternative di dettato come il dettato di non-parole, il dettato muto, il dettato di gruppo, il dettato all'adulto.

Leggendo il volume, ho imparato anche qualcosa di interessante sui verbi contenuti nei testi dettati a scuola: sono quasi tutti all'indicativo presente. Le scritture spontanee dei bambini, al confronto, presentano una grande varietà di modi e tempi: forme che i bambini usano correttamente e senza preoccuparsi troppo della coniugazione (come faranno invece più avanti, quando inizieranno a confrontarsi con la memorizzazione dei paradigmi).

Interessanti anche le osservazioni relative alle parole che si sbagliano: non conta solo la difficoltà dei suoni, conta anche la frequenza d'uso di una parola: se la parola dettata non appartiene al vocabolario fondamentale è più facile cadere in errore perché non si associa quella catena a un significato.
Da questo punto di vista è interessante ricordare l'esperimento fatto da una maestra nel 2003 (ne parlò Michele Smargiassi in un articolo su la Repubblica del 6 settembre 2003): sottoporre il testo di un dettato del 1956 intitolato "Primavera in città", di cui la scuola aveva conservato le copie corrette di una classe quinta elementare dell'epoca, a bambini della stessa età ma nel 2002. Da 1,5 errori di media a bambino si passava a 5,5. Leggendo il testo, è facile rendersi conto dei motivi: gran parte delle parole trascritte in modo sbagliato dai bambini di oggi sono uscite dall'uso quotidiano... Siamo di fronte a errori fonologici (di cattiva percezione dei suoni delle parole) o piuttosto a errori lessicali? Se non ho mai incontrato parole come scialba o sciàmano, come faccio a sapere che ci va una i che è di fatto muta nella pronuncia?

Dettati, sì, dunque, ma con giudizio (e senza troppi giudizi)!
E soprattutto: leggere leggere leggere e scrivere scrivere scrivere (a mano, testi autentici). Perché è questo il migliore antidoto per gli errori di ortografia.

P.S.: A questo link si può leggere una recensione di Marco Belpoliti al libro di Elisa Farina

sabato 19 gennaio 2019

Mad Libs, ovvero l'analisi grammaticale al contrario


 


Fabbri editore ha lanciato lo scorso anno una collana di libri a tema a forma di block notes, arrivati dagli Stati Uniti (dove furono inventati negli anni '50 da due studenti in difficoltà, Roger Price e Leonard Stern): i Mad Libs (r).
Si tratta di libri gioco, anzi, di veri e propri giochi di società (ma si può giocare anche da soli), con semplici regole spiegate nelle prime pagine.

Non sono giochi qualunque: sono giochi di parole basati sulla tecnica del cloze, del "buco" da riempire all'interno di un testo. Per riempire i buchi della storia ci si può sbizzarrire con la fantasia (l'obiettivo è proprio quello di inventare "storie matte"), ma bisogna attenersi all'indicazione presente sotto lo spazio bianco, che è un'indicazione grammaticale: NOME, AGGETTIVO, AVVERBIO, VERBO, con le eventuali sottocategorie (es.: aggettivo f.s., nome m.p).

Insomma, per giocare dobbiamo fare l'analisi grammaticale... al contrario: bisogna risalire dalla categoria alla parola, scegliendo la parola con una libertà tanto più grande quanto più ampio è il nostro vocabolario.

Per rendere il gioco non troppo complicato, sono richieste solo parole "piene" (non parole funzionali come articoli, preposizioni, congiunzioni).
In alcuni casi si chiede di inserire un gruppo di parole: un sintagma nominale (es. UN + NOME M.S.) o un sintagma preposizionale (es. DEI + NOME M.P.).
Per i nomi, in alcuni casi vengono aggiunte restrizioni semantiche (es. nome di parte del corpo); in altri casi, la scelta è condizionata dalle collocazioni (es. sale in zucca).
Gli aggettivi richiesti sono solo quelli qualificativi.
Per avverbi si intendono solo quelli in -mente.
verbi da inserire sono solo all'infinito (perché compaiono in frasi dipendenti di forma implicita).

Se si gioca in gruppo, un "lettore" leggerà una storia (senza rivelarne il titolo) chiedendo via via agli altri giocatori di riempire i buchi.in modo da soddisfare la richiesta grammaticale.

Se si gioca da soli (conoscendo il titolo della storia), prima si riempie la lista delle parole fuori contesto, poi si passa a trascriverle nei rispettivi "buchi", in modo da rendere più impensato e fantasioso il risultato.

«Non esiste nulla di più avvilente che vedere un bambino trattare le classi di parole come le tradizionali “parti del discorso”, “riconoscendo” una determinata categorie di parole come “sostantivi” e ripetendo pappagallescamente, allorché gli viene chiesto cosa intenda per sostantivo, che esso indica “persona, animale o cosa”.» (J. Bruner, 1967)




E se invece di avvilirci e avvilire i ragazzi, provassimo a giocarci su, ragionando a partire dai testi? Perché di concetti come "nome" o "verbo" non possiamo far(n)e a meno, ma se partiamo dalla definizione (peraltro banalizzata e fuorviante) abbiamo già perso la partita...

lunedì 14 gennaio 2019

Il potere dell'alunno (intorno a un libro di Philippe Meirieu)



Qualche post fa ho cercato di disegnare, sulla scorta di un libro del filosofo Jacques Rancière, un profilo dell'insegnante che fatica ad abdicare alla propria autorità, ad abbandonare la postura verticale del correttore e sanzionatore, a posare sullo studente uno sguardo non clinico, non cinico.
Questa volta vorrei raccontarvi di una lettura che mi ha portata a riflettere sul potere di chi apprende: si tratta di un volumetto intitolato Il piacere di apprendere, scritto da un pedagogista d'eccezione, Philippe Meirieu, pubblicato da Lisciani editore con la traduzione dal francese di Christine Cavallari e un'Introduzione di Carlo Petracca (dal quale ho avuto il libro in dono).
È l'alunno che detiene il potere, poiché nulla lo può costringere a mobilitarsi sui saperi, per importanti e attraenti che siano. È l'alunno che detiene il potere, poiché se i saperi sono a lui preesistenti, è lui che nei suoi apprendimenti e nel suo sviluppo preesiste rispetto ai saperi. È la sua attenzione che è necessaria, il suo impegno che è richiesto, il suo studio che, solo, può farlo progredire.
Quante volte ci dimentichiamo di questa verità semplice, pretendendo che l'alunno mobiliti la sua intelligenza e creatività a comando, pronto a entrare in un contesto educativo appositamente predisposto da adulti forti del loro sapere, saper essere, saper fare.
Ma nessun insegnante può imporre il proprio insegnamento se non c'è nell'alunno la volontà e il desiderio di imparare. Il "piacere di apprendere" nasce appunto dall'incontro tra la determinazione dell'insegnante nel trasmettere i saperi necessari per l'emancipazione dell'alunno e la disponibilità dell'alunno ad accogliere la fatica di apprendere (attività che ha costi temporali, psichici, economici, ed è cosa diversa dal semplice sapere).
Perché questo incontro avvenga è necessario che, da una parte e dall'altra, si superi quello che Meirieu definisce utilitarismo scolastico: un'ideologia di mercato dominante in campo sociale, diffusa anche nelle scuole, per cui conta solo ciò che ha un valore immediatamente spendibile.
L'utilizzo incantatore del termine competenza nei programmi scolastici indica, a questo riguardo, l'incapacità della scuola di mobilitare gli allievi sulle vere sfide culturali, a vantaggio dei criteri della semplice occupabilità: non si insegna niente se non ciò che è utilizzabile e che è funzionale a uno scopo. 
Questo è solo uno degli esempi della critica ai luoghi comuni della pedagogia e della didattica (la tradizione francese non fa distinzione tra i due concetti) cui Meirieu ha dedicato uno splendido libro uscito lo scorso anno per Aracne: Pedagogia: dai luoghi comuni ai concetti chiave (che ho ricevuto in dono da Silvana Loiero). Qui, ripercorrendo la storia del pensiero pedagogico, Meirieu sviscera concetti diventati slogan, dietro i quali si cela una complessità intrinseca (non scevra da contraddizioni): la "motivazione", per esempio, o le "metodologie attive" ritenute ineludibili per coinvolgere alunni sempre più svogliati e indisciplinati. Come le cancre, la peste, ritratto nella poesia omonima di Jacques Prévert (da Paroles):

Il dit non avec la tête
mais il dit oui avec le coeur
il dit oui à ce qu’il aime
il dit non au professeur
il est debout
on le questionne
et tous les problèmes sont posés
soudain le fou rire le prend
et il efface tout
les chiffres et les mots
les dates et les noms
les phrases et les pièges
et malgré les menaces du maître
sous les huées des enfants prodiges
avec les craies de toutes les couleurs
sur le tableau noir du malheur
il dessine le visage du bonheur.


Chi è questo alunno svogliato? Non riesce perché non è motivato? Oppure è vero il contrario: non è motivato perché non è mai riuscito (e la sfacciataggine esibita non è altro che una strategia di difesa per evitare l'umiliazione dello scacco)? "In classe niente immobilizza di più dell'insucesso" - ricorda Meirieu, che ci  invita a guardare all'apprendimento come a un processo che non deve eliminare la libertà e la soggettività dell'alunno, ma accoglierla; che deve invitare tutti e ciascuno a "scoprire l'orgoglio di riuscire e il piacere di superarsi".

Quello che Meirieu ci consegna è il ritratto di un docente che riesce a mantenere uno sguardo incoraggiante e valorizzante; che non solo riesce a suscitare interesse, ma trasmette il piacere del conoscere, la fatica e la gioia del pensare. Un insegnante che non si accontenta di formule vuote, non si libera del peso del rigore istituzionale, non è preda dell'ossessione valutativa, non cede alla tentazione di svuotare i saperi disciplinari (sui quali si fonda la sua competenza) in nome della didattica per competenze. Al contrario, ha l'umiltà di porsi a fianco dell'allievo, nella posizione non di chi detiene saperi incontrovertibili, ma di chi apprende mentre insegna:
Perché insegnare è un mestiere strano: la padronanza delle conoscenze deve permettere di mettersi al posto di coloro che le devono acquisire. Meglio ancora: di rifare il cammino con ognuno degli alunni. 

Per far ciò, per offrire il piacere di apprendere, "bisogna prendere piacere dal prendere. Dal prendere il mondo e la cultura di petto". Prendere per donare, senza impoverirsi né impoverire.
Non è da tutti, certo. Ma Meirieu dà qualche suggerimento applicabile anche dai più inamovibili: passare dalla domanda "a che cosa serve?" alla domanda "come funziona?" - che poi è un modo per non consegnarsi alle logiche neoliberiste senza per questo rifugiarsi nel passato.

Anche nell'ambito della grammatica è possibile mettere in atto quella che lui chiama pedagogia del capolavoro, prendendo spunto dalle pratiche delle botteghe medievali.

Sulla stregua dei bozzetti che realizzavano gli apprendisti come esito del loro percorso iniziatico, ogni attività di apprendimento che noi proponiamo ai bambini o agli adolescenti dovrà loro permettere, nello stesso tempo, di appropriarsi delle conoscenze trasmesse dalle generazioni precedenti e di metterle alla prova con un atto di creazione personale.
Prove autentiche e guidate, dunque, al posto dei "compiti di realtà" (che dopodomani saranno superati da una realtà in continuo cambiamento). Felici miniaturizzazioni che diventano testimonianze del pensiero in azione; comprensione del modello che diventa ri-creazione personale: i grafici radiali, a ben vedere, servono proprio a questo.

Il metodo di Meirieu è applicabile non solo alla lingua, ma alle opere prodotte in una certa lingua. Una forma di accesso nuovo alla tradizione, così lontano dagli esercizi standardizzati imperanti, fatto di incontri significativi con prodotti della cultura modellati da altri uomini, da altre donne.
Un metodo che si traduce inoltre in pratiche di scrittura nuove e consapevoli, basate sulla precisione e sulla libertà, in cui l'obiettivo diventa "avvicinarsi all'espressione più appropriata e trasformare le costrizioni della lingua in risorse del pensiero".

Felice lettura!
E per chi volesse ascoltare la voce di Meirieu e una sintesi del suo pensiero su educazione e cittadinanza, rimando a questa intervista video realizzata da Enrico Maria Bottero per Rai Scuola.


P.S.: In prossimità della giornata della memoria, mi piace ricordare la vicinanza di Meirieu alla figura di un grande educatore, il polacco Janusz Korczak (1878-1942), pioniere dei diritti dell'infanzia nell'Europa dei nazionalismi e dei fascismi, convinto sostenitore dell'importanza di rispettare e coinvolgere i bambini nel processo educativo. Al racconto della sua straordinaria avventura umana sono dedicati due bellissimi libri illustrati usciti di recente: Korczak. Perché vivano i bambini (testi di Philippe Meirieu, illustrazioni di Pef, edizioni Junior, 2014) e Il mio maestro Janusz Korczak (testo e disegni di Itzchak Belfer, Gallucci, 2019). A questi si aggiunge L'ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini, di Irène Cohen-Janca (Orecchio acerbo, 2015). Per chi volesse saperne di più, rimando a questo mio articolo.     

venerdì 11 gennaio 2019

Elogio del punto e virgola (intervista a Paola Baratter)



È da poco uscito un libro dedicato al punto e virgola, che ricostruisce la storia del segno e le sue funzioni nella lingua scritta.
 
Si tratta davvero di un segno "ostico" e ormai in via di estinzione?
Il suo uso è da leggere come segno di distinzione? O magari come iconica strizzata d'occhio? 

La parola a Paola Baratter, che ha risposto per iscritto a queste e ad altre domande.
 

Non lo definirei ostico, ma certamente il suo uso non è immediato. A differenza del punto o della virgola, per i quali ci sono alcune regole precise che indicano quando usarlo e quando non usarlo (pur lasciando grande spazio allo stile dello scrittore), per il punto e virgola non ci sono casi in cui deve essere obbligatoriamente usato, tanto che ci sono molti scrittori di professione che non lo usano; e anche alcuni che se ne vantano. Fa eccezione il suo impiego come separatore seriale quando tra gli elementi di un elenco sono già presenti delle virgole. Ma quella che presenta elenchi complessi è una prosa piuttosto articolata e quindi non molto diffusa; forse sta proprio in questo il suo essere un segno di distinzione. E comunque l’alternativa semplificatoria c’è: chiudere la frase con un punto e recuperare gli altri elementi in una nuova frase.

Possiamo fare anche a meno del punto e virgola, certo, ma per raggiungere un grado di efficacia comunicativa comparabile è necessario essere scrittori molto competenti.
Comunque il punto e virgola non è in via di estinzione. Nella prosa formale - giuridica, saggistica e anche narrativa - è usato frequentemente e con grande soddisfazione di tutti; in quella informale, specialmente digitale, caratterizzata da brevità e enfasi, fa capolino come faccina ammiccante.






Nel libro le funzioni del segno sono riassunte  con una terna: enumerare
argomentare e isolare. In quale di queste funzioni il segno si mostra più vitale? Da cosa è stato rimpiazzato nei testi in cui non compare? Ci ha guadagnato più il punto, o la virgola?
   
Il segno esprime la sua piena vitalità nell’isolare: parole, sintagmi, frasi. Con questa funzione è usato in letteratura, tanto in prosa che in poesia, e nella scrittura giornalistica brillante. Si tratta di un uso strettamente comunicativo e, in quanto tale, difficilmente rimpiazzabile. E quindi il suo cadere in disuso non porta guadagno per nessuno, si perde tutti.
Nella prosa formale, soprattutto in quella giuridica, resiste bene nel suo uso più tecnico visto sopra: lo troviamo molto spesso negli elenchi puntati. Qui, quando manca, a guadagnarci (o meglio, a fare il lavoro al suo posto) è la sintassi, cui tocca riempire i buchi di un elenco complesso che necessita di essere smembrato.
Nella prosa saggistica e in quella narrativa il suo uso tipico è davanti a un connettivo forte, frequentemente di tipo dichiarativo (infatti) o avversativo (ma). In questo caso è talvolta rimpiazzato dal punto, che amplifica il passaggio argomentativo.
 

Come studiosa, ti sei occupata anche di grammatica valenziale. Il punto e virgola è un segno che sembra sfuggire alle maglie della sintassi: il suo valore si comprende meglio all'interno della dimensione del testo. Sei d'accordo? Ritieni che anche la dimensione prosodica influenzi la scelta?

Se usiamo il punto e virgola nella sua funzione più tecnica il suo comportamento è analogo a quello di una virgola seriale e quindi lo possiamo trovare a qualsiasi livello; altrimenti, ed è il caso più frequente, il segno coincide con un confine di frase a va quindi a interessare il testo nel suo complesso. Talvolta lo possiamo trovare nel nucleo di una frase, con la funzione di isolare un argomento del verbo, ma si tratta evidentemente di un uso comunicativo non adatto a tutti i tipi di testo.
Riguardo ai rapporti con la prosodia bisogna innanzitutto ricordare che, contrariamente al luogo comune, la punteggiatura moderna non ha lo scopo di aiutare la lettura ad alta voce, ma piuttosto di guidare il lettore silenzioso nella decifrazione del testo e nel riconoscimento dei rapporti di gerarchia tra le parti, nonché qualche volta di stupirlo con una scelta antisintattica. Pur ammettendo che alcuni segni possano dare indicazioni per la lettura ad alta voce - penso al punto esclamativo, a quello interrogativo o ai puntini di sospensione - questo non vale certo per gli altri segni, e a maggior ragione per il punto e virgola, che difficilmente possiamo distinguere da una virgola, da un punto o dai due punti in base alla lunghezza della pausa.


Come dirigente scolastica conosci la realtà delle scuole e il posto che alla punteggiatura spetta nei curricoli verticali, nei libri di testo, nelle pratiche degli insegnanti. Ci sono "punti critici", a tuo parere?


Nella scuola primaria la punteggiatura viene spesso insegnata facendo riferimento alla lingua parlata, affermando che dove nella lingua parlata c’è una pausa, nello scritto dovrebbe figurare un segno interpuntivo. Qualsiasi esperimento di trascrizione di un testo orale dimostra che le pause corrispondono solo parzialmente alla punteggiatura del testo scritto: le pause sono infatti un prodotto peculiare della lingua parlata, poco pianificata, soggetta a riformulazioni, cambi di piano e inserita in un contesto situazionale dal quale possono dipendere rallentamenti, accelerazioni, ripensamenti e enfatizzazioni. Questa confusione emerge emblematicamente nell’uso della virgola posta tra il soggetto e il verbo: infatti nell'oralità, che è per sua natura enfatizzante, spesso il soggetto è seguito da una pausa. Anche se si leggesse ad alta voce un testo scritto, la scelta interpuntiva varierebbe in base allo stile di scrittura di ciascuno di noi, e la inseriremmo non sulla base delle pause, ma ragionando sulla costruzione sintattica e sul significato trasmesso dal testo.
A mio parere l’insegnamento veramente utile è quello che mira a osservare come è fatto un testo, a capire l’effetto suscitato da una particolare scelta interpuntiva, a invitare a riprodurre i modelli che funzionano. Il sistema interpuntivo, che è appunto un sistema e quindi trova significato nei rapporti reciproci tra gli elementi che lo compongono, andrebbe insegnato attraverso una ricca esemplificazione. La punteggiatura, come tutta la riflessione grammaticale, dovrebbe essere studiata approfonditamente soprattutto nel triennio degli istituti superiori, quando gli studenti sono in grado di apprezzare con pienezza le differenze di risultato tra una scelta e un’altra.


"La virgola vive in un punto che esprime un rimpianto congiunto" - canta Ada Montellanico, alludendo a una porta socchiusa. Quale valore "emotivo" associ al punto e virgola? Sembra anche a te che "vibri di logicità" e sia un modo per dare "respiro e profondità"?


Il punto e virgola è un segno che chiude qualcosa, ma solo temporaneamente. Dopo il punto e virgola, prima o poi, dovrà sempre venire un punto, ma tra questi due segni potranno trovare spazio molte virgole e anche alcuni punti e virgola. Possiamo dire che è il segno della possibilità, una possibilità aperta a svariate soluzioni, anche all’eventualità di un capovolgimento totale; non a caso lo troviamo spesso davanti al ma. 





Questo segno, lo ricordiamo, è stato adottato come simbolo da chi, colpito dalla depressione, lotta per uscirne.
Ma c’è un altro aspetto emotivo molto forte: il segno istituisce un dialogo tra chi scrive e chi legge, il quale incontrando un punto e virgola sa che proseguendo nella lettura troverà qualcosa di correlato a quanto già letto, ma non sa in che modo: il punto di cui si compone il segno gli dice di capitalizzare quanto letto, mentre la virgola gli dice di attendere, che non tutto è come sembra.
In questo senso è logico; e al contempo profondo.



La punteggiatura è un tema che sta conoscendo un buon successo editoriale negli ultimi anni: pensi che l'interesse sia legato alle incertezze nell'uso, o magari a un rinnovato bisogno di regole e "confini"?   


Ritengo che il successo editoriale di libri sulla punteggiatura derivi dal fatto che mai come negli ultimi anni la gente scriva. Se fino a vent’anni fa una volta concluso il percorso scolastico le occasioni di scrittura per la maggior parte delle persone erano dovute a eventi particolari, talvolta drammatici, oggi tutti scrivono, dal messaggio in chat alla presentazione del proprio profilo sui social, ai commenti nel web. Credo che questo rinnovato incontro con la scrittura abbia portato a porsi domande sulla propria lingua e, quindi, anche sulla punteggiatura, poco studiata a scuola e poco conosciuta. Non tralascerei inoltre il fatto che la lingua, primo oggetto culturale, è sotto gli occhi di tutti ed è naturale che chi voglia migliorarsi culturalmente decida di partire da lì.






P.S. Ora che avete letto l'intervista, divertitevi a tornare indietro e a osservare la trama dei ; nel testo.

sabato 5 gennaio 2019

Chiamateli col loro nome (GRS)

Chi conosce la grammatica valenziale ha fatto conoscenza anche con i grafici a ovali concentrici (indicanti le diverse aree della frase, che si irradiano a partire dal verbo), con cerchi di colore rosso e blu (che identificano i diversi costituenti della frase), congiunti da linee e punti (i legami sintattici).
Questi grafici sono un'invenzione di Francesco Sabatini e vanno d'ora in poi citati col loro nome, riconoscendone la paternità: "GRS", ovvero Grafici Radiali Sabatini.






Chiunque usi questi grafici dovrebbe attenersi alla forma estesa e corretta di citazione, rispettando i codici grafici che li caratterizzano (gli ovali non sono rettangoli, il rosso non è l' arancione e cosi via) e la terminologia che li accompagna (in particolare la distinzione tra "argomenti", "circostanti" ed " espansioni").
Chi voglia invece seguire Tesnière ricorrerà agli schemi ad albero, o stemmi, e alla relativa terminologia.

In tutti i modelli scientifici che si rispettino si usano termini eponimi che designano forme di rappresentazione schematica di teorie: diagrammi di Venn, di Bode, di Gantt, cartesiani e cosi via.
Dato che la grammatica valenziale costituisce un modello scientifico di descrizione della frase, e gli schemi relativi sono un prodotto dell'ingegno, se vi piacciono e li ritenete utili, usateli pure ma chiamateli col loro nome: GRS.

Finora, la generosità del pioniere e l'entusiasmo dei neofiti hanno lasciato il campo a varie appropriazioni e deformazioni indebite.
Ora che il modello sta acquistando una sempre maggiore (e talora incontrollata) diffusione, al di la dei libri che ne hanno promosso la conoscenza, è il momento di distinguere "il falso e vero verde" (Salvatore Quasimodo).
Chi adotta questo sistema di rappresentazione della struttura della frase all'interno di pubblicazioni scientifiche  e didattiche o in materiali destinati alla formazione, gratuiti o paganti che siano, è tenuto a farlo con consapevolezza di causa e nel rispetto della correttezza scientifica.
Il fatto che questi schemi siano apparsi anche in grammatiche scolastiche non autorizza a usarli come se fossero una qualsiasi trovata di un grafico brillante. (I dizionari, come pure le grammatiche, tendono a funzionare secondo una regola non scritta, così sintetizzata da Camillo Sbarbaro: "son come i coppi, uno porta l'acqua all'altro" - ma anche le acque si chiamano col nome della fonte).

In fondo non è chiedere molto, in confronto a tutto il lavoro di studio e di ricerca che viene messo liberamente a disposizione della comunità scientifica e scolastica (anche attraverso questo sito).
Non vi pare?