«Parte IV - Poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre, che ci ha fatto tanto del bene» - scriveva don Lorenzo Milani nel firmarle la dedica su una copia fresca di stampa della
Lettera a una professoressa (articolata in tre parti).
Di questa professoressa, che si sentiva così simile alla destinataria della
Lettera a una professoressa prima di salire il Monte Giovi e di conoscere la scuola del Priore, parla
Eraldo Affinati in uno dei capitoli del suo libro
L'uomo del futuro (Premio Strega 2016, edito da Mondadori).
Ma
Adele Corradi, nata a Firenze nel 1924, professoressa di italiano e latino dall'istituzione della media unificata (nel 1963) fino al pensionamento, aveva già affidato i ricordi degli anni trascorsi a Barbiana a fianco di don
Lorenzo Milani a un libro:
Non so se don Lorenzo (Feltrinelli, 2012).
Leggendo, qualche settimana fa, il suo racconto appassionante, mi ero imbattuta in una frase che aveva acceso la mia curiosità:
assurdo pensare di imitare la Scuola di Barbiana imitando qualche metodo. Anche se è vero che don Lorenzo aveva inventato un metodo geniale per far imparare ai ragazzi modi e tempi dei verbi e per farli esercitare nell'analisi logica.
Così, dopo uno scambio di email, sono andata a trovarla a Firenze. Anch'io, come Affinati, sono salita sulla 600 polverosa e ammaccata di Adele e sono stata condotta alla casa sulla collina di San Miniato. Abbiamo conversato - io, lei e una sua collega più giovane - per due ore, sedute intorno al tavolo della cucina. Sorseggiando caffè, sbocconcellando raviole, parlando piano e ridendo molto, finendo per dimenticarci di amplificatori e registratori e del mezzo secolo di vita che ci divide.
Dopo aver specificato che l'italiano a Barbiana lo insegnava don Lorenzo (mentre lui faceva italiano a un gruppo di ragazzi, lei faceva latino con un altro gruppo), mi rivela che a monte dell'insegnamento di don Lorenzo c'erano un'intelligenza vivissima, una formazione tradizionale, una singolare capacità di attenzione e di cura verso i suoi ragazzi, coi quali trascorreva l'intera giornata, invitandoli a partecipare alle lezioni in modo vivo, corale. Non un metodo studiato e imitabile, ma neppure un'eccezione riducibile alla dimensione affettiva della relazione educativa.
Mi ricorda che il cuore dell'insegnamento a Barbiana era il possesso della lingua: i ragazzi dovevano imparare a capire e a farsi capire, per uscire dalla scuola tutti uguali (cioè responsabili della propria lingua e critici nei confronti di quella altrui). Se si era bravi non si avevano meriti, ma compiti: primo fra tutti quello di insegnare agli altri. Perché nella scuola dell'obbligo bisognava (e ancora si dovrebbe) rimboccarsi le maniche per colmare le differenze, non per selezionare.
Mi ricorda che i ragazzi arrivavano di solito a Barbiana alla fine della scuola elementare e che alla fine del percorso dovevano prepararsi agli esami di stato. Perciò, anche se l'insegnamento non seguiva un programma, all'approssimarsi degli esami don Lorenzo si preoccupava di organizzare al meglio i gruppi di ragazzi in modo che l'insegnamento fatto dai pari (il
peer-tutoring, diremmo oggi) garantisse il possesso delle nozioni indispensabili.
Mostrandomi un
libro che raccoglie la corrispondenza tra don Milani e Mario Lodi (e tra le rispettive scuole), chiarisce la differenza tra il Milani, che insegnava a ragazzi dagli 11 ai 18 anni, e il maestro di Piàdena, che lavorava coi bambini: entrambi facevano scrittura collettiva, ma "non c'è cosa che a don Lorenzo interessasse meno della creatività" - mi dice. A don Milani interessava raggiungere "un'oggettiva verità": per scrivere bisognava pensarci sopra, avere ragioni oggettive, essere veri e sintetici, far passare le proprie idee e le proprie parole al vaglio del giudizio degli altri.
Anche come pittore, del resto, il giovane Lorenzo non era interessato al punto di vista soggettivo - mi dice, mostrandomi un paesaggio dipinto che conserva gelosamente nella sala.
Parliamo a lungo di scrittura collettiva, un metodo che le sta particolarmente a cuore (Adele seguì l'intero lavoro di redazione collettiva della
Lettera, durato 9 mesi, che portò dalla stesura originale, di una pagina e mezzo, alla versione finale di 160 pagine edita dalla Libreria Editrice Fiorentina).
Mi racconta dei "primi getti" sottoforma di foglietti anonimi. Sorride al ricordo di un suo foglietto che aveva a più riprese lasciato sul tavolone nella canonica, contenente un suggerimento bollato da don Lorenzo come una "stupidaggine". Adele temeva che, facendo proprio l'avviso della
Lettera ("La scuola dell'obbligo non può bocciare"), i professori finissero per promuovere senza insegnare. E invece agli insegnanti va ricordato che bisogna insegnare, e bene: preoccupandosi cioè del metodo e non solo dei contenuti. "Che vuol dire, bisogna dire ai professori di insegnare? Sono insegnanti, se non insegnano andranno all’inferno” - diceva don Lorenzo. Adele ride, consapevole com'è della distanza che oggi s'è creata tra le parole e i fatti. Facile trovare le ragioni per promuovere, difficile cambiare il proprio metodo di insegnamento in modo da portare tutti alla promozione.
Mi racconta anche di un'idea del libro che le sembrava un po' debole, ma era l'unica idea che aveva portato uno dei ragazzi e per questo valeva la pena mantenerla. Perché nel collettivo non dovrebbero parlare solo i bravi.
E il metodo geniale per insegnare (o meglio per verificare che i ragazzi conoscessero) la grammatica? Adele mi racconta che a don Lorenzo era venuto in mente mentre diceva messa.
Prendeva una pagina o un testo tratto da un giornale (a Barbiana arrivava "Il giorno") e selezionava i verbi, che venivano tutti ritagliati. Nel frattempo era stata preparata una griglia con i vari modi, tempi ecc. Don Lorenzo distribuiva ai ragazzi le striscioline che dovevano essere collocate al posto giusto nella griglia. Poi passava a ritirare quelle collocate correttamente, lasciando sulla griglia quelle messe al posto sbagliato in modo che ci si ragionasse insieme e ognuno capisse cosa doveva rivedere.
Ma il ricordo che mi affida, e di cui più le sono grata, è l'immagine di un don Milani che le confida entusiasta: "Adele, oggi abbiamo scoperto l'amore nella grammatica... perché esiste il passivo!".
Il passivo permette infatti di mettere in primo piano l'oggetto che ci sta a cuore. Se vediamo un incidente e conosciamo chi è alla guida diremo: "Paolo ha investito un passante". Ma se sono amico del passante dirò: "Carlo è stato investito". Questione di prospettiva. E di affettività.
si può leggere una testimonianza di Adele Corradi sulla genesi della
Lettera anche in questo lungo
articolo di Franco Lorenzoni (
Cinque ragioni per tornare a don Milani) apparso su Internazionale.