Quando si parla di femminile grammaticale, da una parte si levano scudi e si sbarrano cancelli, dall'altra si alzano spalle, si grida alla stecca o si rispolvera la vecchia arma del riso.
Questi schieramenti non sono - come si potrebbe pensare - facilmente identificabili. E tantomeno si può pensare di etichettarli semplicisticamente per opposizione: femminista/maschilista, progressista/conservatore.
Il primo errore da non fare, quando si parla di femminile, è infatti quello di sottovalutare il peso delle divisioni interne ai movimenti femminili, e anche una certa ostilità reciproca che possiamo trovare all’interno di gruppi di donne che occupano con consapevolezza ruoli “apicali” nella società. (L'ultimo, significativo episodio, le polemiche verso una direttrice d'orchestra che - alla stregua di tante altre direttrici che operano in ambienti prevalentemente maschili - si è autonominata al maschile, direttore, per motivi che pertengono alla distinzione sociale più che alla grammatica, ma che andrebbero comunque rispettati - anche per evitare lo spiacevole "effetto matroneo", verso il quale è costretto ad alzare lo sguardo il compassionevole predicatore di turno).
La scrittrice premio Nobel Toni Morrison, nel volume L’importanza di ogni parola, suddivide le donne americane in tre gruppi: le femministe dichiarate, le antifemministe e le umaniste non allineate; ciascuno di questi gruppi tende a sabotare l’altro (Donne, razza e memoria, 1989). In Italia la situazione, oggi, è certo più frammentata: accanto alle antifemministe, troviamo le vecchia guardia (essenzialiste o differenzialiste - ma oggi accomunate in quanto "separatiste", bollate come TERF o liquidate come binarie) nettamente separate dalla nuova generazione di "intersezionaliste".
Morrison parla anche, in un altro scritto, dell'atteggiamento da “sorellastre di Cenerentola” (nell'articolo omonimo). Queste sorelle, che negli adattamenti recenti e nella versione disneyana sono brutte e goffe, nella favola di Grimm sono “belle e bianche di viso”: si tratta cioè di donne di ceto sociale elevato (donne di potere) che contribuiscono all’oppressione di altre donne della famiglia.
Ci troviamo dunque di fronte a un archetipo, proprio come quello del principe azzurro (per rimanere nel fiabesco) o l’immagine della donna messa a tacere dall’uomo, su cui ha scritto pagine luminose la classicista Mary Beard, nel suo Donne e potere, partendo da Penelope - che l'imberbe Telemaco rispedisce nelle sue stanze perché “la parola spetta agli uomini” (il mansplaining viene da lontano...). Ma possiamo pensare anche alla Griselda del Decameron, evocata dalla romanziera Antonia Susan Byatt in uno dei suoi racconti fantastici come esempio di voce ed energia femminile soffocata.
Del resto, è un archetipo anche quello che vede generazioni diverse di donne in lotta tra di loro: una lotta simbolica che passa attraverso lo scambio di cibo, la trasmissione di pratiche affidata ad aghi e spille - ce lo ha spiegato l'antropologa francese Yvonne Verdier, analizzando le versioni dimenticate della favola di Cappuccetto Rosso (il libro è stato tradotto in italiano).
Gli archetipi sono immagini dal forte valore modellizzante in una certa tradizione culturale. Non vanno confusi con gli stereotipi (che a loro volta non vanno confusi con i prototipi...). E vanno conosciuti e riconosciuti quando ci occupiamo di certi temi, pena il rischio - non appena ci si ritrova in una posizione di visibilità o di potere - di assumere quello stesso atteggiamento che rimproveriamo agli oppressori: sfruttare il lavoro femminile (materiale e intellettuale) riducendo le (altre) donne al silenzio, o divorandole addirittura.
Scrive Toni Morrison, rivolgendosi alle studentesse neolaureate del Barnard College di New York nel 1979:
Non voglio chiedervi bensì dirvi di non partecipare all'oppressione delle vostre sorelle. [...] Mi allarma la violenza che le donne compiono sulle altre: violenza professionale, violenza competitiva, violenza emotiva. Mi allarma la prontezza di tante donne a ridurre in schiavitù le altre. Mi allarma la sempre più sfacciata indecenza nel mattatoio delle realtà professionali femminili. (Le sorellastre di Cenerentola, in L'importanza di ogni parola, p. 124)
Non vi siete accorte di questo atteggiamento in tante paladine del femminile? Beh, esiste un modo per smascherarlo, almeno nella scrittura: basta guardare le bibliografie, quando ce ne sono. Perché il sistema delle citazioni - come ho scritto alla fine di questo post - è una spia infallibile del modo in cui si cerca di costruire la propria autorità (chiamiamo le cose col loro nome, autorevolezza è una parola da pedagogisti ipercorretti e da influencer). Stabilendo alleanze e - ahi noi - occultando scientemente chi ci ha precedute o ci affianca, e da cui abbiamo imparato tutto quello che predichiamo dai pulpiti mediatici.
Allo stesso modo per cui chi si appropria dei GRS (grafici radiali Sabatini) cita Tesnière (che rappresentava in altro modo, a forma di albero rovesciato, la struttura verbocentrica della frase) tacendo Francesco Sabatini, così capita che chi scrive di uso pubblico delle forme femminili citi la pioniera Alma Sabatini (che dell'altro Sabatini non è parente né congiunta, anche se fu lui a prefare la ricerca sul sessismo nella lingua italiana, commissionata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1986 - l'autrice morirà due anni dopo in un incidente stradale) tacendo il contributo scientifico e l'impegno a fianco delle istituzioni di chi ne ha raccolto il testimone: prima Gianna Marcato e poi, dal 2000 Cecilia Robustelli. Oppure citandone il nome ma tangenzialmente, magari per parole riportate in un'intervista.
Io non mi capacito di quest'atteggiamento (potrei dire che sono "basita" o "offesa", ma non fingo sorpresa preparando l'offesa). Perché mina la credibilità di tutte le donne che hanno a cuore la questione femminile e, con sensibilità diverse (ma con la stessa cura amorevole e senza aggressivi protagonismi), cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni al problema della rappresentanza e dei diritti delle donne e di altre minoranze. Una questione non solo linguistica, evidentemente, ma anche sociale e politica. Che però non deve diventare, come avverte Toni Morrison, "un'astrazione, una causa": perché è anche e in primo luogo "una questione personale. Non si tratta solo di noi, si tratta di me e di te".
Né l'amore per la causa deve farci dimenticare, come dice Patrizia Valduga (che ho già citato qui), che la storia della lingua è anche storia delle idee del passato: di pregiudizi, discriminazioni, superstizioni che non possiamo pretendere di cancellare con un colpo di spugna. Ce lo ricorda Valeria Della Valle nella lettera di risposta alle richieste di modifica di alcune voci del dizionario Treccani frutto del lavoro redazionale di generazioni di esperte ed esperti.
Tenere a mente la dimensione storica della nostra lingua (che pure - con buona pace dei puristi - porta le tracce di architettrici, dottrici, lettrici, e perfino di una professora) è un atto dovuto per linguisti e linguiste. Loro, nostro compito sarebbe anche quello di sensibilizzare all’idea che non tutti i discorsi polemici portano necessariamente al raggiungimento di un accordo: un esempio è offerto dal dibattito francese sul velo nelle scuole, analizzato da Ruth Amossy, autrice del volume Apologia della polemica, recentemente tradotto dal francese. Secondo la studiosa israeliana, possiamo e dobbiamo elaborare una “retorica del dissenso” che educhi a gestire il disaccordo, evitando la polarizzazione delle opinioni e la tendenza a delegittimare l’avversario.
Fondamentale è anche ricordare che le parole percepite come "ostili" possono ferire, ed è compito delle istituzioni trovare rimedi e lenitivi: il "politicamente corretto" da questo punto di vista può funzionare da strumento di difesa per le minoranze oppresse. Perciò è giusto promuoverne l'uso, ma senza imporlo dall'alto, senza ledere il diritto all'autodeterminazione dei soggetti interessati (non a caso i governi, i ministeri, le regioni, i comuni, le università che diffondono delle linee guida per contrastare la discriminazione usano formule come "si consiglia, si raccomanda…") e rispettando la grammatica di una lingua, che è garanzia di intercomprensione al di là delle microcomunità nelle quali ci si riconosce.
Nello sforzarci di usare un linguaggio non offensivo, poi, dovremmo ricordarci che la convivenza di opinioni diverse è vitale all’interno di una democrazia: quando difendiamo la libertà di espressione non dovremmo erigere cancelli - ce lo ricorda l’americana Suzanne Nossel, autrice del volume Dare to speak. E quando mettiamo sotto accusa la cultura dell'odio, dovremmo evitare di alimentarla con il flaming virtuale, magari chiedendo la testa dei maschilisti o delle femministe d'antan.
Infine, come donne che si autodefiniscono o vengono riconosciute "brave", dovremmo distinguere la bravura dalla bravezza: perché la lingua è un serbatoio di stereotipi in un senso e nell'altro. Al maschile, l'aggettivo bravo porta con sé una connotazione di ferocia rapinosa e impunita che al femminile per fortuna non c'è. O non ancora.
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AGGIORNAMENTO: Parliamo di lingua politica al femminile a Lingua Batte (23 gennaio 2022)
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Di seguito, per chi volesse approfondire, la bibliografia scientifica essenziale che ho preparato nel 2020 per le Linee guida sulla visibilità di genere nella comunicazione istituzionale del mio Ateneo (i testi linkati sono leggibili online).
Con un'avvertenza: bisogna distinguere i suggerimenti da "Grammatica italiana" (quelli relativi alla corretta flessione dei nomi femminili) da quelli che pertengono alla dimensione del "Manuale/Codice/Dizionario di stile" a uso di redazioni, uffici ecc. alle prese con la scrittura di testi (qui si parlerà eventualmente di espedienti grafici come l'asterisco finale, accettabili in una e-mail aziendale ma non in un bando pubblico). E, soprattutto, tenere distinti diversi usi sociali della lingua: l'uso militante e mobilitazionista della lingua proprio dell'attivismo (che passa oggi per proclami social più che per collettivi, manifestazioni e tazebao) è altro rispetto all'uso istituzionale della lingua, all'uso quotidiano e colloquiale, all'uso con fini artistici. L'uso comune riposa su convenzioni frutto di un accordo storicamente condivisi dall'intera comunità, le regole grammaticali (come l'accordo di genere) non sono negoziabili e l'evoluzione della lingua segue ritmi naturali che non possono essere forzati da interventi autoritari (come ha mostrato l'esperienza della politica linguistica in età fascista).
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