(immagine di Ale& Ale tratta dal volume Italianità, a c. di G. Iachetti, Corraini, 2008, a corredo del capitolo Frasi dei film di Fantozzi, di Tommaso Labranca)
Nell'ultima settimana l'opinione pubblica è stata agitata e divisa da un'annosa polemica che periodicamente si riaccende e infiamma gli animi spingendoli - specie quando la comunicazione viaggia via Internet - a una violenza incendiaria ("flaming").
Oggetto del contendere: la difesa del congiuntivo.
Occasione della contesa: la recensione al volume di Francesco Sabatini comparsa sul Corriere della sera a firma di Paolo Di Stefano col titolo Congiuntivo in calo: nessun dramma.
La recensione, pur rendendo ragione della ricchezza del libro, furbescamente comincia dalla fine, ovvero dai quattro "psicodrammi" linguistici degli italiani (affrontati da Sabatini con la serietà scientifica che lo caratterizza), e tra questi seleziona - non a caso - il congiuntivo (inserito anche nel titolo come parola-chiave, evidentemente a fini di ottimizzazione per i motori di ricerca). Sempre tra le parole-chiave, viene inserita "Crusca", il nome dell'Accademia di cui il prof. Sabatini è stato Presidente, ma della quale non rappresenta né l'unica voce né il portavoce - del resto, come affermava Giovanni Nencioni, "l'Accademia non ha una sua idea o ideologia gregarizzante, da bandire pubblicamente".
L'articolo di Di Stefano viene subito ripreso da altre testate, utilizzato alla stregua di un "lancio di agenzia": senza preoccuparsi di leggere non dico il libro, ma l'intero articolo, svariati giornalisti (e non) diffondono la pseudonotizia secondo cui la Crusca avallerebbe l'uso dell'indicativo avvallando il congiuntivo, di cui si celebra serenamente la morte.
Non mi inoltrerò nella massa di riprese preoccupate e polemiche (anche via radio), di cenni ironici (anche televisivi) e financo di parodie: tutte accomunate non solo dalla rinuncia pregiudiziale a una lettura diretta del volume, ma anche da una completa ignoranza della prospettiva storico-linguistica e socio-linguistica in cui il discorso si inserisce.
Vale la pena ricordare - en passant - che ai pionieristici studi di Francesco Sabatini dobbiamo l'etichetta di "italiano dell'uso medio" (comparsa in uno studio del 1985, in cui elencava i fenomeni innovativi dell'italiano contemporaneo, ivi compreso l'uso frequente dell'indicativo pro congiuntivo) nonché le prime indagini sulla persistenza nel tempo delle strutture dell'italiano orale (tra queste la semplificazione sintattica di strutture subordinative complesse che prevedono l'uso del congiuntivo, come il periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui è diffuso da secoli l'uso dell'indicativo imperfetto: Se lo sapevo, venivo).
Quello su cui mi interessa riflettere è il meccanismo della fallacia argomentativa, che non è certo nuovo, ma trova nei social media un mezzo di circolazione "virale".
Una premessa è d'obbligo: il parlante ha una sua "ideologia della lingua", e tende ad avversare il cambiamento (bollato come "errore") anche quando ne è parte. Di fatto il cambiamento assume per il parlante i connotati minacciosi e apocalittici di una "decadenza" della lingua, da respingere senza alcun dubbio (quindi spesso acriticamente).
E' questo il presupposto della "fallacia classica" - nelle parole del linguista statunitense John Lyons. Un punto di vista che toglie di mezzo un intero ambito di osservazione scientifico, condannandolo invece di studiarlo.
Ogni innovazione linguistica - scrive Lorenzo Renzi nel volume dedicato a Come cambia la lingua. L'italiano in movimento (Il Mulino, 2012) - "è tale quando comincia ad avere un certo uso diffuso, quando ha acquisito una certa massa critica". Se al profano questi fenomeni, pure consistenti, spesso sfuggono (perché l'uso della lingua è in larga parte inconscio, ed è proprio a ogni parlante "un istinto linguistico conservatore"), è dovere del linguista osservare le modificazioni dell'uso e della norma senza respingerle in nome di un presunto "buon uso".
Del resto, condannare l'uso dell'indicativo sarebbe come opporsi alla vendita di automobili col cambio automatico: è chiaro per guidare bisogna saper conoscere le marce, ma l'uso abituale dell'auto rende pratico e confortevole il cambio automatico.
Va poi sottolineato che gli estremisti del congiuntivo incorrono spesso in errori grammaticali veri e propri: pochi sanno, infatti, che in italiano l'uso del congiuntivo ci obbliga in molti casi a esprimere il pronome soggetto per evitare ambiguità (le tre persone singolari del presente congiuntivo sono infatti identiche). Non possiamo dire al nostro interlocutore Penso che stia male se ci riferiamo proprio al suo stato di salute: dobbiamo dire Penso che tu stia male (in questo caso, dunque, Penso che stai male è sicuramente accettabile in una conversazione colloquiale, Penso che stia male è sicuramente un errore in ogni tipo di testo e discorso).
La difesa a oltranza del "congiuntivo" determina inoltre, sempre più spesso, errori di "ipercorrettismo": si usa il congiuntivo quando sarebbe d'obbligo usare l'indicativo (es. Meno male che il giocatore sia stato fischiato anziché è stato) oppure il condizionale (Fammi sapere se domani potessi giocare anziché potresti giocare). Del resto, come ben sapevano Totò e Fantozzi, quando si vuol fare troppo bella figura con la lingua, si finisce spesso per fare figuracce.
Ma c'è un altro aspetto che merita attenzione e preoccupazione: la rinuncia pregiudiziale alla complessità che si annida in ogni condanna fatta per ignoranza, per partito preso, per conformismo o per volontà di "distinzione". Perché di questo si tratta, in larga parte, quando si leva "molto rumore per nulla" intorno alla difesa della lingua italiana (o meglio, della norma introiettata a scuola). Finendo per tacciare di imperdonabile lassismo chi - come Sabatini - all'autentica "cura" della lingua (e non a una sua velleitaria difesa) ha dedicato e dedica le sue migliori energie.
Un'eccezione va fatta per chi, come insegnante, si pone un dubbio legittimo intorno ai criteri di accettabilità di certe forme in certi contesti, e sull'opportunità di continuare a promuovere un uso sorvegliato della lingua in giovani che sembrano muoversi agevolmente solo nei registri medio-bassi della lingua.
A costoro giova ricordare che conoscere la grammatica non vuol dire solo padroneggiare le regole, ma sapersi orientare tra opzioni diverse laddove la lingua ci offre la possibilità di scelta.
Sarà utile a tal proposito rileggere la riflessione che faceva Giovanni Nencioni in un saggio del 1987 dal titolo suggestivo (Costanza dell'antico nell'italiano moderno):
Il congiuntivo costituisce senza dubbio un mezzo che, in rapporto dialettico con l’indicativo, arricchisce la lingua di sfumature soggettive ed estimative altrimenti male esprimibili. Ma bisogna distinguere tra i casi in cui il congiuntivo non può mancare, perché è destinato dalla lingua ad una funzione per la quale è insostituibile, e i casi in cui esso può alternare con l’indicativo. I primi sono i casi di uso autonomo del congiuntivo: l’imperativo della prima persona plurale e della terza persona singolare e plurale (vada, venga, andiamo, facciano), le forme augurali (voglia il cielo! fosse vero!) o concessive (accada qualsiasi cosa...), il caso in cui il congiuntivo sia il sintassema subordinante e perciò ineliminabile (penso sia bene far questo).
I casi di possibile alternanza o fungibilità sono invece quelli di posizione subordinata, dove già nella fase antica il congiuntivo poteva scambiarsi con l’indicativo e oggi, anche sotto certa influenza dialettale, tende a cedergli il passo, a ciò cospirando la mancanza di una chiara e perentoria disciplina grammaticale e una esigenza di semplificazione. Certo, l’alternanza tra i due modi poteva avere già nel latino, e poi nel corso della storia della nostra lingua, una sottile motivazione semantico-stilistica [...] perfino nello stesso contesto e nello stesso periodo, come nei versi 137-139 dei Sepolcri: «Ma ove dorme il furor d’inclite geste / e sien ministri al vivere civile / l’opulenza e il tremore» e nella prosa verghiana di Vita dei campi: «Conosceva come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta per nevicare» (Jeli il pastore). [...]Come sottolineava Nencioni, il fatto che "una persona colta, passata attraverso una educazione grammaticale logicizzante e normalizzante", senta certe forme come sciatte, "non legittima una censura". Si tratta infatti di forme più semplici e spedite, che nei secoli hanno affiancato le forme più ricercate, e oggi trovano naturalmente posto nel parlato quotidiano, che ci piaccia o no.
Ma [...] è un fatto che il congiuntivo retto da verbi estimativi o iussivi o interrogativi cede il passo all’indicativo nella lingua parlata [...]; ciò che non altera l’orientamento semico della comunicazione, che è contenuto nel verbo reggente, ma interrompe quella proiezione soggettiva e assiologica dell’enunciarne che il congiuntivo attuava nella dipendente. È un caso in cui il parlato, talvolta amante della ridondanza, tende ad eliminarla, riducendo all’essenziale comunicativo uno strumento ricco di sfumature.
La "responsabilità" cui Nencioni - vent'anni or sono - richiamava i parlanti (e a maggior ragione i più colti) dovrebbe essere quella di aiutare l'italiano "a farsi compiutamente lingua parlata, cioè ad accogliere o a ricuperare dalla proscrizione dei grammatici le strutture proprie al parlato, vecchie o nuove che siano, senza sentirsene degradato e senza d’altronde rinnegare le esigenze proprie della lingua scritta, che ha compiti ben diversi."
Questione di registri, insomma. Nella lingua come nella musica.