venerdì 27 dicembre 2019

Vite insature (sul romanzo di Paolo di Paolo)

Ho letto un romanzo di cui voglio parlare perché ha a che vedere con la (non) saturazione degli argomenti del verbo.
Sia chiaro: non leggo romanzi per farne analisi valenziali. Li leggo per vivere altre "vite che (non) sono la mia". (Perché le storie ci aiutano a vivere, per citare il titolo di un bel libro di Michele Cometa.) Di solito sono loro a scegliermi (è complicato da spiegare, ma i lettori/le lettrici forti sanno cosa voglio dire), solo che questa volta è andata diversamente. L'ho scelto io e l'ho messo in valigia per ragioni (anche) di lavoro.
L'autore, Paolo Di Paolo, ha raccontato ai ragazzi classici della nostra letteratura (Dante, Leopardi). Ha accettato di scrivere la Prefazione a un libro sulla scrittura che ho curato e che uscirà a febbraio. Da gennaio, inoltre, sarà lui la nuova voce del programma radiofonico "La lingua batte".

Ci sono tante buone ragioni per leggere il suo ultimo romanzo, che si chiama Lontano dagli occhi, come la canzone del 1969 di Sergio Endrigo, ma è ambientato nel 1983: l'anno di Vamos a la playa, per dire. L'anno di nascita di Paolo Di Paolo, anche. Due anni dopo, a Milano, nascerà la prima scuola italiana di scrittura "espressiva", condotta per un decennio da Giuseppe Pontiggia (prima che esplodesse il fenomeno delle scuole di scrittura creativa, che tanta parte hanno avuto nella diffusione dello storytelling anche fuori dalle pagine dei libri).
Ma torniamo al romanzo, che ha una storia con tre inizi possibili (quasi il rovescio di Tante storie per giocare di Gianni Rodari, che varia ogni volta i finali) e un unico finale - separato dalla prima parte grazie a una pagina interamente nera
Scritto con una sintassi spezzata e una retorica avvolgente, che sembra mimare il movimento del fasciare, abbracciare, cullare: ciò che è mancato in quella pagina - della storia come della vita. Perché Lontano dagli occhi racconta la storia di un abbandono, di una o più fughe dei personaggi (dalla maternità/paternità), di una rincorsa dell'io narrante (verso ciò che ci accomuna, tutte e tutti: l'essere e il potersi dire figli/e).


Capita così (e non a caso) di incontrare tra le pagine frasi interrotte (p. 62):
Devi convincerti di. 

O frammentate attraverso gli spezzoni di un ipotetico dialogo (p. 80):

Lui gli direbbe: c'è una ragazza che dice.
Che dice cosa?
Che è rimasta incinta.
Di te?
Di me, sì.

Oppure frasi sospese, in cui sta all'interlocutore (e al lettore, che si vuole cooperante) completare il verbo reggente con una frase (p. 95):
Io non credevo, io non immaginavo, io non volevo. (p. 95) 
È sicura? Ha deciso? (p. 161)

Il perché ce lo spiega l'autore a p. 176:
capita di  fermarsi a pensare alla vita dei nostri genitori prima di noi... Come stava andando. Come poteva andare. Se lui non avesse. Se lei non fosse.  

Ma sul senso di questo interrogarsi ci aveva già messo in guardia a p. 15:
Sempre che abbia senso la domanda. Sempre che abbia senso la storia fatta coi se.

Resta l'umano bisogno di capire da dove veniamo, e lo straordinario potere della letteratura di dare forma (e risposte possibili) a verità altrimenti inaccessibili, agli occhi come al cuore. 

Buona lettura!

domenica 22 dicembre 2019

Di certo molti hanno imparato da te (ricordando Adriano Colombo)


Ci ha lasciati stanotte Adriano Colombo, insegnante-ricercatore anima del GISCEL bolognese, autore di splendidi libri e di articoli di linguistica educativa che hanno insegnato a tanti (agli accademici in primis) che cosa vuol dire lavorare nella scuola e per la scuola, militando insieme per l'accrescimento della consapevolezza e della conoscenza.
Adriano ha scritto moltissimo e ha diligentemente raccolto, ordinato e messo a disposizione i suoi lavori e le sue riflessioni (maturate nell'arco di cinquant'anni) in un sito straordinario, adrianocolombo.it, di cui avevo parlato in un articolo scritto nel 2013 per la rivista "La Ricerca". Negli ultimi sette anni il sito ha continuato ad arricchirsi, nonostante fosse venuta a mancare la sua segretaria Pistombrilla.
Collegandosi al sito, si possono scaricare gratuitamente - tra i tanti materiali - i tre volumi di un'ottima grammatica per la scuola uscita (con troppo anticipo) nel 1988, Pesare le parole, e un volumetto che costituisce il suo testamento: Forse qualcuno ha imparato qualcosa. Mezzo secolo nella scuola e dintorni. Qui Adriano racconta (anche in forma di poesia) le sue esperienze di professore a scuola (negli anni delle rivoluzioni e delle sperimentazioni), all'Università (che troppo poco l'ha valorizzato) e alla SSIS, ma anche il suo impegno come formatore e segretario GISCEL.

Quando l'ho conosciuto, io ero appena arrivata nello studio di italiano della Scuola Interpreti e Traduttori di Forlì, dove lui aveva tenuto un corso di Grammatica Italiana (troppo presto soppresso). Ci siamo ritrovati nel 2012, per una formazione all'Accademia della Crusca: lui teneva un corso sulla grammatica nella prospettiva di un curricolo verticale; io e Silvana Loiero due seminari collegati al suo corso. Le nuove Indicazioni nazionali per il curricolo sarebbero uscite di lì a poco (ma già si sapeva che avrebbero richiesto un nuovo esercizio di lettura rispetto a quelle del 2007). Ricordo ancora una frase sua che avevo annotato in quell'occasione: "una grammatica deve essere descrittiva, intelligente, in interazione con i testi" e ancora "partire dal poco, ma sodo", imparando a "differenziare, sistematizzare, ri-usare" le conoscenze.

Io Adriano l'ho sempre visto come uno studioso: forse perché quando l'ho conosciuto era già in pensione e aveva alle spalle lavori importanti: penso al bel volume Leggere. Capire e non capire (Zanichelli, 2002), scritto in anni in cui non si parlava ancora di literacy e di prove standardizzate, e tuttora prezioso per capire come funzionano i processi di comprensione della lettura.
Si era intestardito a voler tradurre dal tedesco la Grammatica italiana di Christophe Schwarze, uscita nel 2009 per Carocci, facendo un gran regalo a tutti quelli che, come me, non leggono il tedesco.
Dalla collaborazione con suo cognato, Giorgio Graffi, erano poi nati altri volumi pubblicati dalla stessa casa editrice: La coordinazione (uscito nel 2012 per la collana "Grammatica tradizionale e linguistica moderna", diretta da Graffi) e il fondamentale Capire la grammatica. Il contributo della linguistica (2017, con Giorgio Graffi), che avevo recensito con affettuosa gratitudine per la rivista Italiano LinguaDue, e di cui ho parlato anche in un post di questo blog. Intanto nel 2011 era uscito per Franco Angeli un libro ricchissimo,A me mi. Dubbi, errori, correzioni nell'italiano scritto, che interrogava le pratiche di correzione degli insegnanti tra superstizioni, idiosincrasie, riflessi condizionati

A questo punto, pensavo, nessuno avrebbe potuto ignorarne la statura, né ridurla a quella dell'insegnante militante nel GISCEL (per il quale, pure, tanto si è speso, e fino alla fine: non posso dimenticare che giusto un anno fa si era offerto di sostituirmi in un seminario bolognese, perché ero febbricitante e senza voce). Ma l'Università è molto distratta, specie quando si tratta di riconoscere il merito degli insegnanti, che la scuola per parte sua non premia ("ma almeno non premia cose meno lodevoli" - chiosava Adriano con sagacia). E Adriano, oramai, ci aveva rinunciato. Aveva imparato a sorridere del "buonsenso informato" di chi lo guardava dall'alto e distrattamente, perché troppo concentrato ad andare avanti per la propria strada. Ma non aveva smesso di criticare apertamente le idee che non condivideva: per questo io lo temevo tantissimo. Temevo il suo giudizio, perché sapevo che era un ascoltatore e un lettore attentissimo, rispettoso ma anche capace di dissentire apertamente con una veemenza che mi lasciava atterrita. 


Avevo letto con ansia il suo ultimo articolo, uscito per la nuova rivista "L'italiano a scuola", diretta da Roberta Cella e Matteo Viale. Già il titolo, Superstizioni grammaticali, mi metteva in allarme... Ma l'allarme era infondato: ancora una volta, con Adriano, c'era molto da riflettere e da imparare. Anche a essere generosi delle proprie idee, e lasciare che fruttassero altre esperienze.

E poi, come me e come altri, Adriano non aveva a cuore solo l'educazione linguistica: altrettanto importante considerava l'educazione letteraria, convinto com'era che "l'esperienza letteraria, se vissuta pienamente, ci aiuta a guardare a noi stessi e al mondo con altri occhi e a uscirne arricchiti".
Con altri occhi (Zanichelli, 2018), una delle più belle antologie scolastiche in commercio, è nata dalla collaborazione di Adriano con un altro insegnante storico bolognese (il sodale Guido Armellini), con Luigi Bosi (compagno di avventura nel GISCEL) e con il giovane critico letterario Matteo Marchesini. Uno dei tanti regali che ci ha lasciato.

Adriano, a me mi mancherai tantissimo.


N.B. : Sul sito del GISCEL è ora possibile leggere i ricordi della presidente Silvana Loiero e dell'amico-collaboratore di una vita, Guido Armellini.ù

Qui il mio ricordo pubblicato sul n. 2 della rivista "L'italiano a scuola"

martedì 17 dicembre 2019

La sorpresa della scoperta (sul nuovo libro di Dino Spadotto)

Quando si leggono i resoconti di ricerche, di esperienze didattiche, rimane sempre il dubbio sulla loro autenticità; i bambini, quando stimolati, aiutati, hanno una tale potenzialità e potenza di mezzi che - davanti a certe loro produzioni - si rimane sconcertati [...]. E' legittimo di fronte a certi risultati, non dico dubitare dell'onestà di chi riferisce e documenta, ma supporre una intelligente elaborazione del materiale documentario: per esempio una "scelta" di esso che mostri il meglio, che "ritocchi" qualche prestazione, che mimetizzi qualche difetto o qualche lacuna. (Maria Luisa Altieri Biagi, Introduzione a I bambini nella scuola dell'infanzia e l'educazione linguistica, Nicola Milano editore, 1983) 

Mi capita spesso di provare questa sensazione quando sfoglio libri scritti da insegnanti (per altri insegnanti) che spingono ad anticipare le tappe (per esempio della riflessione grammaticale) mostrando quaderni pulitissimi con lavori strabilianti di bambini di prima o seconda primaria.
Non mi capita quando leggo i libri di Dino Spadotto: maestro eccezionale, indubbiamente; maestro ricercatore, anche. Ma soprattutto insegnante maieueta, che fa parlare i bambini, li mette in dialogo tra loro, segue i movimenti dei loro discorsi, li registra e li trascrive.
Sappiamo quanto poco praticata (e non solo perché poco visibile) sia l'oralità nella nostra scuola: si parla ancora solo se interrogati, uno alla volta, per alzata di mano. Preoccupati di non contraddire l'insegnante (che di solito, quando fa una domanda, ha in mente anche la risposta).
Sappiamo anche quanto centrale sia la pratica dialogica per l'esercizio della cittadinanza attiva. Spadotto ci ha già raccontato le sue esperienze in due volumi editi da Morlacchi. Vi ricordate La grammatica svelata, di cui ho parlato in un vecchio post?
Arriva ora La parola che si scopre e che sorprende. Esperienze di didattica laboratoriale nella scuola dell'infanzia e primaria.



Qui l'autore fa un passo indietro (porta i suoi laboratori anche nella scuola dell'infanzia) e un passo avanti: porta i bambini e le bambine di otto e nove anni a riflettere non solo sulle parole, ma sulla struttura delle frasi. Senza paura di usare parole "difficili", anzi, stimolandoli ad arrivare da soli alla formulazione di termini e concetti spesso ignoti ai loro stessi maestri.
Leggiamo questo stralcio di conversazione (pp. 57-58).
Il maestro propone alla riflessione la frase La zia sapeva che mi rifugiavo lassù a meditare, che le grammatiche tradizionali segmentano in una frase principale (La zia sapeva) e una secondaria (che mi rifugiavo...).

ANNA - [...] non riesco a capire: bisogna dire anche cosa sapeva la zia; la zia sapeva è tipo l'asta che tiene su la bandiera che sarebbe che talvolta mi rifugiavo lassù a meditare; senza l'asta la bandiera vola via. Senza che talvolta mi rifugiavo lassù a meditare, la zia non sapeva niente, non sapeva cioè che talvolta mi rifugiavo lassù a meditare.
LUCA - Ciò che la zia sapeva e cioè che talvolta mi rifugiavo lassù a meditare aiuta a completare meglio la frase, a fare una frase più completa, a dare un senso compiuto alla frase.
ANNA - Allora La zia sapeva è la parte che regge l'altra parte della frase.
LUCA - La zia sapeva sarebbe il motore della frase.
ALBERTO - Senza La zia sapeva la frase assomiglia a una macchina senza motore: ci avrai tutta la macchina intera, la carrozzeria, ma non partirà mai. Se mettiamo insieme le due cose ti viene fuori una macchina che funziona. La zia sapeva più che talvolta mi rifugiavo lassù a meditare (motore più carrozzeria) la frase funziona.
ELEONORA - Io la chiamerei frase complementare ovvero frase che completa.
          MAESTRO - "Io la chiamerei frase complementare ovvero frase che completa". Brava!
Restituisco la battuta tale e quale per far capire all'interessata che concordo con lei e aggiungo: "Continua...".
La bambina tace, ma vedo che pensa.
FRANCESCA - Si potrebbe dire anche frase completiva.
MAESTRO - Siete stati bravi, attraverso una serie di palleggi siete giunti al concetto atteso, ovvero siete arrivati a dire che la frase oggettiva non è altro che una completiva. 

Incredibile, no? L'analisi del periodo è un gioco da ragazzi? Può diventarlo se, come spiega Spadotto, lasciamo che i bambini osservino, scoprano che la frase è incompleta, paragonino le strutture grammaticali a macchine, ottengano conferme (tramite risposte ad eco), siano incoraggiati a continuare nella riflessione collaborando insieme per arrivare alla soluzione attesa.
E una volta raggiunto il traguardo, ci fermiamo a osservare i bambini, per capire chi è rimasto indietro:

Osservando i volti dei bambini, ho la sensazione che non tutti abbiano chiaro il concetto cui è approdata Francesca. Forse la stessa Francesca non ne è pienamente consapevole. Bisogna tornarci su.   

Ma ci sarà tempo per tornarci su. Intanto, interrogandosi, si è arrivati a una scoperta: a delimitare la nebulosa del pensiero trovando una parola che delimita un concetto.
E le parole dei bambini sono spesso, felicemente, parole inventate: parole iniziarie, per esempio. Che il maestro accoglie e registra, naturalmente, rimanendo al suo posto: "accanto ai bambini, mai sopra di essi". Il "maestro ignorante" che insegna per emancipare, ricordate?

Un maestro che incarna perfettamente la figura di insegnante disegnata dal grande linguista Noam Chomsky nel suo ultimo libro tradotto in Italia: Dis-educazione. Perché la scuola ha bisogno del pensiero critico (Piemme, 2019, a cura di Donaldo Macedo, trad. di Annalisa Carena):
Bisogna parlare non a qualcuno ma con qualcuno. Questa è un'attitudine propria di ogni bravo insegnante, e dovrebbe esserlo anche per qualunque scrittore e intellettuale. Un bravo insegnante sa che il modo migliore per aiutare gli studenti è metterli in condizione di trovare da soli la verità. (Oltre un'educazione addomesticante: un dialogo, pp. 29-30)








domenica 10 novembre 2019

Dove il mare è più profondo: applicazioni valenziali al latino (intervista a Lara Piva)

Molte delle mie studenti scelgono la grammatica valenziale come oggetto delle loro tesi: si tratta, perlopiù, di proposte didattiche per il secondo ciclo della scuola primaria, attente alla dimensione ludica e concreta del "fare grammatica".
Non è di loro né di me che voglio scrivere, ma di una neolaureata in un altro Ateneo (Padova) e in una disciplina (Lingua e letteratura e latina) diversa da quelle che io insegno, venuta a presentarmi il suo progetto di  tesi (Applicazione del modello valenziale al sistema delle completive latine) dopo averlo discusso con il relatore, prof. Luigi Salvioni.

Si chiama Lara Piva. Le ho chiesto di sintetizzare il suo lavoro (che si può leggere per intero questo link) a beneficio dei lettori del blog (molti dei quali interessati al tema dell'insegnamento delle lingue classiche). 


Come è avvenuto il tuo incontro con il modello valenziale?

Sebbene un timido accenno alla valenza verbale fosse presente nel mio manuale di latino al liceo, l’intramontabile Flocchini / Guidotti Bacci / Moscio (Nuovo comprendere e tradurre, Bompiani, Milano, 2001), non ho avuto occasione di avvicinarmi alla grammatica valenziale prima di arrivare all'università. L’incontro fatale si deve alla professoressa Elena Maria Duso, che nel corso di Lingua Italiana mi ha fatto conoscere e, soprattutto, apprezzare questo modello, ancora poco noto e applicato nel mondo degli antichisti.

Quali sono le potenzialità della sua applicazione alla didattica del latino?

Per capire i vantaggi che la grammatica valenziale porterebbe alla didattica del latino rispetto alla grammatica tradizionale, basta fare un confronto tra i due metodi di analisi di fronte a una frase complessa. Prendiamo per esempio una frase dai Facta et dicta memoriabilia di Valerio Massimo (2.4.5), autore annoverato nel repertorio delle letture degli studenti del biennio:
Et quia ceteri ludi ipsis appellationibus unde trahantur apparet, non absurdum videtur saecularibus initium suum, cuius minus trita notitia est, reddere.
La grammatica tradizionale osserverebbe la natura delle frasi del periodo, ottenendo per esclusione la principale:

    
 
  
Oltre a questo, la grammatica tradizionale farebbe l’analisi dei singoli costituenti senza tenere in conto l’ordo verborum. Da una simile analisi risulterebbe la traduzione:

«E, siccome dai loro nomi è chiaro da dove derivino gli altri giochi, non pare assurdo attribuire ai ludi secolari il loro inizio, la cui notizia è meno accurata».

La grammatica valenziale permette un’analisi più precisa sia del livello frasale sia del livello macrosintattico:






  
L’analisi della frase complessa, secondo la grammatica tradizionale, si basa sull’etichettatura delle congiunzioni e dei pronomi per definire la natura delle frasi. Così, la causale quia apparet e la completiva reddere vengono messe sullo stesso piano nella gerarchia delle dipendenze. Invece, la valenziale mostrerebbe che la prima è un’espansione e la seconda un argomento, due funzioni totalmente diverse. Inoltre, le frasi con trahantur e reddere sono entrambe completive soggettive: il fatto che una sia un’interrogativa e l’altra un’infinitiva riguarda la realizzazione linguistica, ma non muta la loro funzione di soggetto.Un approccio linguistico moderno sarebbe, inoltre, più attento all’ordo verborum del testo e permetterebbe di spiegare la prolessi del costituente ceteri ludi. Infatti ceteri ludi è stato dislocato in posizione marcata tramite una focalizzazione, finalizzata a esplicitare fin da subito il tema del messaggio.

Un’osservazione interessante si può fare su ipsis appellationibus, che la grammatica tradizionale etichetta alternativamente come complemento di strumento (“tramite i loro stessi nomi”) o di limitazione (“nei loro stessi nomi”). Invece la valenziale lo interpreta all’interno del quadro predicativo di apparet.
Alla luce di questa analisi, si può proporre una traduzione più efficace:
«E poiché, a proposito degli altri giochi, dai loro stessi nomi è evidente da dove derivano, non sembra assurdo attribuire il loro inizio ai ludi secolari, sui quali la documentazione è meno accurata».
In definitiva, la morfologia (un ambito senza dubbio necessario per l’apprendimento di una lingua) è spiegata molto bene dalla grammatica tradizionale; non altrettanto la sintassi, per cui mancano strumenti adeguati di analisi della frase semplice, della frase complessa e dei meccanismi comunicativi del messaggio. La grammatica tradizionale non coglie, per esempio, le dislocazioni, i quadri predicativi e le funzioni; e si ostina a dare etichette a complementi e frasi che però non sono sempre espansioni ma possono anche appartenere alla struttura argomentale.
Invece, la grammatica valenziale, sia da sola sia soprattutto potenziata con altri strumenti esterni, permette di dare una soluzione chiara ai problemi di analisi e traduzione del testo.

Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel corso del lavoro?

In Italia la grammatica valenziale è una sorta di hic sunt leones nello studio delle lingue antiche. Questo da un lato mi ha permesso di portare avanti il mio studio con una certa autonomia, usufruendo delle fonti scientifiche disponibili (es. H. Pinkster, Latin Syntax and Semantics, Routledge, London, 1990) in modo diverso rispetto all'uso fattone dai miei docenti. Dall’altro, però, l’audacia nel fare qualcosa di innovativo mi ha causato qualche difficoltà dovuta alla loro prudente resistenza.
Le fonti disponibili sulla grammatica valenziale latina, inoltre, sono pochissime e ancora meno quelle note. Trovarle non è stato semplice, e alcune volte si è trattato di un caso fortuito.
La difficoltà maggiore, ma anche quella più stimolante, è stata comunque tradurre il modello Sabatini nel sistema linguistico latino, quando gli studi scientifici si appoggiavano quasi esclusivamente su stemmi derivati da Seitz (Fare latino. Manuale di latino, a cura di G. Proverbio, L. Sciolla, E. Toledo, SEI, Torino, 1983) e Tesnière (Elementi di sintassi strutturale, a cura di G. Proverbio, A. Trocini Cerrina, Rosenberg & Sellier, Torino, 2001).
Tenuto conto del fatto che il modello Sabatini è pensato per l’italiano L1, mentre il latino è una L2, ho dovuto modificare e integrare il modello con nozioni non propriamente valenziali, quali il sintagma e il ruolo tematico (sarò sempre debitrice alle lezioni di generativismo all’università).
Con l’aiuto del dottor Matteo Ceporina, un filologo classico felicemente convertito alla linguistica, mi sono messa a osservare in chiave primariamente sintattica e sabatiniana tutto ciò che altri manuali, valenziali e non, spiegavano con morfosintassi o morfosemantica.
Ho capito di essere nella direzione giusta quando ho potuto confrontarmi con i contributi di Emanuela Andreoni Fontecedro (autrice, con M. Agosti e C. Senni, di una Guida alla traduzione del testo latino, Edizioni Studium, Roma, 2017): la latinista è stata la prima a trasferire il modello Sabatini in una lingua antica.

Quali sono le proposte didattiche che hai delineato nella tua tesi? 

Sebbene in tutto il mio elaborato l’aspetto didattico fosse centrale, nelle conclusioni ho cercato di tirare le fila e di fare alcune considerazioni.
La didattica delle lingue antiche in Italia ha bisogno di freschezza, innovazione, aggiornamento e, se mi è lecito dirlo, di audacia. Tutti siamo debitori nei confronti degli studi linguistici degli stoici, della grammatica di Port-Royal, dei filologi tedeschi e di tanti altri studiosi del passato più o meno recente. Ma, mentre questi lavori rimangono solidi nella loro monumentalità, il mondo attorno a loro e a noi sta cambiando, e non parlo solo dello sviluppo della moderna linguistica. La digitalizzazione, per esempio, ha cambiato completamente l’approccio sistematico che fino a una generazione fa si aveva di fronte ai testi: dalla memoria elefantiaca si è passati al link.
Ma non è tutto. Possiamo dirlo senza paura: ai giovani il latino non piace e loro non ne sentono la necessità, soprattutto nel mondo in cui vivono, in cui la “pratica” conta più della “grammatica”. Questo basta a scoraggiare gli studenti dall’iscriversi al liceo e i liceali dallo studiare, tra tante materie interessanti, una lingua così ostica. Per i giovani d’oggi (soprattutto se ostacolati da disturbi dell'apprendimento) sarebbe improponibile imparare a memoria una quantità esorbitante di dati morfologici di una lingua altamente flessiva come il latino (per non parlare del greco!), soprattutto se poi, di fronte al testo, l’apprendimento mnemonico delle nozioni relative alle parole non fornisce una via sicura per la comprensione dell’intero.
Che fare?
Io penso che si potrebbe e dovrebbe partire dalla frase per avvicinare lo studio al discente, rendendolo più "logico", comprensibile e, forse, apprezzabile.
Tornando all'esempio delle completive, le catalogazioni semantiche e morfologiche rischiano di mancare di esaustività nella descrizione del fenomeno; far perdere organicità, rendendo caleidoscopico un fatto linguistico unico; confondere il discente nella memorizzazione. Elencare tutte le espressioni possibili che possono reggere una completiva (e catalogare le completive in base a introduttore e forma verbale) fa perdere di vista il fatto che i verbi reggenti sono predicati (verbali e nominali) e le completive argomenti. Il resto è facies.
Un consiglio che mi sento di dare è di osservare sempre la struttura dietro i fenomeni e non solo la superficie. Possiamo dire che il mare è blu, ma questo non basterebbe a descrivere l’intero ecosistema che vive sotto il pelo dell’acqua: per la lingua è lo stesso.
“Frase” e “periodo”, per esempio,  possono sembrare elementi a sé stanti ma, a ben guardare, la frase complessa può essere vista come una “traslazione” della frase singola, come ci insegna Tesnière. Sintagmi diventano frasi, senza che per questo cambi il loro ruolo sintattico. Osservare questo aspetto e giocare con questi tasselli può aiutare lo studente a concepire la lingua come qualcosa di più elastico e interessante.

  
In quale direzione intendi continuare il lavoro?


Sto lavorando al progetto di un dizionario valenziale latino: un lessico latino fondamentale che ponga le basi per future sperimentazioni didattiche di più ampio raggio, descrivendo la valenza verbale nella sua complessità.

La valenza è una nozione, a mio parere, più complessa di un mero numero. È una sinapsi che viaggia attraverso le tre interfacce principali della lingua: semantica, sintassi e morfologia. La valenza in senso ampio comprende varie informazioni: il significato profondo della parola, ovvero il processo; il numero dei protagonisti del processo stesso, quindi gli argomenti; il ruolo di questi protagonisti all’interno del processo, dunque i ruoli tematici (o ruoli semantici). Infine viene il sistema casuale: marche morfologiche che dipendono dal rapporto che di volta in volta si instaura tra i nervi di questa sinapsi (es. occupo urbem e potior urbe hanno significati simili ma quadri predicativi differenti). Possiamo schematizzare tutto il processo con un esempio semplice, interficio:



 Si direbbe una voce pilota del dizionario!
 Buon lavoro, allora...



domenica 3 novembre 2019

Verbi che hanno cambiato la storia (9 novembre 1989)

Foto ANSA
Il 9 novembre 2019 ricorrono trent'anni dalla fine della guerra fredda e del bipolarismo Usa/Urss.
Nel suo libro, da poco uscito per Salerno Editrice (La sfida di Gorbaciov. Guerra e pace nell'era globale), Giuseppe Vacca auspica che, insieme alle celebrazioni, venga avviata una "riflessione critica sul mondo che ne è scaturito". Perché ciò avvenga, tuttavia, sarebbe necessario confrontare e ripensare le narrazioni, a partire dai verbi che usiamo per parlare dell'evento di maggiore forza simbolica che segnò quella stagione:
se si continuerà a dire che il 9 novembre 1989 il muro di Berlino "cadde", non sarà facile comprendere la portata storica di quell'evento. I muri non cadono da soli ma, a meno di circostanze naturali come i terremoti [...], vengono rimossi da qualcuno: gli stessi che li avevano costruiti oppure altri. Mi si dirà: qual è il problema? [...] tutti abbiamo negli occhi le immagini delle migliaia di cittadini della Repubblica democratica tedesca che lo abbatterono [...]. Il muro, quindi, cadde perché fu rimosso dai cittadini che ne erano stati vessati e oppressi per quasi un trentennio. Ma dire "cadde" o "fu rimosso" non è proprio la stessa cosa: la prima espressione non evoca né azione, né soggetti; la seconda invece sì, e sorgono subito alcune domande: perché allora e non prima o dopo? E se le mazze e i picconi che abbatterono il muro erano maneggiati, materialmente, da cittadini della Rdt, chi ne aveva resa possibile l'iniziativa? (estratto dell'Introduzione, pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore il 20 ottobre 2019) 
Nella riflessione di Vacca, rimuovere, un verbo agentivo (che comporta la volontà di un agente), sia pure usato alla forma passiva (che permette di lasciare l'agente sullo sfondo e di non nominarlo), è opposto a un verbo non agentivo come cadere. 
Parliamo della caduta o del crollo (altro nome deverbale) del muro di Berlino (il bastione principale della "cortina di ferro") come se si fosse trattato di un evento prodottosi per cause naturali, o per l'incuria umana protratta nel tempo. Si trattò invece di un evento (traumatico per alcuni, liberatorio per altri) legato all'azione umana (realizzato con strumenti come picconi, asce, mazze), riconducibile a scelte politiche precise (l'indirizzo riformista di Gorbaciov, capo del Cremlino) e a un equivoco - come racconta Bernardo Valli in una intervista apparsa su "Robinson": una dichiarazione incauta del portavoce del partito comunista tedesco orientale, in cui veniva presentata come una decisione (da eseguire subito, immediatamente) quella che era solo un'intenzione del capopartito Egon Krenz (aprire nuovi punti di passaggio nel Muro in cambio di aiuti economici dalle autorità occidentali al governo comunista che stava fallendo). Sarebbero stati due avverbi (sofort e unverzüglich), insomma, a far cadere il muro... 


Ma torniamo ai nostri verbi: sulle stesse pagine del supplemento di Republica, Emanuele Macaluso, intervistato da Antonio Gnoli, ricorda che il 10 novembre l'Unità (il giornale del partito comunista italiano) titolò:
Si è aperto il muro di Berlino
evitando per cautela di usare la parola crollo, evocativa di un terremoto politico (simile a un altro storico crollo: quello dell'Impero romano, caduto sotto l'urto dei Barbari) che evidentemente ancora si sperava di poter scongiurare.
Qui la scelta di un verbo come aprire (normalmente usato per parlare di una porta, di un varco, di una breccia) si unisce all'uso del si passivante, che fa apparire il fatto come un evento spontaneo e casuale, se non fatale. La posizione del soggetto, poi, dà all'intera frase una sfumatura "eventiva" (la frase risponde a un'ipotetica domanda: "Che cosa è successo?"), dato che in primo piano appare il verbo. Diverso sarebbe stato l'effetto di una frase col soggetto anteposto (Il muro di Berlino si è aperto. - In risposta a "Che cosa è successo al muro di Berlino?").


Riepilogando dal punto di vista grammaticale:

CROLLARE e CADERE verbi monovalenti (richiedono il solo soggetto) intransitivi con ausiliare "essere" (possono essere posposti al verbo); il primo predilige soggetti inanimati, il secondo soggetti animati (per cui cadere tende a "personificare" il muro più di quanto non faccia il verbo crollare) che compiono però un'azione involontaria (il soggetto dunque non è "agente", responsabile della caduta o del crollo, ma "paziente", dato che ne subisce le conseguenze, anche se il verbo è in forma attiva). 

RIMUOVERE verbo bivalente transitivo (richiede il soggetto: "chi ha rimosso" e l'oggetto: "chi o cosa"), eventualmente con specificazione dell'origine dello spostamento ("da dove": in questo caso il verbo diventa trivalente). 

Mi sono soffermata su questi verbi per mostrare come, anche in una lezione di storia, l'analisi valenziale della frase aiuti a capire e decodificare il racconto dei fatti.

Vale la pena inoltre ricordare che nella Germania ancora divisa, dall'una e dall'altra parte del muro, hanno lavorato germanisti che hanno contribuito a sviluppare il concetto tesnièriano di "valenza verbale": a est, Gerhard Helbig e Wolfgang Schenkel, presso lo Herder-Institut di Leipzig (Lipsia); a ovest, Ulrich Engel e Helmut Schumacher, attivi a Tübingen - come il latinista Heinz Happ, che introdusse il concetto in Italia, per tramite di Germano Proverbio (Università di Torino), alla fine degli anni Settanta.


P.S.: Mi soffermo a commentare anche un verbo che ho usato all'inizio di questo post: ricorrere, verbo bivalente intransitivo che, usato in accezione temporale (di "ripetersi"), può richiedere come secondo argomento un'espressione di tempo: L'anniversario della caduta del muro di Berlino ricorre tra una settimana. Se non specificassi "quando" (tra una settimana), la frase sarebbe monca (*L'anniversario ricorre...).
Diverso il caso in cui a una frase già completa, come Il muro di Berlino è caduto/crollato aggiungo la specificazione del tempo (es. nel 1989 o il 9 novembre 1989). In questo caso l'espressione di tempo esprime una circostanza che incornicia dall'esterno l'intera frase: è un'espansione.
Naturalmente il verbo ricorrere può essere usato anche in altre accezioni: rimanendo all'interno della stessa narrazione, posso dire che I cittadini della Rtd ricorsero a mazze e picconi, che Le autorità non ricorsero alla forza e che Nessuno pensò di ricorrere a un tribunale.
Il lessico si amplia e si rafforza anche così...


domenica 6 ottobre 2019

"Ma poi alle superiori come faranno?" (uno schema per l'orientamento)

Leggendo il commento lasciato da un professore delle scuole medie in coda a un mio vecchio (ma ancora "popolare") post sull'analisi valenziale e la traduzione dal latino, ho pensato di creare una tabella di corrispondenze terminologiche e concettuali tra grammatica valenziale e analisi logica tradizionale.
Uno strumento utile per studenti che abbiano iniziato a ragionare sulla struttura della frase (semplice e complessa) col modello valenziale e debbano prepararsi all'insegnamento "tradizionale" della grammatica italiana e di quella latina che verrà impartito nelle scuole superiori. Un cambiamento che non deve spaventare: bisognerà solo imparare nuove etichette, applicate a concetti che trovano un modo di espressione peculiare nella lingua latina.
Una tabella che spero risulti utile anche per gli insegnanti, che con un colpo d'occhio troveranno sfoltita e riorganizzata la gran massa dei complementi dell'analisi logica, e potranno facilmente rendersi conto delle ragioni della loro proliferazione: prepararsi alla traduzione da e verso il latino.
Scorrendo la tabella, si verificherà la compattezza e potenza esplicativa del modello, in cui la tripartizione della frase semplice (argomenti, circostanti o modificatori, espansioni) si proietta sulla frase complessa (dipendenti argomentali, relative, circostanziali), razionalizzando così anche l'analisi del periodo.


TERMINOLOGIA DELL’ANALISI DELLA FRASE SECONDO IL MODELLO VALENZIALE
(SN = sintagma nominale
SP= sintagma preposizionale)
TEMINOLOGIA DELL’ANALISI LOGICA TRADIZIONALE
CASO O FORMA DI ESPRESSIONE CORRISPONDENTE IN LATINO
ARGOMENTI
DEL VERBO
SOGGETTO (SN accordato col verbo)
soggetto (“chi compie o subisce un’azione”)
nominativo
+ [complemento predicativo del soggetto]
[complemento predicativo del soggetto]
nominativo
OGGETTO DIRETTO (SN retto dal verbo)
complemento oggetto
(“chi?”, “che cosa”?)
accusativo
+ [complemento predicativo dell’oggetto]
[complemento predicativo dell’oggetto]
accusativo
OGGETTO INDIRETTO (SP retto da verbi di ‘dire’ e ‘dare’ come terzo argomento)
complemento di termine (“a chi?”, “a che cosa?”)
dativo
FRASI COMPLETIVE
soggettive e oggettive (dirette e indirette)
ARGOMENTI
INDIRETTI retti da verbi particolari
SP retto da verbo d’azione di forma passiva
complemento di agente (“da chi?”)
complemento di causa efficiente (“da che cosa?”)
a, ab + ablativo
ablativo
SP retto da verbi come parlare, discutere ecc.
complemento di argomento (“di/su che cosa?”)
de + ablativo
SP retto da verbo di stato (stare, abitare)
complemento di stato in luogo (“dove?”)
in + ablativo
SP retto da verbo di movimento o di spostamento (andare, venire, passare, spostare)
complemento di moto a luogo (“verso dove?”)
in, ad + accusativo
complemento di moto da luogo (“da dove?”)
a, ab/e, ex/de + ablativo
complemento di moto per luogo (“attraverso dove”?)
per + accusativo
ablativo
SP con preposizione selezionata dal verbo reggente (es. fidarsi di, optare per, contare su, aderire a)
etichette varie, a seconda del contenuto concettuale del verbo
traduzione variabile
ARGOMENTI (o aggiunti necessari) DIRETTI retti da verbi particolari
SN retti da verbi come durare, misurare, pesare ecc.)  
etichette varie, a seconda del contenuto concettuale del verbo
traduzione variabile
CIRCOSTANTI (modificatori) del NOME*
aggettivo accordato col nome
attributo
nome o SN
apposizione
SP introdotti da di (o altre preposizioni)
complemento di specificazione (“di chi?”, “di che cosa”?)
Etichette più specifiche nel caso in cui il latino abbia un modo di espressione specializzato (es. complemento di materia oppure
complemento di denominazione
ecc.)
genitivo
e/ex + ablativo o aggettivo concordato al nome
genitivo o nominativo
FRASI RELATIVE
CIRCOSTANTI (modificatori) dell’AGGETTIVO*
avverbi
SP
complemento di paragone (“rispetto a chi, che cosa?”)
complemento partitivo (“tra chi, tra che cosa?”)
quam + caso del primo termine
Ablativo
genitivo
inter + accusativo
e, ex + ablativo  
CIRCOSTANTI (modificatori) DEL VERBO
avverbi e locuzioni avverbiali
SP con valore avverbiale
complemento di modo o maniera (“come?”)
ablativo
cum + ablativo
ESPANSIONI






SP che espandono una frase incentrata su un verbo d’azione, specificando elementi come il collaboratore dell’agente, il beneficiario, il mezzo o il fine



complemento di compagnia o unione
(“con chi?”, “con che cosa?”)
cum + ablativo
complemento di mezzo o strumento
(“con che cosa?”)
ablativo
per + accusativo
complemento di vantaggio o svantaggio
(“a favore o a danno di chi?”)
Dativo
complemento di fine (“perché?, a che scopo?”
dativo
ad + accusativo
causa, gratia + genitivo
SP che espandono una frase incentrata su un verbo di evento o di azione specificandone le circostanze: collocazione spaziale (o origine o destinazione), collocazione temporale (o durata), causa 
complemento di luogo (moto a luogo, moto da luogo, moto per luogo)
VEDI SOPRA
complemento di tempo determinato (“quando?”)
complemento di tempo continuato (“per quanto tempo?”)
ablativo
accusativo
per + accusativo
complemento di causa (“perché”?)
ablativo
ob, propter + accusativo
prae + ablativo
FRASI SUBORDINATE
CIRCOSTANZIALI

 * Sia il nome sia l’aggettivo possono essere portatori di valenza e come tali richiedere degli argomenti veri e propri che li completino  


P.S. In questo schema compaiono solo alcuni dei complementi che si trovano elencati nelle grammatiche scolastiche. Oltre ad etichette la cui esistenza si giustifica solo attraverso il confronto con il latino (es. denominazione, materia, colpa, pena), capita di trovare sempre nuove etichette, estranee alla tradizione grammaticale (io ho fatto riferimento al vecchio ma sempre utile volumetto di Vittorio Tantucci, Analisi logica. Per la scuola media - quando alla scuola media ancora si studiava il latino)