Nel corso dell'anno passato sono stata a più riprese coinvolta nei lavori della Commissione Pari Opportunità della mia Università (ora confluita nel CUG): ho partecipato a incontri e seminari, preso la parola in luoghi decisionali della mia città.
L'iniziativa per la "visibilità di genere" alla quale sono stata chiamata a collaborare mi sembrava importante. Ho sempre pensato che la lingua debba dire la realtà e non nasconderla, specie quando abbiamo le risorse lessicali e grammaticali per farlo (possiamo dire sindaca come diciamo monaca, ministra come maestra, rettrice come pittrice e così via). Consapevole che dietro giudizi come "suona male" si nascondono solo resistenze culturali, stereotipi del pensiero prima ancora che linguistici. E che dietro affermazioni come "sono ben altri i problemi" si cela una sottovalutazione del potere simbolico della lingua: la sua capacità di creare realtà e di riconoscere legittimità e dignità a identità ancora fragili.
Mi è capitato, in queste occasioni, di fare appello alla storia della lingua per mostrare che l'evoluzione/restrizione degli usi è strettamente collegata a cambiamenti culturali e del costume. Ho citato la natura medica o ingegnera dei testi antichi, l'avvocata delle preghiere mariane, le cantatrici e architettrici rinascimentali e barocche, le dottrici e lettrici dello Studio bolognese nel Settecento. Presenze e denominazioni femminili rese possibili da particolari congiunture storiche e socio-culturali, che hanno creato aperture all'interno di "mondi senza donne".
Sono una ricercatrice e non voglio essere chiamata ricercatore. Sono grata alle generazioni di donne che mi hanno preceduta e che hanno lottato per l'uguaglianza (di diritti, di retribuzione, di rappresentanza), ma non ritengo più necessario né opportuno nascondere la differenza insita nella mia presenza: differenza non meramente biologica, ma culturale - di genere, per l'appunto.
Nominandomi al femminile imparo ad abitare il mio corpo, a portare sulle relazioni (anche quelle di potere) il mio sguardo. A declinare al femminile il mio ruolo, anche in termini di autorità e responsabilità.
Fin qui tutto bene o quasi: le resistenze più forti, ahimè, vengono spesso da altre donne che occupano posizioni di prestigio e vogliono continuare a nominarsi al maschile. Come bilanciare in questo caso autodeterminazione e imposizione di norme dall’alto?
Anche la comunità dei linguisti italiani, del resto, appare divisa di fronte al problema della femminilizzazione dei nomi di professione e carica: tra strenui sostenitori/trici, tiepidi, insofferenti, fieramente avversi.
E poi ci sono i problemi di "economia" linguistica: quali scelte adottare nei documenti istituzionali per nominare donne e uomini senza appesantire troppo il discorso con raddoppiamenti continui di forme e senza rompere la continuità grafica delle parole con barre, asterischi, parentesi? (io da qualche tempo uso le formule "la/lo studente" e "le/gli studenti").
Infine, come nominare e includere le nuove identità, che non si riconoscono né nel femminile né nel maschile, senza forzare la lingua (giacché il rifiuto della norma finisce per collocare ai margini)?
Negli ultimi tempi, però, si è affacciato alla mia mente un altro problema, che riguarda più generale il "politicamente corretto": che cosa succede nella società, mentre nella lingua ci sforziamo di correggere tutte le crudeltà, le storture, gli errori della storia?
"Se è giusto epurare la lingua da quanto possa suonare offensivo nei confronti di religioni, razze e nazionalità, sarebbe anche giusto non cancellare la realtà del passato, la storia delle idee e delle passioni umane, che è anche storia di pregiudizi, superstizioni e fanatismi"E' stata questa frase provocatoria della poetessa Patrizia Valduga, tratta da una raccolta di suoi interventi (Italiani, imparate l'italiano!, Edizioni d'if, 2016, p. 15), a insinuarsi nella crepa che già in passato la lettura di un romanzo di Philip Roth (La macchia umana) aveva aperto.
A spalancarmi gli occhi sulla violenza che la lingua non può cancellare: possiamo educare gli usi della lingua, per contrastare la discriminazione sessuale o razziale, ma non avremo contrastato la violenza sessista e razzista che dilaga nella nostra società. Al contrario, rischiamo di coltivare inconsapevolmente nuove forme di intolleranza, di fondamentalismo linguistico.
Mentre negli usi istituzionali della lingua si affermano scelte "corrette", nella rete imperversa il cosiddetto hate speech (discorso di incitazione all'odio), spesso rivolto proprio contro personaggi che richiamano a un uso appropriato della lingua (la Presidente Laura Boldrini, per esempio). Per non parlare del discorso politico, in cui la volgarità e l'aggressività verbale sono diventate - insieme al free speech - ingredienti essenziali dell'eloquenza.
Anche le preoccupazioni sullo stato di salute dell'italiano, del resto, si esprimono in rete attraverso violente condanne di errori (veri o presunti) a opera di più o meno anonimi grammar nazi, la cui ideologia linguistica, ancorata a criteri di correttezza scolastici, ha come unico fondamento l'intolleranza.
L'interrogativo di oggi, è evidente, non a che vedere con la valenza, ma col valore sociale della lingua. Non è una questione di purismo linguistico, ma una riflessione sull'ossessione della purezza nel nostro mondo contemporaneo: saremo ancora in grado di vedere che "da qualche parte c'è ancora sporchissimo il reale" - come canta Vasco Brondi? Di nominarlo e di riconoscerlo?
P.S.: Oggi 7 febbraio Repubblica pubblica un'intervista al giurista Paolo Grossi che interviene nel dibattito sulla parola razza (parola equina, come hanno dimostrato i linguisti), presente nell'art. 3 della nostra Costituzione, con parole che esprimono il mio stesso sentire:
La razza non esiste, ma esistono i razzismi. Mantenere il termine razza nella Costituzione significa dire guardate che il razzismo è una malattia che esiste ancora. E finché esistono questi fenomeni orrendi io di quella parola ho necessità. [...] la menzione della razza nella carta costituzionale ha il significato dell'ammonimento, di questo oggi abbiamo bisogno.
AGGIORNAMENTO ALL'8 MARZO:
pubblicate le Linee guida MIUR per l'uso del genere nei documenti amministrativi per il mondo della scuola
Nella mia ignoranza, mi sono divertito a dare una possibilità di emendare certe frasi da connotazioni maschili (per esempio: "il candidato dovrà esibire..." e la candidata?). Veda https://riccardobaldinotti.wordpress.com/2014/06/08/neutro-singolare-e-plurale/
RispondiEliminaBuon lavoro
Esercizio interessante. Ho qualche obiezione/precisazione (teorica) da fare.
Elimina1. Il neutro in italiano non esiste e anche se esistesse (cioè se l'avessimo mantenuto dal latino), sarebbe utilizzato per gli inanimati, non per neutralizzare le differenze di genere di esseri animati. Quello che servirebbe, semmai, è un "genere comune" da opporre al neutro (come in danese e olandese).
In italiano il maschile generico aspirerebbe a questa funzione, ma l'ambiguità tra maschile generico e maschile specifico non aiuta e non soddisfa più.
2. L'unica condizione per abbattere la barriera linguistica maschilista della lingua è che la morfologia lo permetta. I femminili di nome di professione e carica sono perfettamente grammaticali e vanno usati. Le soluzioni "creative", invece, non lo sono e, come le invenzioni lessicali (i neologismi), per essere accettati dall'intera comunità devono essere vagliati dall'uso (in Italia non abbiamo un'Accademia che legiferi sulla lingua: abbiamo un'Accademia che studia i fatti di lingua e dà pareri di grammaticalità).
3. Il problema dell'italiano è che non marca il genere solo o prevalentemente su pronomi (come l'inglese), né può contare nel parlato sull'evanescenza dei suoni finali delle parole (come in molti casi il francese). Il problema è la concordanza delle parole variabili ed è un problema oneroso, che non si risolve con soluzioni creative isolate (come i pronomi non marcati "xe", "ze", "they", "hir" per l'inglese; o lo svedese "hen" opposto a "han" e "hon").
4. Esperimenti simili ai suoi sono fatti, su più larga scala, nell'ambito delle comunità LGBT, che faticano a riconoscersi tanto nel maschile generico quanto nel femminile. C'è chi adotta artifici grafici nello scritto (*, @), e nel parlato la terminazione in -u o la vocale indistinta (il suono presente nel finale di parola in molti nostri dialetti meridionali). Soluzioni che appaiono però "gergali" e comunque non risolvono il problema della referenza pronominale: i pronomi personali sono parole che "indicano" ed etichettano molto più di quanto non facciano i nomi (che in realtà si limitano di solito a classificare) o i determinanti e modificatori del nome.
5. Il problema oggi si pone sia perché il genere grammaticale è messo alla prova dal concetto socio-culturale di "identità di genere" sia perché, in una società multilingue e multiculturale, è costretto a confrontarsi di continuo con altri sistemi linguistici, caratterizzati da proprietà diverse e da un diverso rapporto con la norma. E' un problema di traducibilità, insomma.
Come vede, più che soluzioni, io propongo ulteriori dubbi! Del resto la lingua ha a che vedere con le persone, con gli esseri umani, che di dubbi si sostanziano. Almeno credo.