NEW! Da questo post è nato un articolo uscito sulla rivista "Infanzia" (3/2020), intitolato Parole, paroline, paroloni.
Solo se è solo a leggere, o ascoltare,
il piccolo lettore, o ascoltatore,
Se solo non sarà, saranno come
cose dal suono arduo e sconosciuto,
giochi prima segreti, misteriosi,
strani e stranieri, ma subito nuovi
e possibili nomi del mondo.
Questi versi di
Roberto Piumini sono la risposta più efficace a un articolo uscito il 23 agosto sul supplemento domenicale del Sole 24 ore, a
firma di
Matteo Motolese, intitolato
C'erano una volta... gli afidi, dedicato alla lingua degli albi illustrati e delle fiabe per bambini.
Lo spunto dell'articolo viene dalla lettura di un albo dell'illustratore statunitense
Erik Carle. Non il celebre piccolo bruco mai sazio (in inglese
the very hungry caterpillar), ma la coccinella prepotente (in una precedente traduzione, uscita per Emme edizioni nel 1981, era
semprearrabbiata), che infastidisce gli altri animali più grandi e più forti di lei ripetendo: "Fatti sotto, battiti con me" (la traduzione attuale è di Glauco Arneri).
Il libro è cartonato, la tecnica pittorica è quella del collage, le pagine e i caratteri crescono con l'aumentare delle proporzioni degli ignari sfidanti della coccinella, mentre un piccolo orologio segnala il passare del tempo e il progredire della storia, finché la coda di una balena non rimanda la coccinella al punto di partenza: una foglia piena di afidi - la colazione ideale per due coccinelle (se solo la coccinella prepotente fosse in grado di dividere il pasto con una compagna delle sue proporzioni).
Si tratta, come spesso nei libri di Carle, di una storia basata sull'accumulo e la ripetizione: di schema narrativo e frasi ad alto tasso di formularità - al provocatorio "fatti sotto...", e alla risposta riluttante dello sfidante di turno ("se proprio lo vuoi"), segue la battuta insolente della coccinella ("lasciamo perdere, sei troppo piccolo/a per me").
Anch'io ho letto decine di volte questa storia con i miei figli, insieme con le altre di Eric Carle (il piccolo ragno che tesse e tace, la lucciola tutta sola, il piccolo grillo zitto zitto - con carillon integrato nell'ultima pagina, che faceva sentire il frinito). Sono piccoli tesori di etologia (e di terminologia naturalistica) che hanno insegnato ai miei figli a osservare con stupore e curiosità il mondo degli animali, aiutandoli anche a riconoscere dinamiche relazionali complesse (perché da grandi incontreranno tante personalità: alcune silenziosamente luminose e operose, altre megalomaniche e manipolatrici sotto le mentite spoglie di adorabili portafortuna - e se sapranno riconoscerle con l'aiuto di una storia ascoltata da bambini, anziché col DSM-IV alla mano, tanto di guadagnato!).
Non ricordo nessuna impressione di straniamento linguistico (né mio né loro) alla lettura dell'albo (che era il loro preferito perché, a differenza degli altri libri di Carle, potevano maneggiarlo da soli grazie alle dimensioni ridotte, la robustezza delle pagine e la disposizione scalare). Del resto abbiamo sempre avuto rose in terrazza, e a ogni bocciolo si riaccende la lotta con gli afidi che vorrebbero farci colazione. Io detesto gli afidi, le cocciniglie e tutti gli altri parassiti che rovinano il mio lavoro di giardinaggio urbano. Nel libro si vedono bene, piccoli e scuri, sempre in gruppo (infatti parliamo di afidi al plurale), intenti a smangiucchiare e far arricciare le foglie. Così come è ben raffigurato il cervo volante (il primo degli involontari sfidanti della coccinella), che pure i miei figli non avevano mai visto dal vero.
I nomi di animali e piante sono parole che appartengono alla realtà, prima ancora che ai libri illustrati: a volte basta l'esperienza della vita in campagna per impararle, ma è vero che i libri illustrati possono essere un valido supporto a quella che i linguisti chiamano la "competenza referenziale" - la capacità di nominare le cose quando le vediamo (ma anche in loro assenza, purché le conosciamo e le riconosciamo).
C'è poi un'altra componente della padronanza lessicale: la "competenza inferenziale", ovvero la capacità di riconoscere i rapporti tra parole (sapere per esempio che l'afide, la coccinella e il cervo volante sono insetti, che volano perché hanno le ali ecc.). Entrambi le capacità agiscono nell'apprendimento del lessico: i bambini piccoli mostrano una sorprendente capacità di acquisire parole nuove sulla base di poche informazioni, collegando una catena di suoni non interrompibile (come àfide, col suo suono sdrucciolo) alla corrispondente rappresentazione mentale (animaletto che rosicchia le foglie, animaletto che piace alle coccinelle, pidocchio delle piante, e così via - procedendo verso definizioni sempre più astratte e formalizzate). Perché non si tratta soltanto di abbinare la parola alla cosa (le parole non sono etichette e non si insegnano con l'indice puntato).
Avendo a che fare con future insegnanti di scuola materna e primaria ed educatrici di nido, ho imparato poi a distinguere tra "capacità epilinguistica" (basata su conoscenze inconsapevoli, procedurali e non dichiarative, che portano alla scoperta dei significati) e "capacità metalinguistica" (riflessione consapevole ed esplicita sulla lingua). Perché esiste, nel sottobosco delle discipline educative, una letteratura che esplora anche questi temi:
in che modo i bambini si avvicinano al senso di una parola o di una frase, quali strategie usano per rappresentarsene il significato. Rodari già ne parlava nella sua
Grammatica della fantasia (1973):
Non potremo mai cogliere il momento in cui il bambino, ascoltando una fiaba, si impadronisce per assorbimento di un determinato rapporto tra i termini del discorso, scopre l’uso di un modo verbale, la funzione di una preposizione: ma mi sembra certo che la fiaba rappresenta per lui un abbondante rifornimento di informazioni sulla lingua. Del suo lavorio per capire la fiaba, fa parte il lavorio per capire le parole di cui consta, per stabilire tra loro analogie, per compiere deduzioni, allargare o restringere, precisare o correggere il campo di un significante, i confini di un sinonimo, la sfera d’influenza di un aggettivo.
Tornando alla mia esperienza genitoriale, confrontata con quella del collega: anch'io, come lui, ho incontrato nei libri che avevo scelto per i miei figli alcune parole che non conoscevo o che comunque non usavo. L'ho sempre considerata una fortuna, per me e per loro. Non mi sono preoccupata di "cambiare, semplificare, avvicinare la lingua" (forse perché i libri scritti o tradotti male li avevo già scartati) né di spiegare significati. Se e come certe parole abbiano agito nel loro immaginario l'ho scoperto dopo. E vorrei raccontare alcuni episodi per mostrare che no, non è vero che "i lemmi difficili sono in grado di lasciare tracce fertili solo in un pubblico già adulto" (non condivido neppure l'affermazione secondo cui gli occhi dei bambini di 3/4 anni "si fissano solo sulle figure": basta leggere il
libro di
Lilia Teruggi per capire con quanta attenzione i bambini già a questa età osservino il testo provando a fare ipotesi sulla lingua scritta).
Quest'estate ho sentito mio figlio (11 anni) chiamare "paguro Bernardo" (come il protagonista di un altro albo illustrato di Carle) il mollusco che aveva trovato scandagliando il fondale sabbioso con la maschera. L'ho sentito anche ridacchiare con i suoi cugini più grandi mentre ripetevano versi mandati a memoria da piccoli e ripescati per rinsaldare con fierezza la loro "cuginanza": "Gli Snicci stellati sulle pance hanno stelle. Gli Snicci comuni hanno solo la pelle. Non son stelle grandi, ma piccine abbastanza da farti pensare che non hanno importanza" (dall'albo del
Dr. Seuss, nella traduzione di Anna Sarfatti).
Mia figlia di 14 anni mi ha fatto invece notare un'espressione che aveva appena letto in un classico:
una ridda di pensieri. Non aveva mai incontrato questa parola in un libro, eppure le suonava familiare e riusciva a intuirne il significato. Forse perché si ricordava della
ridda selvaggia che i mostri del libro di
Maurice Sendak "attaccano" insieme con il piccolo Max, nella splendida traduzione di
Antonio Porta (anche questa pubblicata per la prima volta da Emme edizioni nel 1981, e poi riproposta da Babalibri nel 1999). Il libro è stato recentemente riedito da Adelphi in una nuova traduzione, di Lisa Topi: qui la scomposta
ridda selvaggia è stata addomesticata in un
finimondo che i nuovi compagni di avventura dovrebbero "scatenare". Abbiamo guadagnato in leggibilità, certo, ma non necessariamente in qualità letteraria (personalmente, lamento anche la caduta della reduplicazione espressiva
crebbe crebbe crebbe, che il poeta Porta aveva oculatamente inserito, memore del naso di Pinocchio e del proprio orecchio di bambino in ascolto delle fiabe italiane). Né ci abbiamo guadagnato in termini di potere euristico della lingua, che in un libro per ragazzi dovrebbe aprire mondi, non chiuderli come si fa con una finestra quando si scatena una tempesta (
qui trovate una bella lettura di questo classico per l'infanzia, che ricorda agli adulti la complessità della costruzione della personalità tra norma e avventura, spontaneità e maschere; se invece volete conoscere le fonti della grande pittura che hanno ispirato Sendak leggete
qui). Sendak era ben consapevole di tutto ciò (la citazione, che trovo tradotta in questo bel
post, è tratta dal volume di S.G. Lanes,
The Art of Maurice Sendak, Abradale Abrams, 1993):
«Credo che i bambini intuiscano il significato profondo di ogni cosa. Sono solo gli adulti che per la maggior parte del tempo leggono la superficie. Sto generalizzando, naturalmente, ma le mie illustrazioni non sorprendono i bambini. Loro sanno cosa c’è in queste storie [di Grimm]. Sanno che matrigna significa madre, e che il suffisso -igna è lì per evitare che gli adulti si spaventino. I bambini sanno che ci sono madri che abbandonano i loro bambini, emotivamente, non letteralmente. Talvolta vivono con questa realtà. Non mentono a se stessi. E vorrebbero sopravvivere, se questo accade. Il mio obiettivo è non mentire loro.»
Finora, abbiamo parlato di libri in traduzione (non di testi in lingua originale) e di traduttori molto consapevoli: il che dovrebbe essere la norma nella traduzione di albi illustrati, ma purtroppo così non è per un motivo piuttosto banale. Non sempre gli albi illustrati sono capolavori della letteratura senza etichette, come in questi casi. E poi gli albi illustrati hanno poco testo da tradurre: così, quando la lingua fonte è una lingua nota (come l'inglese o il francese) nulla vieta che ci si rivolga a un redattore interno o a un amico o a un figlio... Peccato che i nodi vengano subito al pettine, producendo danni molto maggiori rispetto a quelli provocati da una cattiva traduzione per adulti: perché i bambini e i ragazzi hanno più orecchio di noi adulti e sentono subito le stonature, le frasi inautentiche - frutto di calchi dalla lingua dell'originale, o di una scarsa conoscenza dei codici della letteratura fiabesca e dei grandi testi per ragazzi in italiano. Quanti "piccoli conigli" che avrebbero potuto essere chiamati "coniglietti", quante ammonizioni con un possessivo di troppo ("mangia i tuoi spinaci"), frasi con pronomi soggetto ridondanti (ricalcate su lingue che devono esprimere obbligatoriamente il soggetto davanti al verbo)... per non parlare dei "falsi amici" che tradiscono sempre i traduttori meno esperti (l'aquilone chiamato "cervo volante", per dire), o delle espressioni idiomatiche che in italiano non si sono mai sentite ("trovare scarpe per i propri piedi", anziché "pane per i propri denti").
Questo, dal mio (e non solo) punto di vista, è il limite maggiore dei libri per i più piccoli, che oggi vengono sempre più spesso importati (anche perché in altri paesi le case editrici sono molto più disposte a investire nell'illustrazione di qualità, che fa la qualità di un albo illustrato). Quello della riscrittura di classici (ridotti e tradotti in un italiano più moderno) è un altro problema ancora, che pure ha a che vedere con la qualità e la quantità massiva di (ri)proposte editoriali in tempi di crisi economica (evito di parlare dei non-libri, ovvero dei prodotti cartacei derivati da cartoni animati, video amatoriali e compagnia brutta). Il problema, dunque, esiste, e vale la lena discuterne.
Tenendoci ai testi per bambini in lingua originale (o autotradotti dall'autore), esemplari le parole di Leo Lionni (nel libro L'immaginario come mestiere, Electa, 1990, p. 26)
Nei libri per bambini ci dev'essere una metafora decifrabile, ma anche qualcosa di indecifrabile. Sono stato fra primi a voler usare parole incomprensibili e a lottare con i redattori per questo: non credo che il bambino debba crescere in un'atmosfera in cui tutto gli è chiaro. Sono convinto che le cose che un bambino non capisce agitino la sua immaginazione, accendano la sua curiosità.
Possiamo citare anche quanto scrive un celebre e celebrato scrittore per ragazzi,
E.B. White in una
intervista pubblicata nel 1969 su
The Paris Review:
Anyone who write down to children is simply wasting his time. You have to write up, not down. Children are demanding. They are the most attentive, curious, eager, observant, sensitive, quick, and generally congenial readers on earth. They accept, almost without question, anything you present them with, as long as it is presented honestly, fearlessly, and clearly.
Some writers for children deliberately avoid using words they think a child doesn’t know. This emasculates the prose and, I suspect, bores the reader. Children are game for anything. I throw them hard words, and they backhand them over the net. They love words that give them a hard time, provided they are in a context that absorbs their attention.
Questo è il punto. Non bisogna avere paura delle parole difficili, purché non siano fini a sé stesse (sono disposta a perdonare anche quell'emasculate...). Come fa la protagonista del libro di White intitolato La tela di Carlotta (nell'originale The Charlotte's Web): una ragnetta che insegna all'amico maialino parole difficili per renderlo speciale agli occhi dei padroni e provare a salvarlo dal suo destino di porco.
Il difficile è catturare l'attenzione con la qualità delle proposte: ma come rimanere indifferenti alla ragnetta letterata che aveva intuito molto prima degli psicologi cognitivisti il ruolo che ha il linguaggio nella costruzione dell'immaginario? Se poi il piccolo ascoltatore o la piccola ascoltatrice vorrà conoscere (o avere conferme su) il significato di una parola contenuta in una storia avvincente, ci chiederà "che cosa vuol dire?". Oppure, semplicemente, "Come? Cosa?" (è il titolo di un albo di Fabian Negrin che mi hanno fatto conoscere le mie studentesse). E noi proveremo a spiegarlo, oppure chiederemo al piccolo di provare a indovinare, con l'aiuto del contesto: sarà l'occasione per reimparare le tecniche di definizione che usavamo prima di scoprire il metalinguaggio dei dizionari: "è come...", "è quando...", "sembra...", "assomiglia a".
Anche più avanti negli anni, alle prese con il testo che più spesso offre occasioni di incontro con "parole difficili" o con accostamenti inconsueti di parole (la poesia), sarebbe importante incoraggiare ragazze e ragazzi a spiegare il senso (perché non di mero significato si tratta) delle parole o delle combinazioni non note, senza correre alla glossa in nota (anche perché nella migliore poesia non esistono sinonimi: esistono solo parole giuste, e il poeta le conosce). Bisognerebbe inoltre porgere più spesso la poesia con la voce, anziché in forma scritta, per incoraggiare a sentire il ritmo e usarlo come via di accesso al senso.
Vale la pena leggere quanto racconta uno dei grandi poeti del nostro Novecento, Giorgio Caproni, che insegnò come maestro elementare nel quartiere popolare di Monteverde, a Roma, e per un anno girò nelle scuole a leggere poesie di altri autori (in Sulla poesia, Italo Svevo, 2016. L'episodio è ricordato anche dalla figlia Silvana nella testimonianza contenuta all'interno del volume Poeti in classe, a cura di Evelina De Signoribus e Elena Frontaloni, Italic Pequod, 2017).
Non è vero che i bambini non comprendessero. Non comprendevano se io gliela scrivevo alla lavagna e gliela lasciavo inerte nel linguaggio grafico, ma se, pur dicendola male, gliela porgevo con la voce credo che rimanessero a bocca aperta. Io mi ricordo una volta
Forse perché della fatal quiete / Tu sei l’imago
Poi mi misi a ridere, dissi, ironicamente: «figuriamoci se voi capite che cos’è la fatal quiete». «Aho!», fecero, «è la morte!». Avevano capito benissimo.
Viva la poesia detta, oltre che letta! Vivano le fiabe e la "voce remota".
P.S.: A proposito di storie che insegnano a scendere a patti con gli altri e con i mostri che ci portiamo dentro, avete mai letto Una zuppa di sasso? E la brava Beatrice Alemagna, che si autotraduce dal francese? Se poi volete lavorare a scuola con gli albi, potete leggere questo post e questo (dedicato alla riflessione grammaticale).
P.P.S.: Sono consapevole che - in un paese di non-lettori - i figli dei professori rappresentano una minoranza di bambini, avvantaggiati almeno per quanto riguarda la disponibilità di libri, di un lettore o una lettrice forte disposti a leggere per/con loro (mediando se necessario), di un modello linguistico più ricco della media. I buoni libri per l'infanzia, però, non parlano solo a loro: riescono a catturare l'attenzione anche dei bambini più resistenti: i "ragazzi di strada" - come li chiamava Collodi - pronti dare i libri in pasto ai pesci; quelli che vengono da famiglie diffidenti nei confronti della cultura e della pretesa superiorità del sapere appreso sui libri. Proprio a loro, anzi, può cambiare la vita. Per questo è importante che ogni insegnante impari a valutare i libri per bambini e ragazzi, e a suggerire i libri giusti - quelli che avvicinano a (e non allontanano da) scuole e biblioteche, che invogliano a procurarsi altri libri e a esplorare nuovi mondi possibili, che innescano processi di cambiamento. Libri attuali, senza "paroloni" inutili, ma capaci di fornire quella ricchezza linguistica e immaginativa necessaria per i lettori e le lettrici in formazione.
Per idee di attività di ampliamento del lessico, vi rimando a questo mio articolo e al libro recensito in questo post.