giovedì 21 febbraio 2019

I verbi dell'Infinito (1819-2019)


La poesia più nota e amata della nostra letteratura, impressa nella memoria scolastica di tanti (l'incipit e l'explicit, se non altro), compie 200 anni.
15 versi scritti da un giovane di 21 anni, da poco maggiorenne e con un passaporto appena rilasciato e subito intercettato dal padre e stracciato. 
 
Mi piace festeggiarla proponendo un'analisi dei verbi che ne formano l'ossatura. Tenendo a mente e cercando di dimenticare tutte le interpretazioni che ne sono state date, resistendo alla tentazione di mortificare il senso in una inerte parafrasi.

Un esercizio che ho proposto a lezione e che ripercorro qui.






Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani      
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce          
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.





Fu è il primo verbo che si presenta all'ascoltatore/lettore. Un monosillabo, un passato remoto che 
colloca in un tempo non solo passato, ma compiuto e lontano, una cara consuetudine (sempre). Il verbo è alla terza persona singolare e fa da supporto all'aggettivo caro (si tratta di un predicato nominale), ma a ben vedere i soggetti sono due: l'ermo colle e la siepe. Solo col primo il verbo (e con il nome del predicato) si accorda: se la siepe esclude lo sguardo, la grammatica esclude la siepe per indugiare nel giardino (questo accordo "di prossimità" è frequente nei testi italiani del passato, specie quando il soggetto è posposto al verbo; lo si ritrova più avanti nel testo, ai v. 10-12: e mi sovvien l'eterno...). Nelle versioni antecedenti, Leopardi oscilla a lungo tra il passato e il presente. Sceglie infine fu, in opposizione aspettuale con il presente acronico (sempre valido) di esclude (ancora una terza persona singolare). A differenza di esclude (verbo bivalente che ha come oggetto il guardo), fu (caro) regge un pronome obliquo, mi, che introduce per via indiretta l'io poetico come beneficiario (oggetto indiretto): "fu caro a/per me".  I verbi accompagnati da un pronome riferito alla prima persona sono, lo vedremo, una costante dell'idillio (la deissi personale, legata all'uso insistente dei pronomi, si accompagna del resto alla deissi spaziale, con l'opposizione e il finale ribaltamento referenziale di questo/quello). 
La relazione di antitesi dalla campata più ampia non è tuttavia quella di (caro mi) fu con esclude, ma quella col verso finale, che presenta lo stesso tipo di costruzione (predicato nominale e pronome obliquo): m'è dolce, "è dolce per me".

Sedendo e mirando: ecco la mirabile coppia di gerundi. 
Verbi di modo indefinito, e come tali "parole" (non "termini") cariche di quella indeterminatezza che Leopardi amava. 
Verbi che formano un inciso - quasi una panchina su cui indugiare - ma il cui uso richiede il controllo da parte del soggetto, che deve essere lo stesso della frase reggente. 
Verbi che racchiudono un significato durativo, accentuato nella successiva occorrenza del gerundio, inserito nella perifrasi vo comparando
Leopardi aveva ben chiari questi valori aspettuali del verbo. 

Annoterà due anni dopo nello Zibaldone (dopo aver osservato la ricchezza in latino di verbi durativi, che chiama "continuativi" perché "significano continuazione o maggior durata dell’azione espressa da’ loro verbi originari"):   

Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a’ gerundi de’ verbi denotanti l’azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo. I quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa, un’azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più un’azione meno perfetta.  (11 Giugno 1821)

fingo: il verbo fingere ha una lunga tradizione in poesia (si può ricostruire leggendo la voce del TLIO) col significato di 'rappresentare per immagini'. Un autentico dare forma con le parole, e quindi col pensiero ("la lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole", scriverà nello Zibaldone, p. 3255). Lo stesso Leopardi usa altrove il verbo con questo significato (nelle Ricordanze scrive felicità fingendo al viver mio). Qui, però, Leopardi usa una forma pronominale del verbo: fingersi (come immaginarsi). Almeno se interpretiamo questo pronome come un elemento di appoggio puramente semantico al verbo: come dire 'a mio beneficio' (Leopardi scrive altrove io mi credea); in questo caso, interminati spazi..., e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete costituirebbero l'oggetto diretto del verbo e nel pensier un'espansione.     

Ma sono possibili anche altre interpretazioni. Enrico Palandri, per esempio, in un suo libro appena uscito, Verso l'infinito (p. 102) ne suggerisce altre due, legate a una diversa lettura sintattica dello schema del verbo: mi fingo nel pensier, "mi metto nel pensiero (di spazi, silenzio, quiete...)", dove nel pensier è argomento del verbo;  oppure fingo me (col mi anteposto avente valore di complemento oggetto) cioè 'rappresento me stesso mentalmente' (e di questo il cuore avrebbe paura): la terna (spazi, silenzi, quiete) dipenderebbe in questo caso da mirando (inteso come 'avendo davanti') e la virgola dopo il gerundio sarebbe puramente ritmica. Di certo c'è comunque che quel mi dice qui la volontarietà ostinata dell'io senziente: siamo di fronte all'immaginazione attiva del fingersi come più avanti del comparare (verbo trivalente con soggetto espresso: io; un oggetto diretto: quello infinito silenzio, e uno indiretto: a questa voce). Come attivi sono, per tutto l'idillio, i sensi: la vista del mirando che precede, e l'udito dell'odo seguente, che regge come oggetto diretto il vento e insieme l'infinito stormir, di cui il vento diventa soggetto (un infinito che sembra allontanare il vento come causa e prolungarne indefinitamente il rumore). 
Infinito calato in una dimensione sensibile e materiale, dunque, creazione percettiva dell'io che trasforma e integra la visione a partire da uno stimolo uditivo - come Leopardi ribadisce del resto nello Zibaldone (pp. 1025-26):

Sebben l’uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l’infinità, o l’indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell’animo nostro finisce assolutamente sull’ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia. (9. Maggio 1821) 
I verbi della volontarietà si pongono in antitesi con altri verbi pronominali che esprimono sentimenti o processi interni involontari: lo spavento del cor che si spaura, la memoria involontaria che emerge nel mi sovvien, il perdersi del pensiero che metaforicamente s'annega e fa naufragio.
E sarà bene, a proposito del mi sovvien, non tirare Leopardi per la giacchetta, come fa Davide Rondoni in un altro libro appena uscito, E come il vento, ricorrendo a un antico significato del verbo sovvenire, "venire in aiuto" (ampiamente attestato dal TLIO) per ipotizzare una lettura edificante dell'infinito, inteso come epifania salvifica o rivelazione.  

Arriviamo così all'infinito naufragar, sostantivato (e come reificato) grazie all'articolo il e reso soggetto del verso finale. Un'autentica tematizzazione, anche a livello grammaticale, dell'infinito che dà il titolo all'idillio. Di questo potere Leopardi era pienamente consapevole, come ci ricorda questo brano dello Zibaldone (pp. 1333-34):


Altra gran fonte della ricchezza e varietà della lingua italiana, si è quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante detta variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l’immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di cui non la potremmo spogliare senz’affatto travisarla), e naturale a spiriti così vivaci ed immaginosi come i nostri nazionali. Parlo solamente del potere usare p.e. uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo o senza; con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo; con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co’ gerundi; con questo o quell’avverbio, o particella (che, se, quanto ec.); e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall’inusitato, e in somma alla bellezza del discorso, ma anche sommamente all’utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la significazione, e modificarla; potendo l’italiano esprimere facilissimamente e chiaramente, mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della lingua ec. (17 luglio 1821)

Il verbo e le sue costruzioni al servizio del "capitale della lingua": anche di questo continua a parlarci, l'Infinito di Leopardi.


AVETE VOGLIA DI PARTIRE PER UNA GITA VIRTUALE SUL COLLE DELL'INFINITO E NELL'INFANZIA DELLA POESIA?
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mercoledì 20 febbraio 2019

La lingua madre è una coperta di parole (su La Vita scolastica)




A questo link un mio articolo pubblicato su "La vita scolastica" in occasione della Giornata Internazionale della lingua madre, che si festeggia il 21 febbraio.

L'illustrazione, di Freya Blackwood, è tratta dal libro di Irena Kobald (My two blankets, Little Hare Books 2014, trad. it. Una coperta di parole, Mondadori 2016).


Un'occasione per rileggere e proporre in classe la bella poesia di Roberto Piumini sulla linguamamma.

mercoledì 13 febbraio 2019

L'ortografia e la lotta di classe

Ritorno a distanza di tempo sul tema dell'ortografia, un livello superficiale della lingua (scritta) sul quale si concentra la preoccupazione di molti.
In vecchio post si parlava del legame tra l'attenzione alla correttezza ortografica e altre mode hipster come l'ortoressia; in un post più recente, l'importanza accordata alla punteggiatura veniva collegata al ritorno di massa alla scrittura (sui social) come pratica quotidiana.

Il dibattito politico attualmente in corso in Francia (legato al confronto tra il governo in carica e il movimento dei gilets jaunes) ha riportato all'ordine del giorno il legame tra l'ortografia e la classe sociale: gli errori di ortografia commessi dai leader dei gilets jaunes sui gruppi Facebook sono oggetto di messaggi di "odio social" che è, ancor prima, "odio sociale", insofferenza esibita dai foulards rouges nei confronti della scarsa cultura (ma alcuni arrivano a parlare di stupidità) dei manifestanti.

            (Foto AFP)

"Gli errori ortografici smascherano i poveri" - diceva don Milani.
Oggi come ieri, richiamare le classi popolari ai loro errori di ortografia è un modo per delegittimarle ed escluderle dallo spazio politico, come ha scritto Vincent Glad su Libération.
Del resto, i leader del movimento sono consapevoli della loro imperizia ortografica, ma anche del fatto che l'obiettivo per cui usano i social media non è quello di farsi apprezzare, ma di farsi capire.
In un'intervista rilasciata a un altro giornale, il linguista Alain Rey (direttore dei dizionari di francese Le Robert) dice, a proposito di questa ondata di intolleranza ortografica:

Avere una buona ortografia fa parte dei comportamenti sociali. Un'ortografia incerta è tollerabile nelle lettere private, negli SMS, ma in ambito professionale gli errori ortografici espongono a una sanzione sociale: si rischia di essere giudicati male, di subire effetti sociali sgradevoli. Chi commette errori prova un sentimento di scacco. L'ortografia è un indicatore sociale, dà una certa immagine di sé. Dimostra che si è capaci di rispettare le regole, che si ha padronanza della propria lingua. Il valore patrimoniale simbolico associato all'ortografia è quasi eccessivo: un errore genera ancora reazioni di intolleranza in un mondo per altri versi sempre più tollerante.

Intolleranza che si spiega come forma di repressione simbolica da parte di cittadini non necessariamente immuni da errori ortografici (che in Francia sono diffusissimi anche tra le persone colte), ma provenienti da milieux favorisés (in cui la distinzione sociale passa anche attraverso un certo uso della lingua), e da percorsi scolastici in cui viene sviluppato il riflesso a rileggersi per controllare gli errori (insieme con il pregiudizio che porta a rifiutarsi di leggere testi "scritti male").
Ovviamente, l'intelligenza e la capacità di argomentare in difesa dei propri diritti non hanno nulla a che vedere con la padronanza dell'ortografia, e puntare il dito sull'ortografia rischia di far perdere la natura politicamente esplosiva dei messaggi incriminati.

Eric Vuillard, autore di un romanzo breve appena uscito, dedicato alle rivolte popolari che agitarono l'Europa nell'età delle Riforme, ci ricorda il legame tra ingiustizia fiscale, disuguaglianze sociali (e nell'accesso alla cultura) e potere rivoluzionario della parola.
Parola che è spesso maldestra all'inizio, ma che in alcuni casi riesce a sovvertire l'ordine stabilito, ad abbattere barricate reali e simboliche. Les mots, qui sont une autre convulsion des choses.
Nella storia raccontata da Vuillard ha un ruolo decisivo l'invenzione della stampa, con la possibilità di rendere pubbliche e far circolare opinioni personali in "lingua volgare" (del popolo, appunto) che sfidano apertamente il principio di autorità (a partire dall'autorità del testo sacro).



Oggi il luogo del confronto e dello scontro si sposta (o si tenta di spostarlo) sulla rete.
Su iniziativa del Presidente Macron, il governo francese ha lanciato una piattaforma online per "dare la parola ai cittadini e farla ascoltare": è il Gran débat national, che si è aperto il 15 gennaio e si chiuderà il 15 marzo.
"Il governo si impegna a prendere in considerazione tutti i pareri e le proposte espresse nel rispetto del metodo e delle regole del dibattito, secondo principi di trasparenza, pluralismo, inclusione, neutralità, uguaglianza, rispetto della parola di ciascuno" - recita il sito.
Accetteranno i "nuovi poveri" di prendere la parola su questa pedana per dire la loro sui temi di politica fiscale, servizi pubblici, transizione ecologica, cittadinanza e democrazia?
Sarà possibile per i governanti leggere migliaia di contributi e farne una sintesi coerente, sia pure con l'aiuto di programmi per il trattamento automatico dei dati? Come si comporterà il programma di analisi di fronte agli errori di ortografia?


P.S.: Quanto al sentimento di scacco collegato agli errori, una testimonianza toccante è quella di Luigi Di Ruscio, "poeta con la quinta elementare", operaio emigrato in Norvegia, di cui Marcos y Marcos ha da poco pubblicato una raccolta postuma di Poesie scelte (1953-2010): "Fa il poeta e scrive l'aradio. Avevo vergogna di tutti i miei sbagli ortografici, erano come peccati mortali".
 
 


lunedì 4 febbraio 2019

La rete del verbo (su Folio.net)



Nella sezione "Approfondimenti disciplinari" della rivista online Folio.net (anno 6, numero 3) è possibile leggere un mio articolo dedicato al verbo e alla rete di relazioni sintattiche e semantiche che questa parola costruisce all'interno della frase.

Nello stesso numero compare un articolo di Maria G. Lo Duca, Riflessioni sul paradigma verbale dell'italiano e sul suo insegnamento, e una videointervista a Giuseppe Patota.