venerdì 13 marzo 2020

Dialogando sull'epidemia (con Alberto Sebastiani)

Qualche giorno fa, parlando a distanza con l'amico Alberto Sebastiani (critico non-solo-letterario) del libro che avremmo dovuto presentare insieme, gli raccontavo che prima della morte (era il 2003, l'anno della SARS) Giuseppe Pontiggia stava lavorando a un nuovo romanzo incentrato su una "Epidemia" (questo il titolo provvisorio) che decima vite erodendo insieme le certezze della nostra società. (Per saperne di più potete leggere questo mio articolo).
"Un topos", mi ha risposto lui. Io avevo in mente altre pesti letterarie. Lui, invece, mi citava fumetti, film, romanzi di fantascienza, videogame. Così gli ho chiesto di scriverne. Perché abbiamo tutti bisogno di ampliare, in questi giorni di serrande e orizzonti chiusi, le nostre vedute e i nostri linguaggi. 


Dialogare con l’epidemia, cercando il dopo
di Alberto Sebastiani 

Non è una guerra nucleare, un meteorite o chissà che altro a sterminare l’umanità in L'ultimo uomo sulla terra, il n. 77 (febbraio 1993) di Dylan Dog, scritto da Tiziano Sclavi e disegnato da Corrado Roi. L’indagatore dell’incubo si sveglia una mattina del 2560 e scopre che un super-raffreddore ha ucciso tutti. Un’influenza. La storia è un omaggio a L’ombra dello scorpione di Stephen King (1978)in cui il tema dell’epidemia è una declinazione della guerra batteriologica fuori controllo. 

Se però il racconto a fumetti non viene molto citato in questi giorni, il romanzo lo si incontra spesso tra i consigli di lettura a tema che si moltiplicano su giornali e periodici, blog e profili social. Elenchi che mostrano, se mai non ne fossimo a conoscenza, che l’epidemia è un topos della letteratura mondiale, anche perché appartiene alla storia dell’uomo dalla notte dei tempi. È una tradizione che viene da lontano, diventata un ricco filone editorialenon solo di consumo, seguito da un pubblico numeroso, che non è per forza alla ricerca di emozioni forti, ma anche di prospettive nuove, per il “dopo” 

In tempi di coronavirus la questione è evidente. Osserviamo alcuni fenomeni: critici, scrittori e poeti offrono sui giornali consigli di lettura a tema per tutti reclusi causa contagio; si parla di classici, dall’antichità ai secoli recenti, con Lucrezio, Tucidide, BoccaccioManzoni, Daniel Defoe, Jack Londone altri in cui la peste (reale o metaforica) è il male che contagia e devasta una comunità, e che la costringe a ripensarsi
Sulle piattaforme di vendita online, come Amazon, Mondadori Store o Ibs, basta digitare nella stringa di ricerca “epidemie” e appare una biblio-filmo-ludografia di pronto uso  una proposta vastissima, per quantità, generi e tipologie: dalla saggistica divulgativa al fumetto, dalla letteratura al cinema, dalla televisione ai videogame

Liste in cui appaiono tanto romanzi di José Saramago e Philip Roth quanto narrazioni più d’effetto o addirittura considerate “profetiche”: l’ormai celebre film Contagion (2011) di Steven Soderbergh, storia di una pandemia nata da un virus trasmesso in un villaggio della Cina dal pipistrello all’uomo; o The eyes of darkness di Dean Koontz (1981appena uscito in Italia con il titolo Abisso), in cui il male è un virus chiamato “Wuhan-400”  romanzo usato dai complottisti, per i quali il Covid-19 sarebbe stato creato in laboratorio per sterminare l’umanità. 

Se poi osserviamo la classifica dei libri del momento su Amazon, mentre scrivo (12 marzo 2020) al primo posto troviamo Profezie. Che cosa ci riserva il futuro della sensitiva Sylvia Browne (Mondadori), un libro uscito in originale nel 2004 ma cresciuto nelle vendite del 588.933% negli ultimi giorni grazie al clamore suscitato dalla “previsione” di un virus che nel 2020 avrebbe colpito i polmoni della popolazione mondiale.

Se questo successo rivela l’inquietudine dei lettori, la fascinazione delle spiegazioni irrazionali e la ricerca di una risposta rapida all’ansia (la profezia racconterà anche il “dopo”, no?), il fatto che La peste di Albert Camus sia in dodicesima posizione con un +400% indica che c’è anche chi cerca uno spazio di riflessione profonda sulla condizione in cui ci troviamo, nellletteratura. 
E alla letteratura, in tempi di didattica a distanzaha guardato lo scrittore Andrea Tarabbia, che, nello “Speciale Coronavirus” dell’aula di lettere online di Zanichelli.it, affronta la peste in Boccaccio, Manzoni e Defoe, aprendo l’intervento con un’affermazione che è un programma di lavoro: «Dalle epidemie si guarisce, perché così le si può cantare». Capire come le si canta è dunque un modo per dialogare con chi le ha attraversate e con quanto ne consegue
Un dialogo che permette di scoprire ad esempio come il contagio, che sia pestilenza o altro, viene sempre raccontato come qualcosa che viene dall’esterno, portato dall’altro, dal quale si fugge malamente provocando ulteriore contagio e morte. E che non si supera finché non si capisce, sul lato pratico, come operare in ambito medico-sanitario e, su quello metaforico, come il male non sia solo fuori di noi, ma anche in noi, nell’uomo, che è costretto dalla malattia a modificarsi. Cambiare o peggiorare. 

La metafora emerge con evidenza nel territorio del fantastico. Esiste sempre un “dopo” il trauma. Si va dal “tutto tornerà come prima” al “nulla sarà come prima”. La fiaba La bella addormentata nel bosco racconta ad esempio come un sonno collettivo indotto immobilizzi una comunità intera in attesa che si spezzi l’incantesimo su Aurora  una volta arrivato il principe e compiuto l’atto di baciarla, tutto torna a fluire rimuovendo il traumaL’adattamento Disney finisce qui, ed è un finale consolatorio che  se si appartiene al pubblico che cerca nuove prospettive  è poco soddisfacente. Se però prendiamo la fiaba, ad esempio nella versione di Perrault (tradotta in italiano da Collodi), scopriamo che la storia va avanti, che Aurora ha due figli dal principe, il quale dopo la morte del padre diventa re e la sposa. Ma non finisce qua: la madre del principe diventato re è un’orchessa, e una volta partito in guerra il figlio vorrà mangiare i nipoti e la nuora. Niente spoiler, ma è chiaro che nulla può essere più come prima, e che la difficoltà di ripartire esiste anche per Aurora. Il trauma è alle spalle, ma il suo superamento e il raggiungimento di un nuovo equilibrio è altra cosa.  

Lo racconta bene l’horror: pensiamo agli zombi, quei defunti anonimi, predatori aggressivi animati da un’energia meccanica, antropofagi privi di intelligenza con un corpo deforme, senza anima e individualità, che incontriamo tra i mostri della tradizione letteraria e i morti viventi del cinema. Anche loro nascono per contagio, come insegna George A. Romero con la trilogia aperta da The Night of the Living Dead (1968, in Italia dal 1970), e li ritroviamo, come personaggi e/o metafore, tanto nei videogame quanto in ambito musicale, da Zombie del nigeriano Fela Kuti, sul lavaggio del cervello delle forze dell’ordine per renderle criminali, alla Zombie dei Cranberries sulla situazione nordirlandese. 
Non mancano poi esempi letterari, dalla serie Rot & Ruins di Jonathan Maberry (2010-2015) alla riscrittura di Jane Austen con Pride and Prejudice and Zombies di Seth Grahame-Smith (2009), fino a Paesaggi italiani con zombie di Alberto Arbasino (1998). 
È una vasta tradizione che ha avuto numerose interpretazioni sociologiche, anche contraddittorie, che hanno considerato gli zombi mostri del capitalismo, espressioni del neocolonialismo e del postumano o del Reale lacaniano, o ancora una figura del doppio (un umano senza coscienza), del represso (un corpo lontano dal modello occidentale), nonché dell’apocalisse desiderata come un nuovo inizio. 
Di fatto, gli zombi parlano di noi, di nostre radici antiche e antiche paure. nellserie tv The Walking Deadideata da Frank Darabont (2010) e tratta dal fumetto di Robert Kirkman, l’apocalisse zombie innesca la trasformazione in tribù dei superstiti. Si tratta di persone che devono arrivare a costruire il “dopo”, come i protagonisti del fumetto Dodici di Zerocalcare (2013), declinazione comica del filone. In entrambi i casi  come in quasi tutti gli altri  ai mostri-zombi si affiancano i mostri-umani, i superstiti: avidi, diffidenti, ostili, più orientati alla soppressione dell’altro che non alla costruzione di una nuova comunità. Ecco che l’epidemia, ancora una volta, rivela il mostro che è in noi. 

Il problema è ben presente nel genere letterario che più di ogni altro ha il “dopo” tra i suoi capisaldi: la fantascienza. Il “dopo”, il post-apocalisse, è successivo a un trauma che ha devastato pianeta, ambiente, civiltà, comunità: guerre atomiche o interstellari, sconvolgimenti ambientali, eventi non specificati o, appunto, epidemie. 
Fantascienza.com, tra i siti di riferimento per gli appassionati del genere in Italia, ha suggerito una serie di narrazioni che raccontano il “dopo” rispetto al trauma dell’epidemia. Ci sono alcuni titoli che abbiamo citato, da L’ombra dello scorpione a Contagion, e altri celebri come la serie tv Survivors del 1975 ideata da Terry Nation, ma soprattutto tre testi che permettono altrettanti percorsi di lettura e di riflessione (dialoghi, appunto): La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe (1842), Il morbo bianco di Frank Herbert (1982) e Vampiri di Richard Matheson (1954).   

Il testo di Poe non è riconducibile alla fantascienza, ma ci permette di costruire un ponte con l’horror. È la storia del principe Prospero che si rifugia con la sua corte in un castello per fuggire la Morte Rossa (così detta per le macchie scarlatte che causa sul corpo della vittima), che però dopo qualche tempo li raggiunge durante una festa in maschera e li stermina. A una lettura più letterale, racconta l’impossibilità di sottrarsi al contagio; a una lettura capace di leggere la metafora, ricorda che non si sfugge al proprio destino (lettura più emotiva) o che non si può non fare i conti con la realtà, con le proprie responsabilità, e i conti si pagano (versione più riflessiva). 
La questione si ripropone in una riscrittura del racconto di Poe, Il corpo e il sangue di Eymerich di Valerio Evangelisti (1996)*, terzo romanzo del ciclo dell’inquisitore domenicano del XIV secolo, che si svolge su due livelli temporali, il Medioevo e un XX secolo alternativo. In entrambi si diffonde una “malattia” legata al sangue. Nel secondo si tratta di anemia falciforme, attivata come arma biologica da organizzazioni razziste per sterminare le popolazioni negroidi, in virtù di una loro predisposizione genetica: una “morte rossa”, che si manifesta con la dilatazione delle vene sul viso. Il male diffuso è di fatto metafora delle azioni finalizzate all’eliminazione della diversità per l’instaurazione di un potere, che si può ritorcere contro chi l’ha generato. Il “dopo” si svilupperà nei livelli futuri dei romanzi successivi del ciclo, e sarà via via più drammatico. Se da un lato si conterrà l’epidemia, dall’altro la lotta per la sopravvivenza e per il potere porterà a un nuovo sistema di controllo repressivo e antidemocratico. Una distopia, ovvero un’allegoria del pericolo che si corre se il “dopo” viene dominato da una riedizione dell’antica legge del più forte. 

La fantascienza tende a mettere in luce due elementila forza sterminatrice dell’epidemia e la reazione ad essa. La prima deriva da azioni volontarie o da una ricerca scientifica priva di scrupoli etici, ed entrambe spesso sfuggono al controllo e alla pianificazione. La seconda è il vero centro d’interesse  la transizione verso il “dopo”  e mette in luce la ferinità dell’uomo ma anche il suo desiderio di sopravvivere e il suo bisogno dell’altro. Che è poi il conflitto al centro del secondo libro, Il morbo bianco di Frank Herbert, già autore della saga di DuneIl romanzo, uscito nel 1982, tradotto in Italia per Nord nel 1984 e riproposto con incredibile tempismo a dicembre 2019 da Urania (n. 203), racconta la storia di John Roe O’Neill, biologo molecolare statunitense appena giunto in Irlanda per un periodo di ricerca con la moglie e i figli. Un’autobomba dell’IRA causa una strage in cui muoiono anche i familiari di O’Neill, che torna a casa, si chiude in sé, e con grande lucidità mette a frutto le sue competenze, generando in clandestinità un virus in grado di sterminare tutte le persone di sesso femminile irlandesi (popolazione responsabile della strage), inglesi (responsabili dell’oppressione dell’Irlanda che ha portato alla reazione violenta) e libiche (perché in Libia si addestrano i militanti dell’IRA). Il virus sfugge però al controllo e inizia a sterminare la popolazione femminile mondiale, e mentre il pericolo estinzione incombe e si instaura una guerra di tutti contro tutti per la conservazione della specie, con il ritorno a una sorta di medioevo in cui si isolano e si sterminano le popolazioni degli stati contaminati, O’Neill è ricercato ovunque. Lo si vuole vivo perché permetta di scoprire il vaccino per fronteggiare la pandemia del suo “morbo bianco”, o “peste bianca”  così chiamato a causa del pallore delle vittime e delle chiazze bianche che si manifestano alle loro estremità. In un clima di guerra totale, O’Neill è tornato in Irlanda, e qui entra in scena la schizofrenia che emerge nel personaggio: da un lato votato alla vendetta sterminatrice, dall’altro gradualmente cosciente del male inflitto. È l’umanità che confligge con la ferinità, ma il biologo non potrà trovare una sintesi se non nella follia. In una situazione paradossale: in un’Irlanda sconvolta da guerre tribali, carica d’odio per O’Neill, il suo diventare pazzo e girovagare tra i boschi come un “banshee”, uno spirito tradizionaledeterminerà la sua accettazione e la generosità di chi lascia cibo davanti alla porta di casa perché lui possa sfamarsi. In una terra dove i combattimenti e gli omicidi non si placano, una forma di perdono e di umanità si recupera istituendo riti comuni, ovvero una comunità. Anche se nulla, è chiaro, sarà più come prima. 

E qui chiudiamo il nostro percorso, con Vampiri di Matheson. Il libro è stato ripubblicato più volte negli anni, ma è più noto con il titolo Io sono leggendaspecie dopo l’adattamento cinematografico di Francis Lawrence con Will Smith (2007). Romanzo e film differiscono profondamente nella narrazione propongono due finali diametralmente opposti. Per questo è utile confrontarli. Il libro racconta la vita dell’ultimo essere umano, Robert Neville, in un mondo sconvolto da un’epidemia che ha trasformato tutti in vampiri. Cerca un vaccino ed esce solo di giorno per recuperare cibo e uccidere vampiri dormienti. È però l’unico uomo tra i mostri, quindi diventa lui stesso il mostro: è colui che giunge mentre si dorme, e uccide. È rimasto un essere del passato mentre il mondo è andato avanti, la specie si è evoluta rapidamente e i vampiri ormai riescono a vivere anche alla luce del sole, come si capisce quando incontra una donna, apparentemente un’altra superstite, Ruth. È invece un’avanguardia di una nuova umanità che cerca di costruire una comunità e ha un mostro che l’affligge: Robert, la leggenda nera. Nel film, invece, i vampiri sono diventati uomini deformati dalla rabbia. Robert, solo sopravvissuto in città, continua a ucciderli e cerca il vaccino, sperando sempre di trovare altri superstiti. Non diventa mai il mostro, e la donna che incontra è un altro umano, alla quale, sacrificandosi per salvarla, consegnerà il vaccino perché lo porti a una colonia di uomini che si pensa insediata poco lontana. Il finale è un “e tutti vissero felici e contenti”, tutto torna come prima, come nell’adattamento Disney della Bella addormentata. Il “dopo” è un superamento del trauma che non mette minimamente in discussione l’uomo. Anzi: l’epidemia nel film genera mostri che sono ben altro dagli uomini, e la cura cancella ogni traccia del male. Una prospettiva molto diversa da quella offerta da Matheson 

Se una pandemia in letteratura sviluppa spesso e volentieri una riflessione sul mostro che è in noi, nel nostro modello di vita, nel nostro pianeta, è la stessa letteratura che può offrire prospettive con cui guardarsi e risolversi. A ben vedere, allora, non può esistere un finale come “e tutto sarà come prima”. Lo capisce anche Dylan Dog, quando si risveglia in quella mattina del 2560 e incontra una donna (come in Vampiri e Io sono leggenda) che gli racconta del super-raffreddore, e che lui e lei, come altri, appartengono a una nuova umanità. Quale? Leggere per scoprire, e non solo Dylan Dog

E sia chiaro che nessuna prospettiva è priva di problemi da risolvere
Ad ogni modo: “Niente panico!”, come insegna Douglas Adams in Guida galattica per gli autostoppisti (1979), che mette addirittura in scena la distruzione del pianeta Terra per far spazio a un’autostrada intergalattica
E ricordiamoci che la letteratura non dà risposte, ma prospettive diverse, cioè la possibilità di formulare domande. Le domande portano al “dopo”, le risposte immediate ci lasciano nel presente.


* Alberto Sebastiani è curatore della raccolta dei 13 romanzi del ciclo di Eymerich, da poco uscita per Mondadori (Titan Edition, in 3 voll.). Al ciclo ha dedicato anche un saggio critico.
In uscita ad aprile, per EDB, un suo libro dedicato alle riscritture civili del Padre nostro tra letteratura e canzoni. 

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