sabato 27 febbraio 2021

Stereotipi e archetipi (ancora sul femminile, non solo grammaticale)

Quando si parla di femminile grammaticale, da una parte si levano scudi e si sbarrano cancelli, dall'altra si alzano spalle, si grida alla stecca o si rispolvera la vecchia arma del riso.

[1835]


Questi schieramenti non sono - come si potrebbe pensare - facilmente identificabili. E tantomeno si può pensare di etichettarli semplicisticamente per opposizione: femminista/maschilista, progressista/conservatore.

Il primo errore da non fare, quando si parla di femminile, è infatti quello di sottovalutare il peso delle divisioni interne ai movimenti femminili, e anche una certa ostilità reciproca che possiamo trovare all’interno di gruppi di donne che occupano con consapevolezza ruoli “apicali” nella società. (L'ultimo, significativo episodio, le polemiche verso una direttrice d'orchestra che - alla stregua di tante altre direttrici che operano in ambienti prevalentemente maschili - si è autonominata al maschile, direttore, per motivi che pertengono alla distinzione sociale più che alla grammatica, ma che andrebbero comunque rispettati - anche per evitare lo spiacevole "effetto matroneo", verso il quale è costretto ad alzare lo sguardo il compassionevole predicatore di turno). 

La scrittrice premio Nobel Toni Morrison, nel volume L’importanza di ogni parola, suddivide le donne americane in tre gruppi: le femministe dichiarate, le antifemministe e le umaniste non allineate; ciascuno di questi gruppi tende a sabotare l’altro (Donne, razza e memoria, 1989). In Italia la situazione, oggi, è certo più frammentata: accanto alle antifemministe, troviamo le vecchia guardia (essenzialiste o differenzialiste - ma oggi accomunate in quanto "separatiste", bollate come TERF o liquidate come binarie) nettamente separate dalla nuova generazione di "intersezionaliste".    

Morrison parla anche, in un altro scritto, dell'atteggiamento da sorellastre di Cenerentola” (nell'articolo omonimo). Queste sorelle, che negli adattamenti recenti e nella versione disneyana sono brutte e goffe, nella favola di Grimm sono “belle e bianche di viso”: si tratta cioè di donne di ceto sociale elevato (donne di potere) che contribuiscono all’oppressione di altre donne della famiglia. 

Ci troviamo dunque di fronte a un archetipo, proprio come quello del principe azzurro (per rimanere nel fiabesco) o l’immagine della donna messa a tacere dall’uomo, su cui ha scritto pagine luminose la classicista Mary Beard, nel suo Donne e potere, partendo da Penelope - che l'imberbe Telemaco rispedisce nelle sue stanze perché “la parola spetta agli uomini” (il mansplaining viene da lontano...). Ma possiamo pensare anche alla Griselda del Decameron, evocata dalla romanziera Antonia Susan Byatt in uno dei suoi racconti fantastici come esempio di voce ed energia femminile soffocata. 

Del resto, è un archetipo anche quello che vede generazioni diverse di donne in lotta tra di loro: una lotta simbolica che passa attraverso lo scambio di cibo, la trasmissione di pratiche affidata ad aghi e spille - ce lo ha spiegato l'antropologa francese Yvonne Verdier, analizzando le versioni dimenticate della favola di Cappuccetto Rosso (il libro è stato tradotto in italiano).

Gli archetipi sono immagini dal forte valore modellizzante in una certa tradizione culturale. Non vanno confusi con gli stereotipi (che a loro volta non vanno confusi con i prototipi...). E vanno conosciuti e riconosciuti quando ci occupiamo di certi temi, pena il rischio - non appena ci si ritrova in una posizione di visibilità o di potere - di assumere quello stesso atteggiamento che rimproveriamo agli oppressori: sfruttare il lavoro femminile (materiale e intellettuale) riducendo le (altre) donne al silenzio, o divorandole addirittura.

Scrive Toni Morrison, rivolgendosi alle studentesse neolaureate del Barnard College di New York nel 1979: 

Non voglio chiedervi bensì dirvi di non partecipare all'oppressione delle vostre sorelle.  [...] Mi allarma la violenza che le donne compiono sulle altre: violenza professionale, violenza competitiva, violenza emotiva. Mi allarma la prontezza di tante donne a ridurre in schiavitù le altre. Mi allarma la sempre più sfacciata indecenza nel mattatoio delle realtà professionali femminili. (Le sorellastre di Cenerentola, in L'importanza di ogni parola, p. 124)

Non vi siete accorte di questo atteggiamento in tante paladine del femminile? Beh, esiste un modo per smascherarlo, almeno nella scrittura: basta guardare le bibliografie, quando ce ne sono. Perché il sistema delle citazioni - come ho scritto alla fine di questo post - è una spia infallibile del modo in cui si cerca di costruire la propria autorità (chiamiamo le cose col loro nome, autorevolezza è una parola da pedagogisti ipercorretti e da influencer). Stabilendo alleanze e - ahi noi - occultando scientemente chi ci ha precedute o ci affianca, e da cui abbiamo imparato tutto quello che predichiamo dai pulpiti mediatici. 

Allo stesso modo per cui chi si appropria dei GRS (grafici radiali Sabatini) cita Tesnière (che rappresentava in altro modo, a forma di albero rovesciato, la struttura verbocentrica della frase) tacendo Francesco Sabatini, così capita che chi scrive di uso pubblico delle forme femminili citi la pioniera Alma Sabatini (che dell'altro Sabatini non è parente né congiunta, anche se fu lui a prefare la ricerca sul sessismo nella lingua italiana, commissionata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1986 - l'autrice morirà due anni dopo in un incidente stradale) tacendo il contributo scientifico e l'impegno a fianco delle istituzioni di chi ne ha raccolto il testimone: prima Gianna Marcato e poi, dal 2000 Cecilia Robustelli. Oppure citandone il nome ma tangenzialmente, magari per parole riportate in un'intervista. 

Io non mi capacito di quest'atteggiamento (potrei dire che sono "basita" o "offesa", ma non fingo sorpresa preparando l'offesa). Perché mina la credibilità di tutte le donne che hanno a cuore la questione femminile e, con sensibilità diverse (ma con la stessa cura amorevole e senza aggressivi protagonismi), cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni al problema della rappresentanza e dei diritti delle donne e di altre minoranze. Una questione non solo linguistica, evidentemente, ma anche sociale e politica. Che però non deve diventare, come avverte Toni Morrison, "un'astrazione, una causa": perché è anche e in primo luogo "una questione personale. Non si tratta solo di noi, si tratta di me e di te". 

Né l'amore per la causa deve farci dimenticare, come dice Patrizia Valduga (che ho già citato qui), che la storia della lingua è anche storia delle idee del passato: di pregiudizi, discriminazioni, superstizioni che non possiamo pretendere di cancellare con un colpo di spugna. Ce lo ricorda Valeria Della Valle nella lettera di risposta alle richieste di modifica di alcune voci del dizionario Treccani frutto del lavoro redazionale di generazioni di esperte ed esperti. 

Tenere a mente la dimensione storica della nostra lingua (che pure - con buona pace dei puristi - porta le tracce di architettricidottrici, lettrici, e perfino di una professora) è un atto dovuto per linguisti e linguiste. Loro, nostro compito sarebbe anche quello di sensibilizzare all’idea che non tutti i discorsi polemici portano necessariamente al raggiungimento di un accordo: un esempio è offerto dal dibattito francese sul velo nelle scuole, analizzato da Ruth Amossy, autrice del volume Apologia della polemica, recentemente tradotto dal francese. Secondo la studiosa israeliana, possiamo e dobbiamo elaborare una “retorica del dissenso” che educhi a gestire il disaccordo, evitando la polarizzazione delle opinioni e la tendenza a delegittimare l’avversario. 

Fondamentale è anche ricordare che le parole percepite come "ostili" possono ferire, ed è compito delle istituzioni trovare rimedi e lenitivi: il "politicamente corretto" da questo punto di vista può funzionare da strumento di difesa per le minoranze oppresse. Perciò è giusto promuoverne l'uso, ma senza imporlo dall'alto, senza ledere il diritto all'autodeterminazione dei soggetti interessati (non a caso i governi, i ministeri, le regioni, i comuni, le università che diffondono delle linee guida per contrastare la discriminazione usano formule come "si consiglia, si raccomanda…") e rispettando la grammatica di una lingua, che è garanzia di intercomprensione al di là delle microcomunità nelle quali ci si riconosce

Nello sforzarci di usare un linguaggio non offensivo, poi, dovremmo ricordarci che la convivenza di opinioni diverse è vitale all’interno di una democrazia: quando difendiamo la libertà di espressione non dovremmo erigere cancelli - ce lo ricorda l’americana Suzanne Nossel, autrice del volume Dare to speak. E quando mettiamo sotto accusa la cultura dell'odio, dovremmo evitare di alimentarla con il flaming virtuale, magari chiedendo la testa dei maschilisti o delle femministe d'antan. 

Infine, come donne che si autodefiniscono o vengono riconosciute "brave", dovremmo distinguere la bravura dalla bravezza: perché la lingua è un serbatoio di stereotipi in un senso e nell'altro. Al maschile, l'aggettivo bravo porta con sé una connotazione di ferocia rapinosa e impunita che al femminile per fortuna non c'è. O non ancora. 

***

AGGIORNAMENTO: Parliamo di lingua politica al femminile a Lingua Batte (23 gennaio 2022)

***

Di seguito, per chi volesse approfondire, la bibliografia scientifica essenziale che ho preparato nel 2020 per le Linee guida sulla visibilità di genere nella comunicazione istituzionale del mio Ateneo (i testi linkati sono leggibili online).

Con un'avvertenza: bisogna distinguere i suggerimenti da "Grammatica italiana" (quelli relativi alla corretta flessione dei nomi femminili) da quelli che pertengono alla dimensione del "Manuale/Codice/Dizionario di stile" a uso di redazioni, uffici ecc. alle prese con la scrittura di testi (qui si parlerà eventualmente di espedienti grafici come l'asterisco finale, accettabili in una e-mail aziendale ma non in un bando pubblico). E, soprattutto, tenere distinti diversi usi sociali della lingual'uso militante e mobilitazionista della lingua proprio dell'attivismo (che passa oggi per proclami social più che per collettivi, manifestazioni e tazebao) è altro rispetto all'uso istituzionale della lingua, all'uso quotidiano e colloquiale, all'uso con fini artistici. L'uso comune riposa su convenzioni frutto di un accordo storicamente condivisi dall'intera comunità, le regole grammaticali (come l'accordo di genere) non sono negoziabili e l'evoluzione della lingua segue ritmi naturali che non possono essere forzati da interventi autoritari (come ha mostrato l'esperienza della politica linguistica in età fascista).


Agenzia delle Entrate, Linee guida per l'uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere, Prefazione di Claudio Marazzini, 2020.

Carla Bazzanella, Genere e lingua, in Enciclopedia dell’italiano, diretta da Raffaele Simone, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. I., 2010, s.v.

Saveria Capecchi, La comunicazione di genere. Prospettive teoriche e buone pratiche, Roma, Carocci, 2018.

Stefania Cavagnoli, Linguaggio giuridico e lingua in genere. Una simbiosi possibile, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2013.

Stefania Cavagnoli, Laura Mori (a cura di), Gender in legislative languages. From EU to national law in English, French, German, Italian and Spanish, Berlin, Frank & Timme, 2019.

Fabio Corbisiero, Pietro Maturi, Elisabetta Ruspini (a cura di), Genere e linguaggio. I segni dell’uguaglianza e della diversità, Milano, Franco Angeli, 2016. 

Maria Vittoria Dell'Anna, Genere e rappresentazione del femminili nei testi del diritto e dell'amministrazione in Italia, "Kwartalnik Neofilologiczny", LXVI, 2/2019: 353-360.

Valeria Della Valle, Rita Fresu, Cecilia Robustelli, Carla Marcato, La lingua e il femminile, la lingua al femminileSpeciale          Treccani - Lingua Italiana, 2012.

Francesca Dragotto (a cura di), Grammatica e sessismo. Questione di dati? Lavori del Seminario interdisciplinare (2012), vol. 1, Roma, Universitalia, 2012.

Francesca Dragotto (a cura di), Grammatica e sessismo. Lavori del Seminario interdisciplinare (2014-2015), vol. 2, Roma, Universitalia, 2015.

Patrizia Gabrielli (a cura di), Elette ed eletti. Rappresentanza e rappresentazioni di genere nell’Italia RepubblicanaRubbettino, Soveria Mannelli, 2020. 

Giuliana Giusti, Susanna Regazzoni (a cura di), Mi fai male… Atti del Convegno (Venezia, Auditorium Santa Margherita, 18-19-20 novembre 2008), Venezia, Cafoscarina, 2009 (parte II: Mi fai male... con le parole).

Yorick Gomez Gane (a cura di), «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, con interventi di Giuseppe Zarra e di Claudio Marazzini, Firenze, Accademia della Crusca, 2017.

Silvia Luraghi, Anna Olita (a cura di), Linguaggio e genere. Grammatica e uso, Roma, Carocci, 2006.

Carla Marcato, Lingua e genere, in Manuale di linguistica italiana, a cura di S. Lubello, Berlin, de Gruyter, pp. 357-364.

Gianna Marcato (a cura di), Donna & linguaggio, Padova, Cleup, 1995. 

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, a cura del gruppo di lavoro MIUR coordinato da Cecilia Robustelli, Roma, MIUR, 2018.

Stefano Ondelli (a cura di), Le italiane e l'italiano: quattro studi su lingua e genere, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2020.

Graziella Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Cagli (PU), Settenove, 2014.

Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l'uso dell'italiano, Roma, FNSI-GIULIA, 2014 (Prefazione di Nicoletta Maraschio).

Cecilia Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto “Genere e linguaggio. Parole e immagini della comunicazione”, Firenze, Comune di Firenze, 2012.

Cecilia Robustelli, Pari trattamento linguistico di uomo e donna, coerenza terminologica e linguaggio giuridico, in La buona scrittura delle leggi, a cura di Roberto Zaccaria, Atti del convegno (Roma, 15/9/2011), Roma, Camera dei Deputati, 2012, pp. 181-198.

Cecilia Robustelli, Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere, Roma, Accademia della Crusca e la Repubblica, 2016  (Postfazione di Claudio Marazzini).

Cecilia Robustelli, Infermiera sì, ingegnera no?, in I temi del mese (2012-2016), a cura di Claudio Marazzini, Firenze, Accademia della Crusca, 2016, pp. 11-13.

Cecilia Robustelli, Lingua italiana e questioni di genere. Riflessi linguistici di un mutamento socio-culturale, Roma, Aracne, 2018.

Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1987.

Maria Serena Sapegno (a cura di), Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole, Roma, Carocci, 2011.

Anna Maria Thornton, Quando parlare delle donne è un problema. In A.M. Thornton, M. Voghera (a cura di), Per Tullio De Mauro. Studi offerti dalle allieve in occasione del suo 80° compleanno, Roma, Aracne, 2012, pp. 301-316.

Anna Maria Thornton, Per un uso della lingua italiana rispettoso dei generi, Università dell'Aquila, 2020 (Prefazione di Paolo d'Achille).


mercoledì 10 febbraio 2021

La scuola allo specchio (sul libro di Patrizio Bianchi)

Negli ultimi mesi del 2020 è uscito per il Mulino Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l'Italia, il libro in cui Patrizio Bianchi (professore di Economia applicata presso l'Università di Ferrara, di cui è stato anche rettore) ha sintetizzato le sue riflessioni dopo l'esperienza (due mandati) come assessore a Scuola, Università e Lavoro per la regione Emilia Romagna, e il recente impegno di coordinatore del gruppo di esperti che ha affiancato (rimanendo inascoltato) la ministra dell'Istruzione nella prima fase dell'emergenza legata alla pandemia. (Il rapporto Bianchi si può leggere a questo link). 




Ripensare il sistema scolastico per cambiare il Paese - recita la quarta di copertina (lo strillo, che chiosa il titolo, è leggibile sulla prima di copertina).

La scuola come specchio (convesso e riflettente) del Paese, dunque.

Che a dircelo sia un professore (un membro dell'élite che ha studiato, e ben oltre i titoli di studio, vivaddio), è un gran sollievo per chi - come me - è sconfortato dallo spettacolo dell'incompetenza al potere e stanco di tollerare che chiunque - per il semplice fatto di avere "una figlia o nipotina Maddalena che va a scuola" (come amava ripetere Tullio De Mauro) - si senta autorizzato a pronunciare pareri sulle politiche scolastiche.  

Se non avete mai sentito parlare il professor Bianchi, vi invito ad ascoltarlo: a questo link (gentilmente segnalatomi da Gianluigi Bovini), potete trovare la registrazione dell'incontro di presentazione del volume, "Nello specchio della scuola - Quale sviluppo per l'Italia", organizzato da AUSER Emilia-Romagna e dal Gruppo di consapevolezza civica "Emilia Romagna diversa" il 21 gennaio, in occasione della giornata mondiale dell'educazione.

Se prima di comprare il volume volete farvi un'idea dei contenuti, qui potete trovare le slide dell'incontro.  Qui, invece, trovate la recensione comparsa sulla rivista del Mulino. Io, però, vi consiglio di leggerlo, il libro. Anche solo per tornare a familiarizzare - dopo mesi di slogan, comunicati televisivi della durata di 20'' (secondo lo stile inaugurato da Paolo Bonaiuti), videomessaggi diffusi via social da esponenti del governo - con il pensiero complesso che si esprime attraverso argomentazioni formulate sotto forma di periodi compiuti e incatenati con coerenza. E per provare a esercitare quel "giudizio critico" di cui il libro, in più punti, reclama l'importanza in una società democratica. 

Anche se personalmente non saprei rispondere a certe domande di politica economica, penso sia un bene porsele. Poi, certo, il tema del valore economico della scuola può essere declinato in modi diversi: possiamo limitarci a stabilire una correlazione tra educazione/istruzione e sviluppo/crescita e tra capitale umano ed economico (rimarcando magari l'importanza delle competenze che la scuola dovrebbe fornire per consentire di competere nel mercato del lavoro); oppure preoccuparci degli effetti che la povertà educativa crea: povertà economica e povertà di diritti - in una parola, disuguaglianza, che è quanto la nostra Costituzione democratica ci impone di contrastare con tutti i mezzi possibili, ma che il divario digitale nei troppi mesi di DAD ha contribuito ad accrescere (per non parlare dei danni psicologici sulla nuova generazione). 

"Investire sui bambini, sui ragazzi, sugli adolescenti, e anche sui loro docenti" è doveroso, non solo conveniente. Ma, certo, l'argomento economico è sempre più persuasivo (e pervasivo) in un Paese che ha pensato di affrontare la prima grande crisi economica della globalizzazione (coincidente con i cambiamenti legati alla digitalizzazione) tagliando gli investimenti su scuola e ricerca (con i risultati che adesso sono sotto gli occhi di tutti). Il grafico riportato a pag. 95 del libro è impietoso nel mostrare l'andamento degli investimenti per l'istruzione in Italia dal 2008 al 2017, assestatosi su livelli di sussistenza, dopo i drastici tagli volti - ve lo ricordate il cinico slogan del campione dell'elusione fiscale? - ad "affamare la bestia".

Ma andiamo con ordine. Il libro si apre con una drammatica constatazione: l'Italia è il paese d'Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET, cioè di ragazzi che non studiano e non lavorano. Potremmo aggiungere che è anche quello con gli insegnanti più anziani, peggio pagati e dalle carriere più precarie, con le scuole più fatiscenti, con il grado più basso di senso civico/di comunità e il più ambiguo connubio tra difesa dei diritti (di chi è soggetto di diritti) e resistenza a ogni cambiamento (magari a vantaggio di chi quei diritti non li ha garantiti, come i più giovani). E dove continuano a esserci differenze troppo marcate tra Nord e Sud, nonostante le indicazioni inequivocabili che vengono dalle rilevazioni nazionali degli apprendimenti (INVALSI), la quantità di fondi sociali europei destinati alle regioni-obiettivo (progetti PON-INDIRE),  i provvedimenti a favore dell'autonomia scolastica (legge del 1997) che avrebbero dovuto riequilibrare la situazione e si sono invece trasformati in una gara al rimpallo. Perché in Italia le decisioni in materia di politica scolastica (aperture e chiusure, per esempio) spettano alle Regioni, ma la gestione delle strutture scolastiche è affidata agli enti locali (i Comuni per le scuole dell'obbligo e umanistiche, le Province per le scuole tecniche) mentre il personale e gli Uffici Scolastici Regionali dipendono dal Ministero.  E questo in una situazione caratterizzata da una presenza sul territorio che non ha eguali in altre istituzioni (8000 scuole con 7,5 milioni di allievi nelle scuole statali e oltre 850.000 nelle paritarie) e da politiche di inclusione che non hanno pari in Europa (260.000 studenti disabili scolarizzati). 

Come si può pensare di governare con leggerezza una situazione di simile complessità, tanto più dopo che la pandemia ci ha mostrato tutti i limiti di una "leale collaborazione tra istituzioni" (oltre che della responsabilità individuale dei cittadini)?

Come si può pensare, in queste condizioni, di affrontare la sfida posta dall'ambizioso Next generation EU ma, ancora prima, dalla Raccomandazione sulle competenze chiave per l'apprendimento permanente diffusa dal Consiglio Europeo nel maggio 2018? 
Sostenibilità, resilienza, transizione ecologica, innovazione digitale, inclusività... rischiano di rimanere parole vuote in un Paese che chiude le scuole e smette di scommettere e investire su ricerca, selezione e formazione in servizio dei docenti, tempo scuola... Un Paese in cui si rinuncia a formare lettori competenti in grado di capire - prima ancora che di risolvere - problemi di media complessità. 
Da questo punto di vista non posso che sottoscrivere quanto si legge a p. 141 del libro: 
L'insegnamento dell'italiano serve per dare a tutti "le parole per dirlo" [titolo del fortunato libro di Marie Cardinal, prima che di un programma televisivo], cioè il primo strumento per esprimere con autonomia e appropriatezza un pensiero, senza che siano altri ad appropriarsi dei nostri sentimenti, parlando per noi o formulando luoghi comuni passati per buon senso.
Ma come fare, in concreto, per passare dalla diagnosi delle disuguaglianze (ora che abbiamo gli strumenti per misurarle in termini di genere, nazionalità, regione di provenienza, livello socio-economico e culturale della famiglia di provenienza, disponibilità delle tecnologie digitali) a un'efficace politica di contrasto delle disuguaglianze

Come fare per mettere "le persone al centro dello sviluppo", senza che questo suoni come uno slogan commerciale ("persone oltre alle cose" - i bambini e i ragazzi oltre ai banchi, per dire), o comunque come una formula che promette ma non mantiene?
Queste alcune delle soluzioni prospettate da Bianchi (alcune delle quali da lui felicemente sperimentate come assessore regionale: penso alla formazione professionale, che in Emilia è una realtà di eccellenza, a torto snobbata da tante famiglie che "o il liceo o niente"):

  • ritrovare la natura profonda della scuola, del suo essere "costruttrice di comunità" (p. 159). Una definizione che richiama quella data dallo stesso Bianchi nel 2012, alle prese con la ricostruzione dopo il terremoto dell'Emilia: "la scuola è il battito della comunità".
  • ridare alla figura dell'insegnante una rilevanza sociale adeguata alla responsabilità che essa assume nei confronti della società (p. 139)
  • innalzare l'obbligo scolastico da 16 a 17 anni (p. 169) potenziando la formazione professionale affidata alle regioni per contrastare la dispersione scolastica (ma senza accorciare di un anno i percorsi dei licei, di grazia!) 
  • restituire tempo-scuola: con il tempo pieno nella scuola dell'obbligo, per esempio (p.142) 

Una cosa mi lascia perplessa nello sguardo che Bianchi porta su esperienze esemplari di scolarizzazione alternativa diffuse nel territorio: non possiamo mettere sullo stesso piano l'esperienza dei Maestri di strada napoletani e quella della scuola nel bosco, diffusa in altri centri urbani - perché operano in luoghi irriducibili (la strada in cui si finisce dai bassi e il bosco in cui vengono collocati piccoli baroni rampanti) e realtà diversissime sul piano socioculturale. Né possiamo appaiare i progetti innovativi che introducono il coding nelle scuole con quelli che portano libri in classe (sappiamo da tempo che non è il possesso e l'uso di tecnologie, rapidamente obsolete, ma il numero di libri presenti in casa a fare la differenza sul piano della riuscita scolastica). Rinunciare alle conoscenze (svilite a "nozioni") che la scuola dovrebbe trasmettere, in nome delle competenze, non è una buona scommessa: si rischia di cadere in una "trappola" educativa analoga a quella economica di cui si parla a p. 10 e p. 157. 

Per questo motivo vorrei porre all'attenzione del Professor Bianchi (e di chi, anche leggendo il suo libro, dovrà prepararsi a incarichi nel settore istruzione all'interno del nuovo governo), la proposta che una insegnante torinese di scuola media, Chiara Panzieri, sta cercando di promuovere con il passaparola per prolungare il tempo-scuola, offrendo ai propri alunni un aiuto pomeridiano che dovrebbe essere valorizzato e riconosciuto dalle istituzioni. Non si tratta di far uscire i ragazzi dalle classi ma di rimanerci il più a lungo possibile, con loro, per tutti (discipline e sostegno) e con tutti (alunni fragili e alunni bravi, che potranno aiutarsi a vicenda). Si tratta di fare i compiti insieme, capire le consegne, aver cura dei quaderni, far leggere a voce alta e fare domande di comprensione sui testi delle diverse discipline. Basta un'ora per insegnante, al pomeriggio, ciascuno con la propria classe, di cui conosce i bisogni.  "Correggeremo un compito in meno, pazienza, ma potremo intervenire correggendo e consigliando mentre i nostri alunni sbagliano, durante il loro processo di apprendimento, e non dopo, quando hanno già sbagliato" - scrive Chiara.

Questo l'appello, seguito da uno schema utile a chi voglia aderire. 

 

RESTITUIRE TEMPO SCUOLA IN PRESENZA!

Appello degli insegnanti, in particolare per il primo ciclo.


  1. IN VIA ECCEZIONALE PROLUNGARE L’ATTUALE CALENDARIO SCOLASTICO FINO AL 30 GIUGNO E ANTICIPARE IL PROSSIMO AL 1° SETTEMBRE 

Restituire tempo scuola in presenza alle scuole che ne sono state private: tempo per la didattica e tempo per la socialità scolastica.

Una didattica cooperativa che sia di recupero per chi si è perso e di potenziamento per chi è riuscito a seguire (“Noi impariamo il 10% di ciò che leggiamo, il 20% di ciò che ascoltiamo, il 30% di ciò che vediamo, il 50% di ciò che vediamo e ascoltiamo, il 70% di ciò che discutiamo con altri, l'80% di ciò che viviamo di persona, il 95% di ciò che insegniamo a qualcun altro.” W. Glasser).

La socialità scolastica è diversa da quella amicale, familiare, associativa: è la prima forma di comunità democratica che si sperimenta, insieme a compagni di classe che non abbiamo scelto, uniti solo dalla scuola.


  1. IN VIA ECCEZIONALE MODALITÀ IN FREQUENZA DEGLI ESAMI DI TERZA SSPG

             Di conseguenza va permessa una modalità in frequenza dell’esame conclusivo del primo ciclo.

        3. DAL PROSSIMO ANNO TEMPO PROLUNGATO PER TUTTE LE CLASSI DEL PRIMO                     CICLO E FORMAZIONE OBBLIGATORIA PER GLI INSEGNANTI

                     La DAD ha messo ancor più in evidenza come una vera scuola democratica, che possa - come recita l'art.3                                      della Costituzione - rimuovere gli ostacoli che permettono l’esercizio della libertà e dell’uguaglianza e che possa                              far raggiungere a tutti le competenze di base e i traguardi previsti dalle Indicazioni Nazionali, debba                                                  necessariamente far lavorare alunni e alunne a scuola, insieme. Un tempo lungo, disteso, laboratoriale e aperto al                              territorio: per questo è necessaria una formazione continua per tutti gli insegnanti.


Affidiamo al Ministero, al Governo, ai Sindacati, alle Associazioni di categoria il compito di confrontarsi, trovare risorse organizzative ed economiche per realizzare le proposte qui indicate.

 






domenica 7 febbraio 2021

Grammatica dei bambini: la frase (vol. II)

A distanza di pochi mesi dall'uscita (per Carocci Faber) del primo volume della serie Grammatica dei bambini, scritto da Veronica Ujcich e dedicato alle parole (le parti del discorso), esce il secondo volume, di Diana Vedovato e Vera Zanette, dedicato alla frase.

Un progetto innovativo, che merita l'attenzione di tutti gli insegnanti (non solo quelli di scuola primaria, ai quali è primariamente rivolto).

Il primo dei due volumi (che ho amato e chiosato, imparando moltissimo) sarà recensito altrove. Mi concentrerò qui sul secondo, che affronta più da vicino il cuore delle nostre riflessioni: la frase.





Entrambi i libri sono pensati come raccolte di lezioni sulla riflessione linguistica rivolte agli insegnanti: in ogni capitolo la voce dell'insegnante-ricercatrice-autrice ripercorre il movimento di una lezione laboratoriale basata sul metodo della scoperta (messo a punto da Lo Duca con i suoi "esperimenti grammaticali"), guidando passo passo l'insegnante sperimentatore: 
- alla scelta dei materiali linguistici da osservare
- alla "regia" della conversazione euristica che nasce dall'osservazione condivisa
- alla "soluzione" di eventuali proposte inattese emerse dal confronto in classe.
 
Le autrici propongono, in apertura, una suggestiva metafora, che ci riporta agli orologi del tempo sperimentati da Veronica Ujcich nel precedente Grammatica e fantasia:
Riflettere sulle frasi è come aprire un orologio dopo aver imparato a leggere l'ora, quando non ci accontenta più di saper interpretare la posizione delle lancette e si vuol capire qual è il meccanismo che le muove. Di fronte agli ingranaggi ci sono due possibilità: staccare i vari pezzi e classificarli, oppure osservare la forma dei componenti e indagare come interagiscono tra di loro.

Al lavoro di classificazione e riconoscimento dei pezzi singoli ci siamo già abituati. Per scoprirne il funzionamento dobbiamo capire (come insegnanti) e cercare di spiegare (ai bambini) due concetti fondamentali: il raggruppamento delle parole in pezzi o sintagmi e la verbo-dipendenza o valenza.

Già il volume Grammatica e fantasia. Percorsi didattici per l'uso dei verbi nella scuola primaria (2011, 2020 2a ed.) presentava un percorso di scoperta della valenza del verbo (curato da Sabrina Cannavò). Qui il percorso viene approfondito e modulato: in accordo con l'idea che ogni classe sia un ecosistema (a prescindere dalla sua composizione e dal numero di casi diversamente "problematici" presenti), le lezioni sono strutturate su tre livelli: livello base, livello intermedio, livello avanzato.

Tra le attività proposte troviamo sia quelle da svolgere da soli sul quaderno, sia altre da affrontare in coppia o a piccoli gruppi. Tutte le attività sono inoltre corredate di soluzioni e ampliamenti online.

Sono entrata in classi della primaria solo come animatrice di incontri e laboratori, senza la continuità e la fatica che il lavoro di insegnante richiedono. Ma se fossi una maestra non avrei dubbi: abbandonerei il vecchio pesante baule pieno di attrezzi grammaticali inutilizzabili con i bambini e mi doterei di questa meravigliosa, agile valigia a tre scomparti. E aspetterei con ansia di frugare nel terzo scomparto: La lingua, in uscita in autunno, che si annuncia ricco di altre e varie scoperte (su lessico, la punteggiatura, le varietà di lingua).

Riporto, in chiusura, la dedica che Veronica Ujcich (si pronuncia con due CI, come Covacich) ha apposto al primo volume della serie. Perché ci ricorda l'importanza di rispettare i bambini (al plurale, presi insieme, tenuto conto di tutte le loro singolarità), la loro lingua (in costruzione) e le loro idee sulla grammatica (che possono rivelarsi molto più acute e precise delle nostre):


Ai bambini tutti insieme

passati, presenti, futuri,

a ogni bambina e a a ogni bambino.

alle tante maestre e ai pochi maestri.

Alla Scuola,

bella e buona

aperta o chiusa.

Alla Scuola quella grande,

grande come il mondo.