sabato 29 aprile 2017

"Ogni": quando grammatica fa rima con matematica

Questa volta mi riprometto di essere breve. Prendo spunto da una conversazione con una collega ricercatrice in pedagogia interculturale, Ivana Bolognesi. Parlando di una ricerca che sta conducendo (osservando bambini bilingui alle prese con i compiti a casa), mi racconta di una bambina in particolare, sempre andata bene a scuola, che, arrivata alla fine del ciclo elementare, inizia ad avere alcune difficoltà.
Una delle difficoltà osservate riguarda la comprensione del testo di un problema di matematica: la bambina faticava a capire il significato della parola ogni presente nella consegna. Ora, la stessa bambina, messa di fronte a un breve testo narrativo in cui era presente la parola ogni, non solo non aveva difficoltà di comprensione, ma la classificava correttamente come "aggettivo indefinito". Eppure, quella parola conosciuta diventava improvvisamente opaca all'interno di un testo disciplinare, come se questo fosse scritto in un'altra lingua. In effetti, nel problema la parola ogni, pur mantenendo la sua funzione (determinare il nome) e la sua posizione tipica (davanti al nome), è associata a un "comando", e più in particolare a una operazione algebrica da eseguire: moltiplicazione (es. ci sono 3 scatole; devi mettere 6 uova in ogni scatola: quante uova ti servono?) o divisione (es. hai 18 uova e vuoi sistemarle in 3 scatole; quante uova metterai in ogni scatola?), a seconda del contesto.
Allora: dov'è il problema?
Il problema è nel modo frettoloso e tassonomico con cui - durante l'ora di grammatica - vengono liquidate parole importanti che funzionano come operatori logici. Una parola come ogni meriterebbe molte riflessioni: perché - come mostra il problema di matematica - di "indefinito" ha in realtà ben poco: si tratta di un quantificatore, alla stregua dei numerali, ma più debole, perché si presta a indicare quantità variabili. Un "aggettivo quantitativo non numerale", potremmo definirlo (per evitare termini troppo tecnici), come scriveva Maria Montessori:



A seconda del testo e del contesto, l'espressione "ogni scatola" indicherà un numero diverso di scatole, bambini ecc. (tutti nomi numerabili!), ma sempre considerate nella loro totalità e in senso distribuzionale. Potremmo dire anche "tutte le scatole", che è un'espressione equivalente, ma in questo caso le considereremmo nel loro insieme, e non una per una.
Attraverso questo confronto abbiamo scoperto una caratteristica importante che distingue tutti da ogni: in entrambi i casi abbiamo a che fare con parole che indicano pluralità, ma nel secondo caso si tratta di un plurale distributivo...
Se continuiamo a osservare le due espressioni equivalenti a caccia di differenze, ci rendiamo conto che ogni sarà pure un aggettivo come ci insegna la grammatica (anzi, è senz'altro un aggettivo, perché se vuole diventare un pronome deve fondersi con uno: ognuno), ma è un aggettivo assai "singolare", perché non cambia forma, si usa solo con nomi singolari e basta da solo a determinare il nome (non serve che ci mettiamo anche l'articolo davanti: ogni scatola funziona benissimo).
Anche tutti è un aggettivo molto particolare: ha 4 forme come la maggior parte degli aggettivi (tutta, tutto, tutti, tutte), ma al singolare indica la totalità di una massa (es. tutta la classe), mentre al plurale indica una pluralità di individui (tutti i bambini). E poi ha un'altra stranezza: da solo non riesce a far funzionare il nome nella frase: ha bisogno di un articolo; solo che l'articolo si mette dopo l'aggettivo: diciamo le scatole rosse, (le) tante scatole, ma tutte le scatole!



Eppure, se apriamo i libri delle elementari alla voce "aggettivo", cosa troviamo? Inutili tassonomie che invitano a memorizzare forme ed etichette: qualificativo, indefinito, dimostrativo, numerale, possessivo... tutti messi sullo stesso piano, senza alcun riferimento al fatto che un conto è "qualificare" (peraltro gli aggettivi qualificativi in italiano possono mettersi sia dopo e sia prima del nome) e un conto è "quantificare" (operazione assai complessa, che si può fare in molti modi, e che coinvolge parole diverse tra di loro...), e un conto ancora è "indicare col dito" (come fanno, in modi diversi, i possessivi e i dimostrativi).
Anche per queste ultime parole, che cambiano di continuo il riferimento (mio è di chi lo dice, questo è vicino alla persona che parla ecc.), è molto utile lavorare con i "comandi", azioni che mettono in movimento i bambini insieme con le categorie grammaticali, come insegnava nel secolo scorso Maria Montessori, che suggeriva di far correre i bambini da un angolo all'altro della stanza per trovare  di volta in volta "questo" o "quello".
Guardando i disegni inediti della grande pedagogista contenuti nella sua Psicogrammatica (un dattiloscritto inedito che sta per uscire in libreria, per i tipi di Franco Angeli, annotato e introdotto da cura di Grazia Honegger Fresco e Clara Tornar) mi accorgo di quanta sapienza educativa siamo riusciti a dissipare in anni di conformismo grammaticale.
Avevo già parlato, in un vecchio post, delle scatole montessoriane utilizzate per la grammatica. Ora abbiamo a disposizione le riflessioni che hanno ispirato quei materiali, sperando che diventino "lettera viva".



Del resto, la strada era stata indicata, anche più recentemente: non solo nel contesto dei cosiddetti "metodi globali" (la Psico-grammatica di Montessori si inserisce in un percorso olistico, che comprende anche la Psico-aritmetica, la Psico-geometria, la Psico-musica) ma anche nell'ambito dei "metodi analitici", quando riescono a far dialogare tra loro i saperi disciplinari: come nella memorabile esperienza di collaborazione tra la linguista Maria Luisa Altieri Biagi e il matematico Francesco Speranza, da cui nacque il volume Oggetto, parola, numero. Itinerario didattico per gli insegnanti del primo ciclo (Bologna, Nicola Milano, 1981).

Molto è stato già fatto, molto si sta facendo, molto rimane ancora da fare.
Basterebbe poco (o tanto): impegnarsi (e divertirsi) a osservare la lingua come piccoli scienziati, anziché correre dietro alle etichette grammaticali (pronte a volar via come farfalle).
Capiremmo e faremmo capire meglio la nostra lingua e i saperi che con le parole costruiamo.
Perché, come ricordava Albert Einstein, "Nessun matematico pensa per formule".

mercoledì 26 aprile 2017

PASS Writer: l’autismo e la grammatica valenziale


La storia che mi appresto a raccontarvi è quella di una serendipità felice: è la storia dell'incontro tra la curiosità etica di una giovane studentessa romana, Marta Panunzi, un libro scritto da un giovane autistico e la formazione in design della comunicazione presso l'Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino. Quando queste circostanze si sono incontrate con la grammatica valenziale, è nata una app densa di futuro: si chiama PASS Writer e - se avete la pazienza di leggere fino alla fine - in questa intervista scopriremo come è nata, come funziona e a chi/cosa serve.

Una piccola premessa: da alcuni anni nel mercato editoriale per bambini si stanno diffondendo albi illustrati in cui l'immagine è accompagnata da un "testo" in PCS (Picture Communication Symbols) o WLS (Widgit Literacy Symbols): una sorta di ideogrammi che cercano di trasporre in immagini il significato delle parole in modo da agevolare la comprensione e l'avvicinamento alla lingua scritta di bambini con disturbi cognitivi o del linguaggio. Questo è un esempio della "traduzione" in simboli del testo di un albo molto diffuso nelle scuole:

 

Diamo ora la parola a Marta, progettista grafica, per capire come questo sistema di comunicazione visiva "aumentativa" possa facilitare non solo il riconoscimento della forma (fonica e grafica) delle parole, ma l'individuazione delle strutture sintattiche delle frasi.

Com’è nato il progetto PASS Writer?
PASS Writer è un progetto che ho sviluppato nella tesi di diploma accademico di primo
livello in progettazione grafica e comunicazione visiva, conseguito presso l’ISIA di Urbino. Questo progetto è la continuazione di un percorso di sperimentazione nell’ambito della scrittura sinsemica e del Design for All connessi alla Comunicazione Aumentativa Alternativa iniziato presso l’ISIA di Urbino con i progetti di tesi di Giulia Bonora e Daniele De Rosa (diploma di primo livello in progettazione grafica e comunicazione visiva).
PASS Writer vuole essere un ulteriore tassello verso una più ampia ricerca per la realizzazione
di uno strumento di comunicazione digitale per bambini con autismo e più in generale per persone con Bisogni Comunicativi Complessi, che possa funzionare da ponte tra la comunicazione per immagini e quella verbale. Il mio interesse per l’argomento è nato assistendo nel 2014 alla presentazione di Quello che non ho mai detto, un libro scritto da Federico De Rosa (l'omonimia col mio collega è casuale), un ragazzo autistico che narrava il mondo interiore di chi, come lui, non ha la possibilità di comunicare oralmente.
In seguito, l’incontro con le tesi di Giulia Bonora e Daniele De Rosa sulla progettazione del PASS, sistema di elementi grafici per persone con Bisogni Comunicativi Complessi basato su una struttura sintattica visuo-spaziale (struttura sinsemica) e verbocentrica (grammatica valenziale), ha consolidato l’interesse personale verso questo ambito e mi ha portato a iniziare questa ricerca.
Il progetto si è articolato in diverse fasi. La prima fase è stata quella di studio dei disturbi dello spettro autistico, attraverso la lettura di testi, la frequentazione nel 2016 di workshop in un convegno internazionale (“Autismi: Risposte per il presente proposte per il futuro”) dedicato all’argomento e discussioni con specialisti di settore. La fase successiva è consistita nella progettazione di una prima interfaccia dell’app, tradotta in prototipo cartaceo in un primo momento, poi prototipo digitale.
A questa fase è succeduta quella di sperimentazione condotta in prima persona con un bambino autistico, presso il poliambulatorio “Centro Ferrarese di Neuropsichiatria, Neuropsicologia e di Riabilitazione” gestito dalla S.C.S. Piccolo Principe di Ferrara. È attraverso questi incontri e il continuo confronto con il prof. Luciano Perondi (Isia Urbino), relatore delle tre tesi di diploma coinvolte nel progetto, il prof. Francesco Ganzaroli (esperto in tecnologie assistive, E.T.A.), il dott. Simone Minichiello (logopedista specializzato in disturbi dello spettro autistico) e i due progettisti grafici ideatori del sistema PASS, Giulia Bonora e Daniele De Rosa, che si è giunti ad una prima individuazione di criteri e regole per la realizzazione del PASS Writer, uno strumento di fruizione del sistema di Comunicazione Aumentativa Alternativa PASS (Picture Augmentative Syntactic System).
 





 
In che modo una app può agevolare la comunicazione e l’apprendimento della lingua? Nelle pratiche riabilitative e di sostegno all’apprendimento del linguaggio, si sta facendo largo l’utilizzo di strumenti digitali come le applicazioni di comunicazione visiva per tablet
o cellulari. Questi strumenti rientrano nell’ampia categoria di ausili utilizzati negli 
interventi di Comunicazione Aumentativa Alternativa, che hanno come fine quello di potenziare il sistema di comunicazione già presente nel bambino con disabilità. PASS Writer rientra in questa classe di strumenti, a servizio della comunicazione per immagini ma al contempo a sostegno dell’apprendimento del linguaggio verbale.
Nella fase di ricerca che ha preceduto la progettazione di PASS Writer sono state prese in analisi alcune applicazioni di CAA oggi presenti sul mercato che un genitore o terapista può scaricare, gratuitamente o a pagamento, nei propri dispositivi. L’analisi di questi strumenti ha fatto emergere alcuni limiti ed errori importanti commessi da chi li ha progettati, che rischiano di inibire il bambino piuttosto che incoraggiarlo al loro utilizzo. Il limite principale di queste applicazioni risiede probabilmente nell’utilizzo di sistemi grafici inadeguati, quasi totalmente privi di coerenza grafica e linguistica.
La critica che muoviamo (parlo al plurale, essendo nel nostro gruppo di ricerca tutti
d’accordo su questo punto) verso i sistemi grafici di CAA oggi utilizzati, non vuole essere
di carattere puramente estetico, anzi deriva dalla consapevolezza che queste immagini,
disegni, simboli, abbiano una funzione fondamentale nello sviluppo del linguaggio di un
bambino, alla pari del ruolo che svolgono le parole all’interno di una frase. Per supplire
alla mancanza di un sistema grafico di CAA coerente e regolato da norme e quindi da un
sistema sintattico, i miei colleghi Giulia Bonora e Daniele De Rosa hanno deciso di
sviluppare, due anni fa, il sistema PASS (Picture Augmentative Syntactic System),
adottato poi nell’app PASS Writer.
 
Quali sono le specificità del sistema PASS nell'ambito della CAA?
Oltre alla forte coerenza grafica che tutti i glifi del PASS presentano, un punto cruciale
che differenzia questo sistema dagli altri è l’organizzazione dei pittogrammi all’interno di
una struttura che rispetti la sintassi della lingua di riferimento, nel nostro caso l’italiano. Il
PASS, esplicitando graficamente la struttura sintattica delle frasi attraverso l’uso di
marcatori disposti nello spazio in una composizione non lineare, rende ben visualizzabili i ruoli dei glifi semantici utilizzati, aggiungendo un importante elemento per l’apprendimento del linguaggio, non presente in altri sistemi (ad esclusione del BLISS che presenta però un basso grado di iconicità nel disegno dei glifi e pertanto può risultare inizialmente spaesante).
 
Come è avvenuto l'incontro con la grammatica valenziale?
Per spiegare l’incontro tra la grammatica valenziale e il nostro progetto di ricerca occorre ripercorrere le tappe di sviluppo delle nostre tesi.
Nel periodo in cui Daniele e Giulia lavoravano alle loro tesi, alla creazione quindi di un sistema di elementi grafici organizzati in una composizione sinsemica, Luciano Perondi, allora relatore di entrambi, si era spesso confrontato con Giovanni Lussu che aveva individuato nella grammatica valenziale un interessante modello da indagare dal punto di vista sinsemico, nell’ambito del lavoro di ricerca sulle scritture non lineari, ampiamente documentato nella collana Scritture di Stampa Alternativa. Il discorso sulla grammatica valenziale tra Luciano Perondi e i due allora diplomandi, iniziò però solamente verso la fine del periodo di stesura delle tesi. Leggendo il lavoro di Daniele De Rosa, che si è occupato in particolare dell’articolazione sintattico-sinsemica del sistema, è apparso evidente come si fosse molto avvicinato autonomamente al modello valenziale pur senza inizialmente conoscerlo. Il PASS condivide, infatti, con la grammatica valenziale la costruzione verbocentrica e la disposizione spaziale di elementi della frase che, a partire dal verbo, acquisiscono valore e gerarchie sintattiche.
Tale compatibilità è stata, in seguito, da me approfondita nel progetto di tesi e naturalmente trasposta nell'applicazione PASS Writer, trattandosi di uno strumento di fruizione del sistema PASS. Il modello valenziale è stato particolarmente utile rispetto allo sviluppo di efficaci processi di navigazione e interazione per l'utente portando alla realizzazione di uno strumento di apprendimento del sistema PASS che può potenzialmente intendersi in linea generale come strumento di analisi visiva della frase.
 
In che modo questo sviluppo in chiave sintattica dei sistemi di comunicazione visiva potrebbe favorire l'apprendimento della lingua in bambini affetti da disturbi dello spettro autistico?
Attualmente, nella pratica educativa della CAA, la traslitterazione della frase in forma lineare e sequenziale garantisce la rappresentazione (anche se spesso in forma astratta) di tutte le parole. Il bambino con disabilità in questo modo ha la possibilità di apprendere (non sempre) alcuni fonemi o grafemi associati ad una parola, ma persiste il problema legato all'apprendimento delle funzioni dei singoli elementi della frase. È nostra convinzione che la scelta di affidarsi ad un modello di descrizione della grammatica in forma spaziale e alle esperienze di sistemi di scrittura basati su una sintassi visiva (ad esempio la scrittura azteca) possa portare ad un apprendimento più profondo della
lingua. L’app PASS Writer, attraverso l’utilizzo del sistema PASS che adotta la grammatica valenziale come modello di descrizione della sintassi, maggiormente connessa all’atto cognitivo di creazione del linguaggio da parte del bambino, si propone come strumento che accompagni il bambino con Bisogni Comunicativi Complessi ad una più semplice e naturale comprensione e apprendimento dei rapporti che intercorrono tra le parole di una frase. L’applicazione e il sistema PASS sono stati, per ora, sperimentati solamente con un caso singolo e introdotti ad un secondo bambino. Entrambi gli utenti hanno risposto positivamente rispetto al sistema grafico, apparso regolare e facilmente comprensibile, alla composizione sinsemica basata sul modello valenziale e all’utilizzo dello strumento di fruizione PASS Writer. Ci auguriamo di estendere il bacino di utenti con i quali portare avanti la sperimentazione quanto prima.

  
Questo progetto, a partire dall’ideazione del PASS fino alla realizzazione del prototipo digitale di applicazione, ha visto coinvolte diverse figure professionali, appartenenti ad ambiti diversi e apparentemente distanti, che hanno cooperato tra loro per il raggiungimento di un unico obiettivo. Una profonda interazione tra diverse competenze e ambiti specifici credo possa generare nuove e interessanti risposte a problemi noti anche al di fuori dell’ambito della CAA.
Ritengo importante sottolineare che un’interazione tra grafica, linguistica, teorie della scrittura, logopedia, pedagogia e neuroscienze non può che innescare nuove idee e nuove visioni che superino i ristretti confini disciplinari e metodologici, portando allo sviluppo di progetti sperimentali che abbiano sempre più l’interdisciplinarietà come fondamento.
 

martedì 25 aprile 2017

La valenza nei testi letterari

Da qualche anno seguo con interesse i lavori di Sara Dallabrida, docente di ruolo attualmente dottoranda in "Forme del testo" presso l'Università di Trento, sotto la guida di Patrizia Cordin (già collaboratrice del DISC e autrice, con Maria Pia Lo Duca, del volume Classi di verbi, valenze e dizionari. Esplorazioni e proposte, Padova, Unipress, 2003).

Il primo articolo di Sara Dallabrida che ha attirato la mia attenzione era contenuto in una miscellanea curata dalla stessa studiosa insieme con Paola Baratter (Lingua e grammatica: teorie e prospettive didattiche, Milano, Franco Angeli, "Quaderni del GISCEL", 2009). L'articolo, scritto a quattro mani con Magda Niro, si intitolava Valenze e omissibilità degli argomenti: l'esempio letterario da saturare. Già in questo lavoro (nato da una sperimentazione condotta nel triennio della scuola superiore), la riflessione sulla valenza del verbo (spesso non completata - "non saturata", come si dice tecnicamente, con una metafora chimica - nei testi scritti dagli studenti) era analizzata come tratto identificativo dei testi "elastici" (nella terminologia di Sabatini) per eccellenza: i testi letterari, che lasciano al lettore più ampi margini nell'interpretazione del testo. Le possibili omissioni di argomenti in brevi passi letterari diventano una chiave induttiva per saggiare le competenze grammaticali di studenti chiamati a individuare e definire possibili omissioni di argomenti e integrarli, riflettendo così, indirettamente, anche sulle proprie produzioni.





Un esempio molto efficace di "manipolazione" delle costruzioni verbali a fini letterari è contenuto in un successivo lavoro, scritto con Paola Baratter e intitolato Comprendere in profondità i testi letterari, applicazioni del modello valenziale (in La comprensione: studi linguistici, a cura di S. Baggio et al., Università di Trento, "Labirinti", n. 140, 2012) . Si tratta di un brano tratto da Una storia semplice di Leonardo Sciascia, in cui una valenza verbale sospesa (del verbo trovare, normalmente bivalente) diventa la traccia di un'ipotesi investigativa su un delitto:


Immediata, l’impressione era che l’uomo si fosse suicidato. La pistola era a terra, a destra della poltrona su cui era rimasto seduto: vecchia arma da guerra ’15-’18, tedesca, uno di quei souvenir che i reduci si portavano a casa. Ma c’era, a cancellare nel brigadiere l’immediata impressione del suicidio, un particolare: la mano destra del morto, che avrebbe dovuto penzolare a filo della pistola caduta, stava invece sul piano della scrivania, a fermare un foglio su cui si leggeva: "Ho trovato". Quel punto dopo la parola «trovato» nella mente del brigadiere si accese come un flash, svolse, rapida e sfuggente, la scena di un omicidio dietro quella, non molto accuratamente costruita, del suicidio.

In un contributo del 2014, intitolato La soluzione semantico-sintattica delle omissioni argomentali in alcuni racconti di Buzzati (in "Studi buzzatiani", XIX), Sara Dallabrida analizza il "non detto", e più in particolare l'omissione di argomenti del verbo, come strategia finalizzata ad alimentare la tensione narrativa: il lettore è coinvolto in un gioco di impliciti che mantengono desta la sua attenzione e lo obbligano a ricostruire di volta in volta l'argomento mancante (un soggetto o un oggetto del verbo).
L'omissione del soggetto nella scrittura di Dino Buzzati rientra nella strategia testuale chiamata "ellissi cataforica del tema", tipica della scrittura giornalistica (l'esempio che segue è l'incipit di Strano incontro, da Le notti difficili):

Capita non di raro, nei posti molto affollati, nelle ore cosiddette di punta, nei momenti di maggiore ressa e agitazione. Per esempio all’ingresso dello stadio, quando la gente si pigia per entrare...
 L'omissione dell'oggetto (del verbo aspettare nell'esempio seguente, tratto dal racconto Conigli sotto la luna, in In quel preciso momento) può essere sottolineata fino a diventare la cifra di riflessioni metanarrative ed esistenziali insieme:

Ma i conigli stanno con le orecchie tese, aspettano, che cosa aspettano? Sperano forse di poter essere ancora più felici. Loro non lo sanno. Neppure noi sappiamo, quando insieme agli amici si gioca e ride, ciò che ci attende, nessuno può conoscere i dolori, le sorprese, le malattie destinate forse all’indomani.

Il caso opposto, di aumento della valenza, è esemplificato in un articolo del 2016 intitolato Piovono argomenti nelle narrazioni di Italo Calvino e di Primo Levi (in "Cuadernos de Filología Italiana", 23).  
Già il titolo offre un esempio di aggiunta di un argomento (il soggetto argomenti) allo schema di un verbo zerovalente o impersonale (piovere), con conseguente interpretazione metaforica (il verbo non indicherà il fenomeno atmosferico ma suggerirà l'idea di 'arrivare in abbondanza'). Proprio dei verbi meteorologici piovere e grandinare vengono esaminate le occorrenze con incremento del soggetto in alcune narrazioni brevi di Italo Calvino e Primo Levi.
In alcuni casi (es. piove a dirotto acqua calda e poi tiepida in Levi) il soggetto è coerente col verbo e ha valore espletivo (non dissimile da quello dell'oggetto interno di alcuni verbi: vivere una vita spericolata), in altri l'incoerenza concettuale del soggetto apre lo spazio a metafore che restituiscono la brutalità della guerra (grandinavano sul suo dorso colpi feroci, ancora in Levi; altrove sono i bombardamenti a piovere su Milano).
In Calvino, coerentemente con un immaginario "cosmicomico", a grandinare sono meteore, a piovere dal cielo sono ceneri della digregazione lunare...
L'analisi, poi, si estende anche ai sostantivi corradicali, pioggia e grandine, che - come nomi di evento (e non di cosa, persona ecc. - come da definizione scolastica) zerovalenti - possono analogamente prestarsi a usi letterali e metaforici combinandosi con verbi supporto o aggettivi inconsueti.

Cito infine un altro contributo del 2016 (La parola mitigata: usi reticenti, Spie linguistiche del 'non dire'" in La parola 'elusa': tratti di oscurità nella trasmissione del messaggio, a cura di I. Angelini et al. (Università di Trento, "Labirinti", n. 163), nel quale il criterio valenziale è utilizzato dalla studiosa per analizzare le reticenze nel linguaggio politico e nel linguaggio medico. Anche in questo caso, il concetto di valenza mostra il suo valore euristico: non solo ci permette di riconoscere il tipo di testo in questione, ma ci consente di fare inferenze sulle intenzioni comunicative del locutore (il "non-detto strategico", opacizzante e distanziante) e sugli effetti comunicativi del messaggio (non solo velamento del contenuto, ma smorzamento della componente emotiva).

Spero di aver reso, in questa breve sintesi, la fertilità di questo filone di ricerca, che mostra il valore di un "concetto guida" come la valenza del verbo quando, dall'analisi delle strutture linguistiche, viene trasferito all'analisi dei testi: consentendo di dare sostanza ad affermazioni critiche sulla poetica degli autori che rischiano di rimanere lettera morta se non si appoggiano a dati precisi, a concreti fatti di lingua. 

 




 

 

sabato 22 aprile 2017

Grammatica olimpionica




Da dieci anni, oltre150 bambine e bambini, ragazzi e ragazze si ritrovano in aprile a Larino, in provincia di Campobasso, per disputare le finali delle Olimpiadi della Lingua Italiana, una competizione a squadre dedicata ai tre cicli di scuola in cui la grammatica è una materia curricolare (primaria, secondaria inferiore e biennio delle superiori: perché la grammatica si studia per 8/10 anni nelle nostre scuole...).
Le Olimpiadi sono giunte quest'anno alla X edizione. Nate nel 2006-2007 da un'idea di Giuliana Fiorentino, docente di Linguistica generale presso l'Università del Molise, sono realizzate in collaborazione con l'Istituto Superiore di Larino, che ospita i semifinalisti presso il Liceo intitolato a "Francesco D'Ovidio".





Forse qualcuno di voi avrà sentito parlare di una gara simile, le Olimpiadi dell'Italiano organizzate dal MIUR a partire dal 2010, con maggiore clamore mediatico e sotto alti patronati, le cui finali si sono tenute poche settimane fa a Torino.
A differenza di queste gare, individuali e riservate solo alle scuole secondarie, le Olimpiadi originali hanno orgogliosamente mantenuto la collocazione in provincia (in un comune molisano che si anima per l'occasione, accogliendo le famiglie dei partecipanti: aprendo i suoi antichi monumenti, organizzando laboratori e concerti, allestendo stand di prodotti tipici).
Le Olimpiadi (chiamate familiarmente Oli da chi da anni le frequenta) hanno mantenuto negli anni anche il formato ridotto e senza clamori, lo spirito di gruppo tra i partecipanti, la dimensione verticale e orizzontale insieme che riunisce studenti e insegnanti dalla primaria agli istituti tecnici e ai licei, scuole pubbliche e paritarie (provenienti dal centro-Italia e dalle isole).
Così come è rimasto intatto l'impegno a promuovere, insieme alla padronanza della lingua italiana e della sua grammatica presso le nuove generazioni, la formazione dei docenti delle scuole partecipanti.
Il Comitato organizzatore, infatti, ha predisposto un Sillabo (aggiornato annualmente) che stabilisce una terminologia grammaticale condivisa (mantenendo un equilibrio tra pratiche tradizionali e proposte più innovative, come il concetto di valenza del verbo) e definisce gli argomenti delle prove, ispirandosi a una gradualità coerente con l'idea di un curricolo verticale di educazione linguistica.

Le prove, pur presentando quesiti diversi per grado di difficoltà, sono basate su materiali linguistici autentici (testi di canzoni, testi letterari, testi giornalistici, pubblicitari ecc.) e presentano ai tutti i partecipanti una medesima visione della lingua (articolata e mobile) e un'ampia gamma di quesiti (prove di riconoscimento, ma anche di manipolazione e di produzione) relativi a tutti i livelli della lingua (morfologia e semantica lessicale, sintassi, testualità, giochi linguistici) con l'obiettivo di mettere in gioco tutte le abilità (scritte e orali, produttive e ricettive) e di educare a una consapevole agilità all'interno della nostra lingua.
Non solo, ma mentre le varie squadre che hanno superato le eliminatorie (fatte a distanza su piattaforma) disputano le semifinali (test a risposta multipla), i docenti delle varie scuole partecipano a due seminari di formazione tenuti da docenti universitari invitati annualmente come membri della giuria (quest'anno la professoressa Maria Pia Lo Duca e io abbiamo ragionato di competenze morfologiche e sintattiche nell'ottica di un curricolo verticale). Un momento di incontro e dialogo tra il mondo della ricerca e quello dell'azione, utile sia per stimolare e consolidare il rinnovamento dell'educazione linguistica, sia per confrontare le acquisizioni della ricerca con le pratiche scolastiche correnti.


Le finali, che si sono disputate questa mattina nel salone delle feste di un grande albergo, sono ogni anno per me un'emozione. La mattinata inizia con la proclamazione delle squadre classificate (tre per ogni ordine di scuola). Partono poi le prove: ogni squadra (composta da 5 partecipanti che rappresentano una stessa scuola) si siede intorno a un tavolo rotondo e, davanti al tavolo rettangolare della giuria, risolve i quesiti proposti via via sullo schermo nel tempo previsto.
Bambine e bambini prima, ragazze e ragazzi poi (tutti con la maglietta col cuore grammatico indosso) discutono fittamente intorno ai tavoli e negoziano le risposte che ogni caposquadra leggerà alla commissione.




Anche la commissione (presieduta da Giuliana Fiorentino e composta quest'anno da Maria Pia Lo Duca e da Anna Sikiera, oltre a me) discute le soluzioni per arrivare a punteggi che tengano in debito conto le regole e le scelte, valorizzando la bontà del ragionamento e l'adeguatezza oltre che la conformità della risposta alle attese. E coglie l'occasione, spiegando domande o risposte, per puntualizzare aspetti delle lingua resi opachi dall'indottrinamento scolastico.
Tra la concitazione, il tifo dei supporter, qualche pianto di emozione o di delusione, si va avanti per l'intera mattinata. Le tensioni si sciolgono al momento della premiazione, con le medaglie per gli "atleti", la targa e un assegno per ogni scuola vincitrice, le strette di mano, gli applausi, i flash, i fiori di carta di San Pardo, fatti a mano a Larino.


 





Ogni volta torno a casa con la felice sensazione che c'è tanto di buono nella nostra scuola. Basta saperlo vedere, valorizzarlo, dargli spazio. E tempo (che è denaro, ma non solo).


domenica 16 aprile 2017

Quello che le grammatiche (non) dicono (recensione a Alvise Andreose)

Per i tipi di Carocci, nella collana "Studi Superiori",  è appena uscito un libro del linguista e filologo Alvise Andreose dal titolo Nuove grammatiche dell'italiano. Le prospettive della linguistica contemporanea. Si tratta della versione ampliata del capitolo dedicato allo Strutturalismo e alla grammatica generativa che comparirà nel IV volume (Grammatiche, di prossima pubblicazione), della Storia dell'italiano scritto (a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin).




Già scorrendo l'indice dell'opera è possibile cogliere la ricchezza e la profondità della prospettiva con cui l'autore ricostruisce gli sviluppi della ricerca linguistica "moderna" (ovvero post-strutturalista) nell'ambito della descrizione delle strutture dell'italiano, e le ricadute delle principali innovazioni teoriche all'interno delle opere grammaticali apparse negli trent'anni. Un lavoro che riprende e arricchisce quello fatto da Laura Vanelli nel volume Grammatiche dell'italiano e linguistica moderna (Unipress, 2010).

Il punto di partenza (come nella Grande grammatica italiana di consultazione, altra grande opera di cui Andreose è stato un giovane collaboratore) è la sintassi della frase semplice, di cui si analizzano i costituenti (i sintagmi) sia nella loro forma che nelle loro funzioni.
Un intero capitoletto è dedicato al concetto di valenza del verbo. In accordo con il filone generativista della riflessione sulla valenza (sviluppato in Italia dalla scuola padovana, in particolare da Giampaolo Salvi), si distingue tra la valenza sintattica e la valenza semantica: se guardiamo alla sintassi, dovremo cercare nei dintorni del verbo i suoi argomenti (cioè un certo numero di sintagmi di una certa forma che occupano le posizioni sintattiche attivate dal verbo); se guardiamo alla semantica, dovremo ragionare sugli attanti (cioè sul modo in cui quegli stessi sintagmi si fanno carico di portare in scena - a guisa di attori recitanti - i personaggi richiesti dal verbo, assumendo ciascuno uno dei "ruoli " previsti dalla semantica del verbo: agente, strumento, luogo, causa ecc.).

Nella descrizione delle classi dei verbi, poi, non solo si ridefinisce la classe dei transitivi (i verbi che selezionano un argomento in funzione di oggetto diretto), ma si distinguono le due classi di intransitivi: quelli con ausiliare avere (es. passeggiare, telefonare, dormire) o intransitivi propriamente detti e quelli con ausiliare essere (es. arrivare, nascere, scoppiare), chiamati anche inaccusativi perché, pur non ammettendo un oggetto diretto (l'"accusativo" delle lingue con i casi, come il latino), in alcune costruzioni trattano il soggetto come se fosse un oggetto: accettano che venga posposto al verbo senza effetti comunicativi marcati (è arrivato un pacco, è nato un pulcino, è scoppiata una bomba); inoltre, quando il soggetto è preceduto da un quantificatore, accettano che sia ripreso dal ne partitivo (Ne sono arrivati due, Ne sono nati alcuni, ecc.).

Un altro aspetto interessante della trattazione, trascurato dalle grammatiche scolastiche, riguarda una componente del significato lessicale dei verbi che può avere effetti sull'espressione della temporalità (si tratta del'aspetto lessicale o modo d'azione, o azionalità, o Aktionsart): se dico cado, pur usando un presente, mi sto riferendo a un futuro perché il verbo ha un significato puntuale e imminenziale. Se dico abito esprimo invece uno stato durativo, il cui punto di inizio si colloca nel passato. Sempre per motivi legati al significato aspettuale, il verbo essere (capostipite dei verbi di stato) non ha mai avuto il - da alcuni compianto - trapassato remoto: non ci sono di fatto circostanze in cui io fui stato prima che fossi.

Della frase è trattata anche la struttura semantica e comunicativa: il modo cioè in cui disponiamo i diversi costituenti (giocando sui primi piani e gli sfondi, come nella fotografia) a seconda dell'effetto che vogliamo ottenere, dell'elemento che vogliamo mettere in risalto e così via. Si dà qui conto dei vari tipi di frase marcata (dislocazione a sinistra e a destra, tema sospeso, frase scissa ecc.), ma anche delle diverse strutture informative di frasi non marcate (es. una frase come Paola ha telefonato è predicativa perché articolata dal punto visto informativo in un soggetto di cui si parla e un predicato, e risponde alla domanda "Chi ha telefonato?"; una frase come Ha telefonato Paola è presentativa perché presenta un evento nel suo insieme e risponde alla domanda "Che cosa è successo?").
Anche delle frasi copulative (costruite cioè intorno al verbo essere con funzione di copula) vengono presentati i diversi valori semantici: predicativo (Paola è la prof di italiano), locativo (Paola è in classe), specificativo (La prof di italiano è Paola) e presentativo (In classe c'è Paola).

Sia nella sintassi della frase semplice che nella sintassi della frase complessa (oggetto di più breve trattazione), vengono distinti elementi nucleari (o argomentali) ed extra-nucleari (non argomentali). Agli argomenti soggetto e oggetto corrispondono le frasi argomentali soggettive e oggettive (chiamate nel loro insieme completive); agli elementi circostanziali (espressioni di tempo, luogo, causa ecc.) corrispondono le frasi circostanziali (subordinate propriamente dette) e agli elementi attributivi (aggettivi) le frasi relative o participiali. I concetti di "controllo" e "sollevamento" (del soggetto) permettono poi di dar conto dei diversi tipi di frasi infinitive, caratterizzate da identità del soggetto con quello della reggente. Non manca un cenno ai "complessi verbali", ovvero ai verbi  (modali, causativi) che reggono frasi all'infinito.

Alla deissi, fenomeno spesso trascurato nelle grammatiche, è qui intitolato un intero capitoletto che rende ragione del funzionamento di tutti quegli elementi linguistici paragonabili a diti puntati (indici), che per essere interpretati richiedono una conoscenza del contesto: i pronomi personali (che rimandano ai partecipanti allo scambio comunicativo: io, tu), i dimostrativi e gli avverbi di tempo e luogo (che rimandano a un punto nel tempo e nello spazio: questo, quello, qui, , ieri, oggi, domani). Elementi che possono mettersi anche al servizio della coesione testuale, funzionando come indici all'interno dello spazio del testo, anziché dello spazio extra-linguistico.Valore deittico hanno anche del resto alcuni tempi verbali che ancorano il discorso al tempo dell'enunciazione (a differenza di altri - i vari trapassati - con vocazione anaforica).

Gli ultimi due capitoli sono dedicati a cenni sulle principali acquisizioni nell'ambito della morfologia e della fonologia, che aiutano a rendere ragione di fenomeni grammaticali come il plurali dei nomi composti e talune specificità (orto)grafiche dell'italiano.

Un libro impegnativo, quello che ci consegna Andreose, perché richiede la capacità di orientarsi tra le diverse grammatiche scientifiche messe a confronto. Individuando, capitolo dopo capitolo, le tante e colpevoli lacune delle grammatiche scolastiche, tenacemente attaccate a una tradizione a rischio di crollo per accumulo e poi così reticenti su questioni grammaticali ancorate ai fatti.
Un libro, anche, elegantemente persuasivo per chiunque intuisca l'importanza e l'urgenza di rimettere in discussione categorie e principi di riferimento per la didattica dell'italiano. Tra assenze e dubbie presenze, tutto l'apparato descrittivo tradizionale è chiamato in causa.
Perché, anche nella grammatica, non è possibile passare dalla tradizione al post-moderno eludendo la fatica del passaggio attraverso il moderno: la riflessione critica, il vaglio coraggioso e doloroso delle idee ricevute.





A beneficio degli insegnanti, segnalo questo esauriente articolo di Adriano Colombo, dal titolo
Applicazione? Linguistica teorica e grammatiche scolastiche (2015).

mercoledì 12 aprile 2017

Dire fare cimpare (albi illustrati grammaticali)

Tra i libri premiati negli scorsi anni alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, ce ne sono due che uso spesso a lezione e nei miei laboratori per ragionare sulle parti del discorso e sulla centralità del verbo. Entrambi sono pubblicati da piccole case editrici che stanno crescendo grazie alle loro scelte di qualità.

Il primo è Achimpa, della portoghese Catarina Sobral (Premio internazionale di illustrazione 2014), tradotto in Italia da La Nuova Frontiera junior col titolo Cimpa. La parola misteriosa. Un libro per introdurre in modo intelligente il tema della classificazione delle parole.
Come in tutti gli albi illustrati, l'immagine predomina sul testo. La storia è breve: un giorno un ricercatore in biblioteca scopre una nuova parola cimpa. Nessuno sa cosa significhi e si fanno varie ipotesi: potrebbe essere un nome (cimpa), o la forma di un verbo (cimpare), e così via passando in rassegna le varie parti del discorso...




In un'intervista, la giovane scrittrice-illustratrice racconta com'è nata l'idea del libro:
Volevo scrivere un libro sulla classificazione delle parole e mi è venuto in mente che avrei potuto sovvertire il motivo, ricorrente nella letteratura, del legame narrativo. Cioè che avrei potuto riprodurre la stessa struttura che si trova nella leggenda di Carlo Magno, nell’Orlando Furioso... sostituendo l’oggetto che fa da legame (l’anello; spade, elmi e cavalli) con una parola. In Cimpa il susseguirsi degli eventi non è dovuto al fatto che l’oggetto cambia di padrone ma dipende da una parola che cambia di classe, prima era un nome e poi diventa un verbo, poi un avverbio, ecc.
Perché le parole, anche quelle esistenti, possono cambiare di classe, sia nel corso della storia (durante e mediante erano forme, rispettivamente, dei verbi durare e mediare prima di diventare preposizioni) e sia nella concatenazione delle parole (regola è un nome se ha l'articolo davanti, un verbo se l'articolo segue: la regola del gioco; regola la sveglia). Prima di passare in rassegna le diverse parti "del" discorso, dunque, bisognerebbe vedere come funzionano "nel" discorso, cioè all'interno della frase: con quali parole si combinano e in quale ordine e quale funzione sono chiamate a svolgere. Insomma, per attribuire le parole a questa o quella categoria grammaticale dobbiamo vederle in azione.

Il secondo libro che vi propongo è l'argentino DIRE FARE BALLARE. L’abbecedario che fa giocare le parole (Premio 2016 Bologna Ragazzi Award nella categoria New Horizons) con testi di Ruth Kaufman e Raquel Franco e illustrazioni di Diego Bianki, tradotto in Italia da Giralangolo.
Si tratta di un albo che riprende il formato tradizionale degli abbecedari: per ogni lettera dell'alfabeto, un capolettera e una serie di parole e situazioni che le illustrano. In questo caso le parole sono tutti verbi.




Già la lista è interessante per capire che cosa ci dicono i verbi: senz'altro azioni (ballare, cantare, dare, emigrare, festeggiare, giocare, illuminare, leggere, mangiare, oziare, pettinare, praticare, ridere, scrivere, tirare, ululare, zigzagare), ma anche sentimenti (amare), eventi (nascere).
Già qui si può fare una riflessione: la maggior parte dei verbi che usiamo quotidianamente indicano azioni, ma il verbo non indica solo azioni! L'azione è volontaria, e comporta un agente responsabile. Amare è un'azione? Nascere è un'azione? Anche su oziare (il verbo dell'inazione) si potrebbe discutere...

Un'altra riflessione scaturisce da una serie di parole che compaiono nell'elenco sotto le lettere straniere: per esempio jogging e yoga sono nomi, ma nomi di d'azione. Basta metterci davanti fare e il verbo è fatto: fare jogging, fare yoga. Se torniamo indietro alla lettera F capiamo subito che in alcuni casi possiamo scegliere tra la costruzione con fare e il verbo unico: fare festa, festeggiare.
Anche alla lettera H troviamo un nome, hobby, che per funzionare come verbo si appoggia non a fare ma ad avere: avere un hobby. Quando un verbo di significato generale (come fare, avere, tenere, mettere, dare) funziona in questo modo, cioè come 'ausiliare di un nome', è chiamato verbo supporto.

Altri nomi che compaiono nell'elenco (quadro, web, xilofono) sono invece nomi tipici, cioè nomi referenziali, che indicano 'oggetti' in senso lato. Qui la scelta sarà stata condizionata dal fatto che il libro è tradotto dallo spagnolo e che nasce come libro illustrato con vignette che condizionano le scelte del traduttore, messo di fronte alla necessità di spostare alcuni verbi (comer dalla lettera C passa alla M di mangiare, escribir dalla E alla S di scrivere, hablar dalla H alla P di parlare), riempiendo di conseguenza i vuoti, adattando le frasi che le illustrano la parola e riorganizzando in alcuni casi le vignette.

Ma veniamo ai verbi e alle frasi che li illustrano. Perché questo libro può essere un supporto alla riflessione sulla valenza dei verbi, e quindi sulle costruzioni della frase a partire dal verbo (ogni verbo è infatti esemplificato da una o più frasi illustrate da altrettante vignette), a patto che si tenga presente l'obiettivo del libro, che non era quello di creare un supporto alla riflessione sulla sintassi (come si costruisce una frase minima), ma semmai quello di far riflettere su aspetti pragmatici (quante cose possiamo fare con le parole), invitare i piccoli lettori e lettrici a muoversi con allegria, a esprimere le loro emozioni, a giocare con le parole.
Possiamo quindi usarlo come supporto didattico, ma con alcune cautele, che illustrerò servendomi di tre esempi.
Amare è perfetto per i nostri scopi: possiamo amare altre persone, animali, ideali. Ma c'è sempre qualcuno che ama è qualcuno/qualcosa che è amato. Verbo bivalente transitivo.
 


Festeggiare funziona ugualmente nella frase principale in alto (festeggiare il compleanno), ma già ci pone domande nella frase piccola in basso: festeggiare tutti insieme. Perché qui l'oggetto (cosa si festeggia) non compare. Potremmo pensare che sia sottinteso (dato che è stato detto sopra). Ma possiamo anche supporre che il verbo ammetta anche una costruzione intransitiva (io festeggio). La conferma ci viene dal DISC online, il Dizionario Sabatini-Coletti, che riporta per ogni verbo le formule di valenza: festeggiare è bivalente transitivo, ma ammette anche la costruzione monovalente intransitiva.
A questo punto capiremo che tutti insieme è un elemento che arricchisce la scena: un'espressione avverbiale (tutti insieme) che ci dice in quanti e come si festeggia.
Come abbiamo detto, possiamo anche riflettere sulla coppia festeggiare/fare festa confrontando le costruzioni.


Ultimo esempio: viaggiare. Questo è un verbo sicuramente monovalente: io viaggio è una frase completa. Ma spesso, nella comunicazione, specifico il mezzo con cui viaggio: in aereoin auto... a piedi. Si tratta però di espressioni che possono essere staccate dal verbo. Proviamo: viaggio: lo faccio in aereo. Se possono essere staccate non sono argomenti del verbo!



Ultima proposta di questo post chilometrico: La mia piccola officina delle parole del francese Bruno Gibert, libro-gioco pubblicato da EDT-Giralangolo.






Un libro a strisce. Ogni striscia un sintagma. La striscia in alto, che riporta espressioni di tempo o di luogo, è funzionale alla costruzione di storie (il cronotopo). Dal punto di vista sintattico, di tratta di un'aggiunta, un'espansione della frase (le circostanze).
La frase "minima" comincia dalla seconda striscia: quella del soggetto, il/la protagonista.  
La terza striscia è il cuore pulsante della storia: il verbo (sono tutti verbi transitivi) che ci fa vedere la scena.
La quarta striscia è quella del personaggio (animato o inanimato) che completa la scena.
Questo libro permette di giocare e riflettere non solo sulla struttura delle frasi (in cui le parole si raggruppano in sintagmi e si accordano per poter funzionare) ma anche sulle compatibilità semantiche tra il verbo e i suoi argomenti: che cosa succede quando un verbo come masticare, che richiede un soggetto animato e provvisto di denti, si prende per soggetto un nome di inanimato come la metropolitana? O si sceglie come oggetto qualcosa di non commestibile, come le foglie secche? Scatta la metafora. Nasce una storia fantastica.


Volentieri segnalo APEDARIO, un bel blog di Antonella Capetti dedicato all'insegnamento dell'italiano attraverso gli albi illustrati.

Parla di grammatica, rivolgendosi a ragazzi, anche il mio Grammatica in gioco.

lunedì 10 aprile 2017

Lo scaffale valenziale e l'apprendimento cooperativo (intervista ad Alan Pona)

Durante un corso di formazione svoltosi a Prato lo scorso ottobre ho avuto occasione di conoscere Alan Pona, dottore di ricerca in linguistica che lavora come insegnante/facilitatore linguistico di italiano L2 e formatore di docenti in un territorio con un'altissima percentuale di stranieri (Prato è il primo comune e la prima provincia italiana per numero di studenti con cittadinanza non italiana).
Pona ha da poco pubblicato con Francesco Questa, per Sestante edizioni (Bergamo), il libro Fare grammatica. Quaderno di italiano L2. dal livello A1 al C1, di cui parla anche in questa intervista.
Qui ci racconta il suo incontro e i suoi percorsi di classe con la valenziale in classi multilingui.


                                                                  Lo scaffale valenziale della libreria Il Paese dei baobab a Prato

Come è avvenuto il tuo incontro con la valenziale?
Il mio incontro con la Grammatica valenziale è avvenuto durante gli anni del dottorato di ricerca a Firenze, dodici anni fa. Avido di conoscenze, divoravo gli scritti di Germano Proverbio, Maria G. Lo Duca e di Francesco Sabatini, da un lato, e di glottodidattica, dall’altro. Coltivavo interessi di linguistica teorica (mi sono formato sugli scritti di Noam Chomsky e sulla sua Grammatica generativa) e di linguistica educativa. Nasceva in quegli anni in me la passione per l’insegnamento/apprendimento dell’italiano L2, passione mai terminata.
La grammatica valenziale ha in qualche modo “cucito” i miei interessi perché è, al contempo, rigorosa dal punto di vista scientifico e “pedagogica”: portarla nei contesti di insegnamento/apprendimento è un vero piacere per chi apprende e per me. Non solo, una buona applicazione di questo modello ha ricadute anche etiche: fare grammatica coinvolgendo i diversi canali di apprendimento, rispettando le competenze dei parlanti, permette di raggiungere tutti gli allievi/apprendenti delle classi.

Da quanti anni e con quali risultati lavori con la valenziale?
Ho iniziato a lavorare con la Grammatica valenziale a Firenze con i miei allievi parlanti italiano L2 circa 10 anni fa. Mi stavo dedicando alla scrittura della tesi di dottorato sui pronomi clitici (mi, ti, lo, la, gli, le etc.) e stavo riflettendo sulle scale di acquisizione, in italiano L2, di queste particelle piccole, non accentate e così difficili da acquisire in L2. Come presentarle in un corso di italiano L2? Per ogni facilitatore linguistico la presentazione in classe dei pronomi clitici è cosa dura e i materiali didattici in commercio non sempre sono soddisfacenti. Capii che il riferimento agli attanti e poi agli argomenti del verbo mi avrebbe aiutato. Da questo sono nati gli schemi, che riprendono il modello di rappresentazione introdotto da Francesco Sabatini, che ho inserito nella mia grammatica di italiano L2, Fare grammatica. Quaderno di italiano L2. Il riferimento al significato dei verbi e la visualizzazione degli schemi, infatti, si sono rivelati utili facilitatori degli apprendimenti.





Quando ho iniziato a lavorare per il Comune di Prato nelle scuole pubbliche come
insegnante/facilitatore linguistico di italiano L2 e come formatore docenti, ho deciso di portare con me la Grammatica valenziale.
Col tempo, le mie colleghe insegnanti ed io ci siamo resi conto che le attività a scuola con gli schemi radiali risultavano molto inclusive nei confronti degli studenti parlanti italiano L2: tutte le bambine e i bambini, tutte le ragazze e i ragazzi potevano partecipare all’incontro/lezione di classe senza la necessità, da parte nostra, di stratificare l’intervento didattico. Le ricadute del lavoro in classe sulla
frase a partire dal verbo sono state apprezzabili. La grammatica valenziale facilita lo sviluppo della capacità di segmentazione della lingua in parti discrete e significative attraverso la rappresentazione e i colori, accelerando i processi di acquisizione. Non solo, il modello valenziale ha come unità la frase nucleare concepita come segmento sintattico costruito a partire dal significato del verbo; la frase si presta, dunque, a diventare una unità ponte tra le categorie lessicali, gli aspetti morfosintattici e il testo, unità della comunicazione e centrale nella didattica delle lingue.

Hai sperimentato anche altre applicazioni?
Da qualche anno, con la collega psicologa Pamela Pelagalli, sto notando i vantaggi di questo modello per la rimozione di ostacoli agli apprendimenti negli studenti con Bisogni Linguistici Specifici. Sento
di poter affermare che la concezione del verbo come punto di partenza e perno da cui costruire la frase in modo armonioso rispetto alle nostre competenze e l’uso dei diversi canali di apprendimento facilitano davvero la riflessione metalinguistica e l’apprendimento delle lingue per tutti e per ciascuno. Qualche anno fa una bambina con Disturbo Specifico dell’Apprendimento mi ha detto che riusciva finalmente a "vedere" la grammatica.
Ho pensato alla grammatica valenziale anche per la didattica delle lingue straniere. La settimana passata ho concluso, in una classe prima delle secondarie di primo grado, una Unità di lavoro/apprendimento in inglese centrata su una canzone, in cui facevo osservare e descrivere delle frasi inglesi con gli schemi radiali per la “scoperta” del present continuous. In fase di verifica e valutazione, sono venute fuori dai ragazzi anche delle belle definizioni di soggetto. Tra le altre cose, infatti, avevo chiesto ai ragazzi di trovare una possibile definizione di soggetto riflettendo sul nostro lavoro e superando le inesattezze che la scuola aveva insegnato loro negli anni (colui che fa l'azione o la subisce, per esempio; o ciò di cui si parla...). I ragazzi hanno elaborato da soli definizioni raffinate e rigorose: il soggetto è il primo argomento del verbo, concorda col verbo, se cambia il soggetto
cambia anche il verbo, soggetto e verbo vanno d'accordo etc.

A partire da quale classe e con quali modalità proponi la riflessione sulla frase?
Inizio il lavoro sulla frase a partire dalla terza classe della scuola primaria, anche se consiglio
alle insegnanti di iniziare a far riflettere i bambini sul “potere” dei verbi anche a partire dalle classi precedenti, quando si inizia a riflettere sulle principali categorie lessicali: senza inutili etichette e senza aggiungere altro. I bambini sono bravissimi ad individuare gli attori di scene attivate dal verbo regista! Non mi piace, infatti, la divisione che la scuola italiana stabilisce, senza preoccuparsi di fornire argomentazioni scientifiche, tra le cosiddette analisi grammaticale e analisi logica, alle scuole primarie, e tra analisi grammaticale, analisi logica e analisi del periodo, alle scuole secondarie.
Nella quinta classe della primaria, i bambini rappresentano la frase con gli schemi radiali, classificano i verbi in base alle loro valenze, conoscono un po’ di etichette utili per il raccordo con la grammatica tradizionale e si interrogano su possibili elementi extra-nucleari. Niente di più: non si deve anticipare ciò che è giusto lasciare a riflessione più matura. Alle secondarie di primo grado, i
ragazzi approfondiscono le categorie lessicali, tra cui il verbo, e la frase nucleare introducendo gradualmente gli elementi extra-nucleari (circostanti ed espansioni). Nella classe terza delle secondarie di primo grado, i ragazzi sono pronti per riflettere sulle frasi completive, sulle frasi relative e sulle frasi subordinate.

Come si svolge il lavoro in classe?
I laboratori che porto nelle scuole sono condotti in Apprendimento Linguistico Cooperativo (ALC), una metodologia che abbiamo elaborato e sperimentato a Prato, che fonde insieme Apprendimento Cooperativo e Facilitazione linguistica di italiano L2. Tutti i bambini/ragazzi, nessuno escluso, cooperano simultaneamente, legati da Interdipendenza positiva e Responsabilità individuale, in piccoli gruppi (di due, tre, massimo quattro bambini/ragazzi) per raggiungere obiettivi comuni.
Ogni Unità di lavoro/apprendimento si compone di tre fasi: una fase ludico-relazionale, per creare il clima di classe, formare i gruppi, contestualizzare l’intervento e il percorso; una fase di studio, nella quale i gruppi cooperativi fanno scoperte personali guidati dai docenti-tutor; una fase di verifica,
valutazione e feedback, che conclude il laboratorio e ci permette di valutare il nostro intervento per progettare, ricalibrando, il percorso successivo.

I libri di testo ti hanno aiutato o ostacolato nel percorso?
Non seguo i libri di testo. Penso che un buon insegnante debba saper costruire da solo i propri percorsi didattici. Tuttavia, leggo molto e consiglio tante letture ai docenti in formazione. A Prato, sono felice della collaborazione con le amiche del Paese dei Baobab, una piccola libreria indipendente specializzata in letteratura per l’infanzia. Al Paese dei Baobab la grammatica valenziale ha trovato un suo scaffale. Questo mi rende orgoglioso!


Hai incontrato resistenze da parte di colleghi o genitori?
Ci sono resistenze soprattutto da parte di insegnanti che ritengono la grammatica tradizionale qualcosa di sacro e intoccabile. Tuttavia, ci sono tanti ottimi insegnanti, soprattutto nel primo ciclo d’istruzione, che si mettono in gioco e hanno voglia di far bene le cose. Questi docenti studiano, pongono domande, progettano percorsi, ricalibrano i percorsi e capiscono quanto sia bello e importante fare grammatica con i loro ragazzi. Con loro, abbiamo creato a Prato tante Unità di lavoro/apprendimento nell’ottica del curricolo verticale: questi percorsi hanno divertito gli allievi e li hanno appassionati trasformando l’ora di italiano in vero piacere!

mercoledì 5 aprile 2017

Fate la grammatica! (notizie dalla Fiera del libro per ragazzi)




Una decina di anni fa tra i neogenitori spopolava un librino edito da una piccola casa editrice di Firenze, Mandragora: Fate la nanna, ovvero Il semplice metodo che vi insegna a risolvere per sempre l'insonnia del vostro bambino. Questo librino spiegava una tecnica comportamentista (chiamata metodo Estivill dal nome dell'omonimo pediatra catalano coautore del fortunato libretto) per far addormentare i bambini. La quarta di copertina recitava:
"Il fenomeno dell'insonnia, dovuto in parte allo stress della vita quotidiana, è ormai considerato un vero e proprio problema sociale. Recenti ricerche hanno dimostrato che le turbe del sonno derivano principalmente da errate abitudini contratte nei primi anni di vita. Il libro svela ai genitori le semplici tecniche per conseguire l'obiettivo."
Ovviamente, ogni genitore sa che non è facile accompagnare un bambino nel sonno e rendere autonomo il processo (di per sé naturale) dell'addormentamento. Del resto anche la tradizione popolare, con le sue ninne nanne intessute di vezzeggiativi, espressioni di disinganno e (più o meno larvate) minacce al piccolo insonne, ci ricorda la fatica di "quelle povere donne i cui bambini costituiscono un peso, una croce onerosa che a volte faticano a reggere" - come scriveva Federico Garcia Lorca in Sulle ninne nanne (Salani, 2005).


 
 
Che anche la grammatica sia diventata un gravame insopportabile? Una competenza innata, come pure ci ha insegnato la linguistica del XX secolo, che fatica a diventare abitudine e fissarsi in pratica spontanea? "Una canzone amara", per parafrasare il libro per ragazzi di Erik Orsenna La grammatica è una canzone dolce (che riprendeva il titolo di una celebre canzone per bambini di Henri Salvador: Une chanson douce)...
E' quanto ho pensato oggi, girando tra i padiglioni della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna in cerca di novità che riguardassero - da vicino (nel settore "adozionale" dei libri scolastici) o da più lontano (albi illustrati e libri per ragazzi) - la didattica della grammatica.
Perché se avevo dei dubbi sul fatto che la "lettoscrittura" (orrendo neologismo che fonde due operazioni cognitivamente molto diverse, riducendo peraltro l'alfabetizzazione a un procedimento meccanico) e la grammatica siano diventate un problema sociale (e non solo per chi soffre di disturbi specifici dell'apprendimento - DSA), oggi ne ho avuto la conferma. La quantità di prodotti editoriali di stampo comportamentista che mirano ad affrontare e risolvere per tempo il problema del difficile incontro con i segni scritti e con le regole sociali (tra cui rientrano le regole linguistiche) è inquietante.
Sfogliando i cataloghi di case editrici comportamentiste per vocazione (come la Erikson di Trento, nata per fornire strumenti educativi per la disabilità) o per opportunità (come il gruppo editoriale Raffaello), si rimane colpiti per la quantità di "metodi semplici" (easyway) che dovrebbero risolvere il problema della complessità dell'analisi della lingua italiana. Nessuno che metta in discussione la validità scientifica delle pratiche. Tutti che si affannano a trovare stratagemmi per risolvere un problema evidente.

Ecco allora Analisi grammaticale e logica al volo, il volumetto con cui Camillo Bortolato trasferisce dalla matematica alla grammatica il suo metodo analogico. Per l'apprendimento intuitivo di "tutte le conoscenze necessarie" (tutte necessarie?!), si ricorre ad "agganci emozionali", mappe concettuali, strisce illustrate grazie alle quali "non è più necessario arrovellarsi per tenere tutto a mente" perché "la comprensione si trasforma in riconoscimento". La regola diventa immagine, insomma: non va più analizzata, ma inglobata nella sua globalità.
Così per fare analisi grammaticale basta mettere le parole nel barattolo giusto, per fare analisi logica basta muoversi nelle case di un quartiere (metafora che ricorda - non so quanto consapevolmente - quella di Wittgenstein, che parlava della lingua come di "una vecchia città").

Sempre dal catalogo Erikson, la temibile ortografia diventa un giallo da risolvere nei libri dell'ispettore Ortografoni: "Una serie che trasforma l’ortografia, spesso vissuta dai bambini come noiosa e frustrante, in un’occasione di apprendimento implicito e divertimento attivo". Basta risolvere puzzle, crucipuzzle, crucintarsio e altri giochi di parole per capire chi dei 6 sospettati è il colpevole del misfatto. Insomma, basta non pensarci: come quando si butta giù una pillola con un po' di zucchero.

Dal catalogo Raffaello spunta invece la grammatica RAF di Flavia Franco e Michela Merlati: Rifletto su una situazione problema, Apprendo la regola, la Fisso con gli esercizi. Nulla di nuovo a parte lo stimolo (situazioni autentiche, pedagogicamente ben contestualizzate attraverso l'uso di uno sfondo integratore e percorsi articolati in step) e l'enfasi sulla valutazione, in accordo con la didattica delle competenze. La promessa del metodo: "trasformare una disciplina generalmente poco accattivante per i bambini in un’occasione di creatività e di stimolo ad apprendere".

Ampio spazio nel catalogo Raffaello ha poi il "metodo Venturelli" per la preparazione e l'avvio della scrittura a mano nella scuola dell'infanzia (perché anche l'asilo deve preparare a qualcosa...) e primaria, basato sulla rieducazione posturale preventiva e sulla costruzione graduale e sfinente dei movimenti di prensione e scorrimento della mano sul foglio. Del resto, come è noto, la completa disaffezione alla manualità fa sì che molti bambini escano dalla primaria senza sapere allacciarsi le scarpe. Ma questo problema, ovviamente, non interessa il settore editoriale bensì i calzaturifici (che hanno provveduto da tempo, sostituendo i fastidiosi lacci con velcro ed elastici). A scuola bisogna imparare a tenere la penna in mano. E oggi neanche questo è scontato (si inizia anzi dubitare perfino dell'opponibilità del pollice). 

Avanti, c'è spazio per tutti: psicomotricisti, logopedisti, grafologi. Chiunque abbia una ricetta che associ con efficacia stimoli giusti e risposte adeguate.
E se ci fermassimo un attimo a pensare che cosa e perché non funziona più nella prima alfabetizzazione? Provando a rimettere in discussione (prima di trasformarli in un gioco) i nostri saperi male appresi? Riformulando le ricette grammaticali con ingredienti di buona qualità anziché aggiungere glutammato per rendere gradevole al gusto insipide minestre riscaldate?

Lo stesso discorso si potrebbe fare per il (non brutto) libro di Massimo Birattari Come si fa il tema, appena uscito per Feltrinelli. Anche qui metodi laboratoriali dai nomi suggestivi:
- "metodo Robinson" per raccogliere le idee, ispirato alla lista di vantaggi e svantaggi stilata dal celebre naufrago;
- "metodo Palomar" per organizzare l'esposizione, seguendo il modello della scrittura calviniana.
Anche qui, la volontà di rendere più accattivante un esercizio già condannato a morte negli anni Settanta, ma resistito con la stessa ottusa caparbia del pidocchio che continua a infestare le teste dei nostri figli.
Anziché proporre forme di scrittura autentica, legate a tipologie testuali diverse e variegate, orientate a un destinatario preciso (che non sia il solo insegnante), si nobilita il vecchio tema (cioè la scrittura a tema, distinta dalla scrittura libera) con un intelligente belletto.
Il pubblico da conquistare, nel più scolastico dei compiti, è l'insegnante - diciamocelo. E allora tanto vale capire come fare ad accontentarlo e fare bella figura. Non manca in appendice un pronto soccorso grammaticale. Nota di merito per l'autore: proporre una "esposizione al contagio" mediante buoni modelli di scrittura (non solo bravi narratori, ma bravi saggisti e bravi giornalisti) e suggerimenti di lettura.
Ma...

Scoraggiati? No. In fiera ho visto anche dei begli albi, di cui vi racconterò nella prossima puntata.