lunedì 24 ottobre 2022

L'eredità di Mario Lodi per la scuola del 2000 (Bologna, 25 ottobre 2022)

Nell'ambito dei festeggiamenti per il 100° centenario dalla nascita, un convegno di studio per ricordare la figura del maestro Mario Lodi e il suo lascito di pensiero e di pratiche nell'Università di Bologna, dove fu insignito nel 1989 della laurea honoris causa in Scienze Pedagogiche. Con un focus sulle didattiche disciplinari.

I lavori potranno essere seguiti a distanza. Qui maggiori informazioni.









venerdì 14 ottobre 2022

Dovuto a Gaston Gross (1939-2022)

Si è spento il sorriso di uno dei maggiori linguisti francesi, Gaston Gross

Un amico per chiunque abbia avuto la possibilità di lavorare con lui: centinaia tra colleghi, ingénieurs d'études, informatici, dottorandi provenienti da tutti i paesi del mondo, che negli anni hanno animato la vita del Laboratoire de Linguistique Informatique (LLI) dell'Università di Paris 13, da lui creato e diretto dal 1991 al 2004.

Viaggiatore instancabile, conferenziere brillante, maestro severo e generoso di generazioni di linguisti che ha formato a un'analisi rigorosa delle lingue naturali, aperta alle possibilità di trattamento informatico per la realizzazione di dizionari elettronici e traduttori automatici capaci di assicurare la vitalità delle diverse lingue e favorire l'intercomprensione. 

Lorenese di origine, aveva fatto i suoi studi all'Université de Strasbourg, intrecciando lettere classiche,  statistica e linguistica. La spinta decisiva ad approfondire la linguistica gli era venuta - così mi aveva raccontato - ascoltando una conferenza di Giacomo Devoto, invitato a parlare in quella università.

L'interesse per la dimensione applicativa lo aveva portato poi a raggiungere il suo omonimo Maurice Gross, animatore dalla fine degli anni Sessanta di un altro celebre laboratorio a Paris 7 (LADL, Laboratoire d'Automatique Documentaire et Linguistique) e iniziatore del metodo della lexico-grammaire, efficacemente tradotto in una pratica di descrizione delle possibilità combinatorie delle parole destinata ad aprire la strada a numerose applicazioni in ambito informatico. 

All'interfaccia tra lessico, semantica e sintassi si collocano i principali contributi teorici di Gaston Gross: prima tra tutte la nozione di "classe d'objet" (classe di oggetti), utile per descrivere la natura semantica degli argomenti di un predicato, circoscrivendo meglio il fenomeno della polisemia. In secondo luogo il concetto di "verbe support" (verbo leggero o di supporto), che ha permesso di studiare in modo più approfondito il funzionamento dei predicati nominali. Anche i suoi studi dedicati alla dimensione del "figement" (idiomaticità), cioè del riconoscimento del significato unitario di unità complesse, hanno permesso al trattamento automatico della lingua di fare grandi passi.

Le numerosissime tesi di dottorato da lui dirette, inizialmente dedicate a lingue neolatine e germaniche ma presto estese alle lingue del blocco orientale, all'arabo, al cinese ecc., hanno del resto mostrato la fertilità delle sue intuizioni teoriche e la loro applicabilità a lingue tipologicamente diverse. 

Intuizioni esplorate, oltre che in centinaia di articoli e scientifici, nelle sue due opere disponibili in italiano: La finalità. Strutture concettuali e forme di espressione in italiano (con C. De Santis e Michele Prandi, Olschki, 2005) e La sintassi del lessico. Manuale di linguistica aperto all'informatica e alla filosofia (con M. Fasciolo, UTET 2021), recensito qui

Al di là della collaborazione scientifica con un linguista che mi ha insegnato a guardare alla frase come unità di analisi, esplorando sempre gli immediati dintorni di una parola, mi piace pensare che, quando uso un buon traduttore automatico che basa la sua precisione sull'analisi di grandi corpora di testi tradotti, ma ancora prima - quando digito frettolosamente un nome su un motore di ricerca per ricevere immediatamente suggerimenti di correzione - dietro queste conquiste ci sono linguisti straordinari come Gaston. 

Una persona cui debbo tanto, anche personalmente, perché mi ha permesso di pensare e scrivere in una lingua d'adozione, di avere una città del cuore in cui tornare, di stringere amicizie che durano nel tempo nonostante le distanze.

sabato 17 settembre 2022

Per ricordare Germano Proverbio (Torino, 3 ottobre 2022)

Nel marzo 2020, in piena pandemia, è scomparso il latinista Germano Proverbio, straordinaria figura di sacerdote salesiano e docente di Glottodidattica presso l'Università di Torino. 

A lui dobbiamo la divulgazione in Italia, alla fine degli anni Settanta, delle idee di Lucien Tesnière, e, nel 2001, la traduzione/rifacimento del volume Elementi di sintassi strutturale (in collaborazione con Anna Trocini).

Alla sua figura di insegnante, innovatore della didattica delle lingue classiche, divulgatore del modello della verbo-dipendenza è dedicato un Seminario di studi a Torino lunedì 3 ottobre 2022.

Chi volesse leggere gli ATTI, può ora accedervi liberamente accessibili sulla rivista Lingue antiche e moderne (Vol. 12/2023).

 


venerdì 8 luglio 2022

Rivista TDFLE n. 83: richiesta di contributi su Lucien Tesnière


La rivista open access TDFLE (Travaux de Didactique en Français Langue Etrangère) dedicherà un numero monografico a Lucien Tesnière, in programma per l'inizio del 2024 (70° anniversario dalla morte del linguista francese), curato da Michèle Verdelhan e Jean Léo Léonard:

Didactique des langues, regard sur la grammaire et désir de langues chez Lucien Tesnière. Enjeux épistémologiques en linguistique appliquée


Il temario e la scadenza (15 ottobre 2022) per la presentazione delle proposte di articoli (in francese) sono consultabili al link: 


https://revue-tdfle.fr/appels-a-contribution/165-revue-83-didactique-des-langues-regard-sur-la-grammaire-et-desir-de-langues-chez-lucien-tesniere-enjeux-epistemologiques-en-linguistique-appliquee

 

giovedì 2 giugno 2022

Prendere sul serio la grammatica (sul libro di R. Simone)


Sta per uscire per l'editore Laterza un volume di Raffaele Simone, professore emerito di Linguistica generale, il cui titolo interroga chiunque si occupi di grammatica: La grammatica presa sul serio.

Un titolo che presuppone un atteggiamento diffuso "poco serio" (nei confronti della grammatica), rispetto al quale il volume (250 pagine circa) si propone come antidoto. L'obiettivo dichiarato fin dalla quarta di copertina è in effetti "fare piazza pulita di miti e idee sbagliate" a proposito della nostra lingua. 

"Giù le mani della grammatica!" si intitola la Premessa al volume: un memento posto sulla soglia dal nostro barbuto nocchiero. Che ci guida con mano sicura attraverso una scrittura meno seriosa e tecnica rispetto ad altri volumi (come il famigerato Fondamenti di linguistica generale, su cui tanti di noi hanno studiato), benché ugualmente precisa e ricca di osservazioni ed esempi in più lingue. Tanto da indurre a pensare che obiettivo non dichiarato del volume sia quello di precisare il posto della grammatica nella linguistica generale, e viceversa. 

Messe da parte le immagini medievali della megera dotata di frustino e la "canzone dolce" che incanta le orecchie dei bambini, il libro ci porta a scoprire la grammatica come "arcipelago" di isole indipendenti, con caratteristiche comuni e altre specifiche, esposte ai marosi e all'erosione del tempo. 

L'idea ricorda l'immagine dell'albo illustrato Le français vu du ciel, di cui avevo parlato in un vecchio post, ma qui lo sguardo non è a volo d'uccello: si osserva la superficie e si va in profondità, si soppesano le parole in base alla loro consistenza semantica (o alla loro leggerezza), se ne studiano le relazioni e i legami di coesione (la grammatica presente nel lessico, insomma, che struttura tante espressioni più o meno fisse, compresa quella presente nel titolo: prendere sul serio).

Intanto ci si fa strada tra le metafore (oltre all'arcipelago, la cascata, il filtro, la cassetta degli attrezzi) che aiutano a vedere un oggetto astratto e "implicito" quale è il sistema della lingua, e a esplicitarne le regole. Si impara anche a muoversi nel "triangolo delle varietà" e a relativizzare i giudizi corretto/sbagliato. Si familiarizza con concetti complessi, come quello di grammaticalizzazione o di ciclo lessicale. Si scopre l'adposizione accanto alla preposizione. Si ritrovano i modi diversi di rappresentare linguisticamente gli eventi affidati alle strutture argomentali dei verbi. Si impara a chiamare "rotazione di transitività" il fenomeno per cui verbi intransitivi diventano "transitivi di basso grado" ammettendo alcune forme passive (per esempio partecipare nella frase: Una discussione partecipata da molte persone). Un esempio dell'influenza profonda (che arriva fino alle strutture della lingua) dell'inglese, lingua nella quale la distinzione tra intransitivo e transitivo è assai debole. 

Insomma, una lettura sicuramente utile per chiunque abbia a cuore la grammatica intesa come strumento per ragionare, combattere pregiudizi, costruire ponti. Certo, sarebbe bello se anche qualche "no-grammar" o "influencer" grammaticale (categorie usate da Simone nel suo libro) affrontasse la fatica del viaggio nelle zone più impervie del territorio delle lingue. E potesse tornare poi indietro, sanificato e sollevato, a raccontarci il vero.

Io, nel dubbio, ne raccomando la lettura a chi come me la grammatica la insegna, sperando che sia "appresa sul serio".

 

  






mercoledì 4 maggio 2022

Grammatica valenziale e tipi di testo (sul nuovo libro di Sabatini e Camodeca)

Finalmente è uscito il libro che aspettavo, e che non ero la sola ad aspettare! 

Grammatica valenziale e tipi di testo, di Francesco Sabatini e Carmela Camodeca.

Un manuale universitario, che nasce dall'esperienza della grammatica scolastica Sistema e testo (2011) e sistematizza l'intero progetto descrittivo della lingua (sintassi e testualità).

Raccomandato per chi voglia formarsi alla fonte sul modello valenziale nella sua rivisitazione più aggiornata e autorevole  e sul modello testuale a esso correlato, basato sul criterio del vincolo interpretativo (sempre dovuto all'ingegno di Sabatini).




Il forte sviluppo della linguistica testuale nell’ultimo quarto del Novecento ha indotto per qualche tempo ricercatori e docenti a trascurare la specifica considerazione della “grammatica”, talora ritenuta un oggetto astratto. Il progressivo affermarsi della grammatica valenziale, che intreccia saldamente semantica e sintassi e aggancia le acquisizioni della neurolinguistica, ha riacceso un interesse generale per il sistema della lingua, da porre anche come base necessaria per configurare i vari tipi di testo, prodotti concreti della comunicazione. Lavorando con questa duplice apertura di orizzonte, e richiamando anche i macrocontesti culturali (fino all’assetto odierno) nei quali sempre si collocano gli usi della lingua, gli autori delineano una completa tipologia testuale fondata sui parametri della rigidità/elasticità interpretativa dei testi nella prospettiva del ricevente. L’impianto del modello è sostenuto dall’analisi puntuale di un vasto apparato di campioni o più ampi estratti di testi: dalle norme giuridiche e dal testo tecnico-operativo al saggio critico, alla scrittura giornalistica, alla narrativa e alla poesia.

giovedì 21 aprile 2022

Letture contemporanee dell'opera di Lucièn Tesnière (De Gruyter, 2022)



Il volume L'œuvre de Lucien Tesnière. Lectures contemporaines è da poco uscito per l'editore tedesco De Gruyter a cura dei linguisti francesi Franck Neveu e Audrey Roig, organizzatori del convegno L'héritage de Lucien Tesnière (Paris, Sorbonne, 5-7 settembre 2019).

In libero accesso sul sito dell'editore è possibile consultare l'indice dell'opera e leggere sia la Prefazione di Marie-Hélène Tesnière, un ricordo familiare che ricostruisce la biografia intellettuale del nonno, sia la Presentazione dell'opera scritta dei due curatori, che qui di seguito traduciamo. 

***

Questo libro è il frutto di una riflessione comune sviluppata da linguisti di diversa estrazione nell'ambito delle scienze linguistiche, spinti dal desiderio di mettere in evidenza la rilevanza scientifica dell'opera di Lucien Tesnière e la sua importanza nella storia delle idee linguistiche.

Il pensiero di Tesnière, che è stato diffuso per decenni in opere ispirate esplicitamente o meno agli Éléments de syntaxe structurale, sta vivendo una ripresa di interesse che si manifesta in numerose pubblicazioni e riunioni scientifiche. È anche evidente nelle varie traduzioni degli Éléments. Molto tempo dopo le traduzioni in tedesco (1980), russo (1988), spagnolo (1994), italiano (2001), la traduzione inglese (2015) ha rinnovato l'interesse della comunità della Dependency Grammar per questo lavoro e ha favorito un approccio storico alla dipendenza grammaticale meglio informato e più approfondito.

La distanza cronologica dell'opera, l'evoluzione della riflessione sulla struttura delle lingue e sui campi costitutivi della scienza linguistica ci permettono oggi di valutare meglio la portata del lavoro dell'autore di Éléments de syntaxe structurale.

Questo rinnovato interesse è senza dubbio legato al posto dato alle grammatiche della dipendenza negli studi sintattici, come illustra un libro recente (Imrényi & Mazziotta 2020) che si interroga sulla relazione esatta che si può stabilire tra il lavoro di Tesnière e il quadro metodologico e teorico della grammatica delle dipendenze: dove si deve collocare questo lavoro nello sviluppo storico della nozione? Deve essere considerato come un punto di partenza o come un punto di arrivo?

Sembra molto chiaro agli storici delle idee linguistiche che gli Éléments de syntaxe structurale non possono legittimamente essere considerati un terminus a quo, dato che la descrizione grammaticale orientata alla dipendenza si è sviluppata fin da Prisciano, e dato che il concetto di dipendenza è riapparso più volte fino all'inizio del XX secolo, prendendo un posto centrale nell'analisi sintattica. Sappiamo, inoltre, che la nozione di dipendenza nella grammatica è variata considerevolmente nel tempo. L'interesse del problema non è quindi tanto il problema del terminus (a quo o ad quem), che è sempre un'illusione retrospettiva e che spesso risulta da una forma di semplificazione epistemologica. L'interesse risiede piuttosto nei modi in cui il pensiero sulla dipendenza grammaticale si è evoluto, nelle diverse fasi del processo storico che hanno portato alla concezione contemporanea della nozione.

Resta comunque il fatto che il formalismo sviluppato da Tesnière è considerato la pietra angolare delle analisi basate sulla dipendenza, in particolare per lo sviluppo della nozione di "connessione", definita come una relazione grammaticale gerarchica tra le parole, dove una parola sovraordinata è collegata a una parola subordinata. La dipendenza nella sintassi è un concetto che innegabilmente si presta a molte interpretazioni ed è stato oggetto di vari approcci teorici e descrittivi, ma il nucleo comune di queste analisi rimane l'idea delle relazioni gerarchiche tra gruppi di parole. E le nozioni fondamentali sviluppate da Tesnière in Éléments de syntaxe structurale (ordine lineare contro ordine strutturale, stemmi, autonomia della sintassi, centralità del verbo, valenza, traduzione, metatassi) hanno giocato un ruolo determinante nello sviluppo di questa concezione della grammatica.

La scelta che abbiamo fatto di rivisitare questo lavoro all'inizio del terzo decennio del XXI secolo ci ha portato a considerare quattro percorsi necessari che in definitiva corrispondono a ciascuna delle quattro parti costitutive del libro.

In primo luogo, si è resa necessaria una rilettura degli Éléments de syntaxe structurale. I contributi dei linguisti presentati in questa prima sezione fanno luce su aspetti diversi dell'opera: i livelli di analisi e di interpretazione, le analisi stemmatiche e applicative, il ragionamento per diagrammi, la teoria e i suoi fondamenti teorici, il posto del latino e del greco nell'esemplificazione, l'eredità paradossale di Lucien Tesnière.

La storia della linguistica copre un'altra sezione, incentrata sulla relazione che si può stabilire tra la teoria della sintassi di Tesnière e lo sviluppo dello strutturalismo europeo nel XX secolo. Le letture contemporanee dell'opera di Tesnière non potrebbero essere condotte senza studi approfonditi sull'applicazione di taluni aspetti della sua opera allo sviluppo della strutturalismo europea. In tal modo arriviamo a capire come il processo di invenzione e reinvenzione dello stesso quadro teorico abbia potuto svilupparsi fino all'inizio del XX secolo.

Nella terza sezione si analizza in modo in cui i concetti tesneriani sono applicati ai domini morfologici, sintattici e semantici dal punto di vista del francese e del tedesco, con particolare attenzione per il distacco e il sistema appositivo, il concetto di adjet, la teoria della valenza, la metatassi, la struttura argomentale.

Per concludere, nell'ultima sezione si prende in esame il posto importante occupato dall'opera di Tesnière nell'insegnamento della grammatica, in Francia come oltre i confini. Per prima volta viene qui affrontato in un libro il tema della didatticizzazione della conoscenza grammaticale basata su alcune nozioni sviluppate negli Éléments de syntaxe structurale.

Questa raccolta di studi dedicati alle letture contemporanee dell'opera di Tesnière troverà senza dubbio il suo posto nel corpus ormai molto ricco di analisi storiche e teoriche della linguistica tesnièriana.


martedì 5 aprile 2022

Tecniche di scoperta e tecniche di scommessa (sul libro di Ignazio M. Mirto)

Le tecniche di scoperta sono quelle sfruttate nel bel libro di Ignazio Mauro Mirto: Grammatica, didattica linguistica, tecniche di scoperta (ETS, 2021, 95 pp.).

Le tecniche di scommessa sono quelle sfruttate da chi ha partecipato al concorso a cattedra bandito per selezionare, per le vie brevi (in 100 minuti, con correzione automatica), qualche migliaio di insegnanti pronti a ricoprire i posti vacanti nelle scuole il prossimo anno. 


Iniziamo dalle prime. Iniziamo con una citazione tratta dall'Introduzione al volume:

E' nota la disaffezione dei nostri studenti per la grammatica, sia della lingua madre che delle lingue straniere. Al contempo è alta, nei docenti, sia a scuola che all'università, le consapevolezza dei vantaggi che deriverebbero da un accostamento ragionato alla logica soggiacente ai fatti grammaticali, con benefici per gli studenti che si estenderebbero ben al di là del periodo di studi. Questa distanza, tra ciò che i discenti prediligono e ciò che effettivamente a loro servirebbe, richiede la ricerca di strumenti, anche metalinguistici, utili per fronteggiare la diffusa demotivazione.  (p. 9) 

Per motivare (al)la grammatica, Mirto sceglie il "metodo per scoperta" (che ha una lunga tradizione nella scuola italiana, almeno a partire dagli Ottanta del secolo scorso) e usa come stimolo per la riflessione il contrasto tra frasi molto simili nella forma ma diverse nelle funzioni, secondo un'idea già messa a punto nel volume Grammatica a coppie. Proposta per una didattica della sintassi (scritto con S. Trabona, ETS, 2016). 

Che differenza c'è tra Leo mise il bambino sul tappeto e Leo mise il bambino al tappeto? E tra Leo va fiero al lavoro e Leo va fiero del lavoro? Mediante una serie di proposte di complessità crescente, si sottopongono alla classe o a piccoli gruppi (anche a coppie, perché no) le coppie di frasi, chiedendo di formulare ipotesi, di proporre soluzioni. La spiegazione frontale, guidata da un modello precostituito (spesso offerto dal libro di testo), è per il momento messa da parte per far spazio alla sfida tra pari basata sul ragionamento.  

Grande rilievo occupa, nel libro, la riflessione sulla struttura argomentale dei verbi e il modo in cui il significato della frase cambia al variare del tipo di argomenti. La trattazione supera un approccio rigidamente"verbocentrico", secondo cui il significato del verbo preesisterebbe alla combinazione sintattica in cui ricorre. In linea con la grammatica relazionale teorizzata da Nunzio La Fauci, si trasmette invece "l'idea che il significato si forma in funzione delle combinazioni sintattiche" (p. 57) . 

L'esemplificazione è condotta anche utilizzando coppie di frasi in lingue diverse: italiano come Lingua1 e francese o inglese come Lingua2. Arrivare (da soli) a capire la differenza di funzionamento tra Teresa likes flowers e A Teresa piacciono i fiori, o tra He incurred a penalty ed E' incorso in una multa consente  di aumentare la consapevolezza metalinguistica e interlinguistica (grazie al cosiddetto noticing) e aiuta a evitare errori "traduttivi" (o di interferenza, derivanti del trasferimento alla L2 di strutture della L1), oltre che le spiegazioni riduttive "("questo fa eccezione"). 

Un contributo importante, dunque, per chi voglia riflettere sul ruolo che il concetto di valenza può assumere nell'insegnamento delle lingue, e una serie di esempi concreti dell'uso che se ne può fare in aula. Il volume è corredato di (o da) 5 schede che offrono, in sintesi, altrettante proposte di applicazione del metodo.

Questo tipo di metodo, che esclude l'istruzione esplicita e l'addestramento ad hoc, mette fuori gioco anche la risoluzione di problemi affidata al caso e all'azzardo nomenclatorio. Che è quello che si richiedeva invece nei quesiti concorsuali che mi sono stati sottoposti da candidati frustrati e arrabbiati di fronte alla pochezza, all'imprecisione e al travisamento logico esemplificati da alcuni dei quiz grammaticali elaborati da agenzie di testing (le stesse che procurano test di accesso ai corsi di laurea) senza indicazioni a monte (che non fossero dei genericissimi "Quadri di riferimento" ministeriali a carattere enciclopedico, differenziati per le classi concorsuali) e, soprattutto, senza alcun controllo a valle della sensatezza - prima ancora che della correttezza - delle consegne e delle risposte possibili.    

Qual è allora il legame tra le due tecniche, tra la scoperta e l'azzardo, vi chiederete a questo punto? Nessuno, appunto.

E non c'è niente di più amaro, di più avvilente, di questa constatazione per chi prova a nutrire la formazione dell'insegnante, in formazione o in servizio, insistendo sull'importanza di ragionare, osservare, spiegare. Una sconfitta per tutto il sistema scolastico. che si continua a riformare nell'incapacità di trasformare alcunché.

 

domenica 27 marzo 2022

Senza vocazione (sul libro di Dano Turrini)

La vocazione, per l'insegnante di scuola, è invocata con la stessa frequenza dell'ispirazione per lo scrittore e, come questa, è oggetto di continui fraintendimenti. Di fronte ad entrambe, comunque, più che le professioni di fede, valgono le analisi degli effetti prodotti: sui ragazzi che si formano come sui libri che si scrivono. 


Senza vocazione. Schizzi di scuola (Pendragon 2021) è un libro di Dano (Loredano) Turrini, a lungo docente di materie letterarie in istituti e licei bolognesi, che si inserisce nel filone "ricordi di scuola" con una mossa originale: la presa di parola passa per un TU. Un allocutivo con il quale il nostro professore si rivolge a un altro, a un'altra insegnante del presente o del futuro che, come lui, si è ritrovato a fare l'insegnante "più per caso che per scelta" e lo ha fatto per buona parte della sua vita lavorativa. Così il professore dei tanti studenti che sfilano in questo libro (fatto di 22 istantanee e alcuni intermezzi), diventa il collega disincantato e mai cinico che, nel raccontarti le sue storie di insegnante - da supplente a pensionato riconosciuto dagli ex allievi -, ti prende per mano e ti porta in classe per indurti a osservare le relazioni educative, a rifletterci sopra e a scriverne con pensata leggerezza. Come un tutor o supervisore (un ruolo che Turrini ha ricoperto, tra gli altri) particolarmente "vocato" (è il caso di dirlo), che ti obbliga a fermarti e leggere il "materiale umano" che hai davanti:

Se pensiamo che la scuola pubblica gratuita e laica per tutti sia una delle grandi conquiste della civiltà, che sia il valore più universale tra i tanti [...] allora come si fa a preoccuparsi dell'ortografia che langue o delle lingue morte che muoiono invece di pensare a come prendersi cura dei ragazzi che soffrono? (p. 23) 

Lo dice bene Magda Indiveri (altra amatissima docente bolognese) nella sua Postfazione al libro (Se ogni giorno entra in classe un professore): alla giusta distanza ogni docente si scopre in primo luogo lettore. Un lettore cooperante, che tanta parte ha nel decidere il senso di quei testi che gli si dispiegano davanti, ogni giorno, e che ogni giorno tenta di "mettere in riga". Un lettore che vive a scapito dell'autore, che ha rinunciato a forgiare i suoi personaggi. Non a caso, la postfattrice cita le parole di Roland Barthes, a conclusione della sua Lezione inaugurale del 1977: "nessun potere, un po' di sapere, un po' di saggezza, e quanto più sapore possibile". 

La ricetta giusta per il nostro professore, che aggiunge però un'altra indicazione in levare: "nessuna seduzione". Un ingrediente indispensabile in tempi di esaltazione del desiderio e della competizione, di insegnanti-influencer in cerca di gratificazioni seduttive, di "erotica dell'insegnamento" propagandata dai maitres à penser del momento e spesso praticata in modo irresponsabile:    

Bisognerà fare attenzione. L'erotismo che fonda il mestiere dell'insegnante, lo sappiamo da millenni, è di necessità asimmetrico. Non importa quali siano le tue intenzioni: se non ti mantieni su un altro piano, fuori abbraccio e fuori gara, non puoi insegnare niente. (p. 31) 

Senza negare la tensione emotiva che sostiene la relazione didattica, Turrini ci mostra la prospettiva giusta da cui entrare in relazione, la concentrazione e l'impegno necessari per mettersi in ascolto, l'arte della divagazione didattica che non sconfina mai nello stimolo effimero, la capacità di accettare i propri falllimenti e di riconoscere (o farsi riconoscere) i meriti. 

Ci consegna, anche, un quadro sociologico: il ritratto di un insegnante dal prestigio e carisma riconosciuti, consapevole del deterioramento dell'aura che, almeno fino al secolo scorso, circondava i professori di liceo, compensando almeno in parte la mancanza di una retribuzione adeguata e di possibilità di progressione o differenziazione delle carriere. Eppure grato, riconoscente in quanto riconosciuto dalle persone in crescita di cui è riuscito a meritare la stima.

Leggendo questo libro, insomma, sono riuscita a capire il paradosso illustrato dal sociologo Gianluca Argentin nel suo volume Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento (Il Mulino, 2018): l'inaspettata soddisfazione lavorativa degli insegnanti italiani, nonostante le condizioni che ne limitano il benessere lavorativo, il riconoscimento sociale, la motivazione e talora l'efficacia. Le ragioni di una scelta così poco esclusiva eppure ancora sufficientemente remunerativa: con o senza vocazione. 

mercoledì 16 febbraio 2022

A chi indarno adorò Adorno (risposta a Minima&moralia)

Il 9 febbraio 2022 è uscito sul Portale della lingua Treccani un mio pezzo, intitolato L'emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata, che riprende e amplia i contenuti di un post apparso su questo blog il 9 luglio 2021: 10 tesi per una lingua democratica rispettosa del genere. La prospettiva è quella che conosce chi frequenta questo blog: offrire all'insegnante strumenti aggiornati per pensare la grammatica.

 

La concomitanza con una petizione lanciata pochi giorni prima su Change.org da un altro linguista ha creato un clima di contrapposizione. Due polemisti si sono sentiti in dovere di rispondere, mettendo insieme la petizione (un testo breve dai toni aggressivi che riprendeva un post FB del promotore) e il mio articolo, lungo e argomentato, in un compiaciuto esercizio di decostruzione intitolato "Perché la petizione promossa da Massimo Arcangeli è una schifezza e perché nemmeno l'articolo di Cristiana De Santis sullo schwa è convincente".

Premesso che il mio pezzo era solo una parte di un articolo più corposo, corredato di ampia bibliografia (Emancipazione grammaticale, grammatica ragionata e cambiamento linguistico, uscito sullo Speciale Lingua italiana Treccani del 21 marzo 2022), e che il pezzo dei polemisti rivela fin dalla forma linguistica la postura di chi ha fretta di parlare per mettere a tacere l'altro (risistemando alla bell'e peggio post scomposti usciti su FB: vale la pena leggerli, anche come esercizio di critica del testo ai fini delle attribuzioni), quella che segue è la mia risposta.



A chi indarno adorò Adorno

di Cristiana De Santis

(da far circolare liberamente tra persone che hanno a cuore il dibattito democratico)

Leggo con interesse che un mio pezzo – scritto e meditato per oltre un mese e nato, prima ancora che da una proposta del Portale Treccani, dalle riflessioni fatte in molte occasioni con studenti e militanti, oltre che dai confronti con altri studiosi – diventa il bersaglio di una sarcastica “decostruzione” fatta nel corso di una notte e apparsa prima – con toni violenti e a firma di un’unica autrice – su una rete sociale e poi – dopo una veloce operazione di maquillage che potesse renderla socialmente accettabile – su una rivista online a beneficio di un pubblico più ampio di cui si vogliono rafforzare le convinzioni e l’impermeabilità al dubbio.

Non rispondo alla prima parte dell’articolo, che si applica a una petizione che io non ho firmato e alla quale sono stata associata in base a una strategia tipica del populismo linguistico e del discorso iperpolemico, che nell’analisi del discorso è chiamata “amalgama”: si mettono in uno stesso calderone posizioni diverse per poter costruire un contro-discorso capace di risvegliare performativamente un pathos negativo in chi legge o ascolta, allo scopo di provocarne l’indignazione e suscitarne il risentimento. Un testo nato prima di un altro non ne corrobora né ne mitiga le tesi: al più rientra nello stesso universo discorsivo, non necessariamente con lo stesso posizionamento (ma il posizionamento evidentemente è un feticcio di cui si richiama la necessità solo quando se ne può reclamare la mancanza). Che poi il pensiero originale di una donna venga automaticamente ricondotto a quello di uomini più visibili e potenti è una spia di quanto l'ordine patriarcale sia incistato anche nelle menti che si pensano più libere.

Segnalo comunque – en passant – la presenza di pseudo-argomenti ricorrenti nel discorso di molti paladini delle soluzioni gender-fair di cui si dibatte: 

- sono solo sperimentazioni (non sarebbe più onesto parlare di pratiche che sostanziano un’ideologia linguistica? - Althusser docet)

- ci limitiamo a studiare e descrivere il fenomeno (qui entra il campo il paradosso dell’osservatore, opportun(istic)amente mescolato alla postura profetica della vox clamans e all'attitudine dell'inquisitore e giustiziere, a seconda dei contesti)

- non pensiamo che possa essere applicato sistematicamente. Cioè nei diversi domini sociolinguistici? (Su questo siamo d'accordo: un post su FB è altro rispetto a un atto ministeriale redatto da un pubblico ufficiale) oppure all'interno di un testo? (e in questo caso chi stabilisce quando sì e quando no, e con quali criteri? le norme tipografiche decise a tavolino da una casa editrice militante o diffuse da un sito?)

- alla fine saranno i parlanti a decidere (i parlanti, appunto, che hanno diritto di reagire a ciò che contraddice i propri giudizi di grammaticalità, a prescindere dalla pervasività di certi usi scritti e dai pareri di esperti più e meno autorevoli: acclarati o semplicemente acclamati come tali).


(c) per gentile concessione di Cecilia Campironi (www.ceciliacampironi.com)

Vengo al cuore della parte che affronta il mio testo, che subito denuncia l’incapacità di riconoscere l’ironia (che è cosa diversa dal sarcasmo) di chi, per entrare in un universo altro dal discorso accademico, adotta e adatta certe strategie discorsive (il posizionamento, appunto). L’amalgama torna subito alla carica: il concetto di grammatica “ragionevole” o “ragionata” (che allude alla tradizione che risale a Port-Royal, ha una storia ricca nella grammaticografia europea, e che ispira le riflessioni di questo blog oltre che le mie pubblicazioni scientifiche) è mescolato con la distinzione tra norma e uso (che ha una storia più recente, risalente alla seconda metà del secolo scorso), a quella tra regole descrittive e prescrittive e ad altri concetti che – se noti – ci mettono in grado di sfumare e problematizzare lo studio della lingua intesa sia come sistema sia come insieme di realizzazioni all’interno di uno spazio sociale.

Qui si nota anche la tendenza a delegittimare il discorso altrui sovrapponendo all’accezione tecnica quella comune di un termine: come più sopra non si coglieva il riferimento alla “deriva linguistica” (che non è un seguire rovinosamente il corso degli eventi, ma una modalità tipica del cambiamento delle lingue), qui si usa il termine ragionevole (una grammatica ragionevole è una grammatica filosofica), opponendolo a irragionevole (anziché a tassonomico).

Veniamo all’emancipazione, che una presupposizione (basata sulla non conoscenza dei lavori citati da chi scrive, nonché da quelli di chi scrive, non citati per eleganza) aggancia comodamente alla conoscenza del funzionamento della lingua standard, anziché (come nella tradizione filosofica riportata in auge dal filosofo francese Jacques Rancière) a una pratica antiautoritaria dell’insegnamento linguistico che si basa sulla competenza spontanea di ogni parlante – pratica che richiede una faticosa decostruzione del sapere grammaticale ricevuto, oggi resa possibile dagli strumenti della linguistica moderna (cito qui uno strumento agile dal nome parlante: Nuova grammatica dell'italiano adulto di Vittorio Coletti). 

Ma sarebbe bastata la conoscenza delle Postille di Gramsci a Panzini, facilmente reperibili in rete e meno onerose della lettura di prima mano di un intero Quaderno dal carcere, a illuminare quell'aggettivo: ragionevole. Su questo punto vado rapida perché l’accusa di “ridurre a paternalismo la prospettiva gramsciana” tradisce una falsa coscienza alla quale una meditazione più pacata avrebbe forse giovato, insinuando qualche ragionevole (sic) dubbio nel mare di tante e assolute certezze. Ma dubitare prima di parlare, e tacere all’occorrenza, è quello che si pretende solo dagli altri, evidentemente.

Segnalo giusto l’anacronismo del termine subalterni, usato per respingere come anacronistica una visione che sostanzia ancora l’impegno politico di una certa sinistra attenta alle strutture oltre che alle sovrastrutture.

Il testo furbescamente sorvola sulla natura di alcuni “utili chiarimenti” offerti dal mio intervento: si tratta in effetti di argomenti stringenti che mettono in luce la debolezza linguistica di proposte lanciate e propagandate nella misconoscenza o nello sprezzo dei principi basilari che governano il sistema di una lingua (la distinzione simbolo/indice/icona, grafema/fonema/morfema, le regole di funzionamento di un suono come la vocale indistinta nelle lingue e dialetti che lo possiedono, le regole morfologiche dell’italiano). Sistema entro il quale le parole devono inserirsi, che ci piaccia o no. Per un ripasso consiglio questo.

La grammatica non è rispettata quando si decide arbitrariamente di modificare le regole di derivazione delle parole (lettore non è una parola composta da radice e desinenza, ma da radice, suffisso -tor(e) e desinenza); ancor prima, la grammatica non è rispettata quando si decide arbitrariamente di aggiungere alla lingua un suono che non ha la capacità di distinguere parole e tantomeno può funzionare come marca di flessione. 

L’eufonia che viene sbeffeggiata non è una prerogativa della lingua del bel canto: è un fenomeno della fonetica soprasegmentale che regola l’incontro tra parole (in altre lingue si chiamerebbe liaison) e non ha niente a che vedere con i giudizi del tipo “suona bene/suona male” (mi piace/ non mi piace) che provengono dal sentimento linguistico dei parlanti e si applicano tipicamente ai neologismi (come al “minchiarimento” che segnalo agli amici lessicografi come possibile traduzione dell’inglese mansplaining, pratica in cui uno degli autori qui si produce).

Quanto al nuovo pronome neutro, nella versione lunga dell’articolo si spiega la complessità intrinseca del sistema pronominale italiano, cui non basta un pronome schwaizzato (peraltro foneticamente inadatto alla funzione che dovrebbe svolgere) a cambiare le regole: bisogna fare i conti con una ricchezza di forme e funzioni (legata alle stratificazioni storiche e ai movimenti di deriva linguistica) la cui conoscenza fa apparire demagogica una proposta come quella azzardata: una scorciatoia, appunto.

La semplicità e il semplicismo alludono all’elusione di una complessità alla quale partecipiamo come parlanti anche senza rendercene conto (la deriva è un fenomeno inconscio, come ha ben spiegato Edward Sapir), ma che è compito della scuola e dell’università insegnare a conoscere e riconoscere.

L’estensione del dominio della lotta giustifica anche le forzature e le banalizzazioni, sia chiaro (ricordate il k delle okkupazioni studentesche? E dire che ci avrebbe fatto tanto comodo quel k nella nostra ortografia!), ma non spacciamole per  proposte linguisticamente fondate per il solo fatto di essere state messe in circolo con un nome tecnico. Ha senso chiamare "schwa" una e rovesciata che non funziona come suono indistinto? Piuttosto, dichiariamo che il termine schwa ha assunto, oltre al significato proprio, un significato nuovo legato a un'ideologia linguistica e alle pratiche dei militanti che vi si riconoscono: quello di grafema che allude genericamente a un "indistinto linguistico" che si vuole mimetico della realtà.

Veniamo al presunto punto debole della mia argomentazione: l’avverbio spontaneamente. Qui è chiaro che la mia prospettiva è di tipo acquisizionale: inutile mettersi a imbastire una lezione sulla differenza tra acquisizione spontanea della lingua parlata e apprendimento guidato della lingua scritta (in questo blog se ne è spesso parlato). Basti solo notare che nessuno dei promotori dello schwa si sottopone alla fatica improba di rinunciare ad applicare la regola nel proprio parlato spontaneo (al di là di qualche esempio episodico di come fare) e anzi glissa abilmente anche nello scritto-scritto (ma si sa che chi si fa le regole da sé stabilisce per sé anche le eccezioni).

La volontà di lotta, poi, giustifica anche il disinteresse verso il modo random (dirò meglio: fuzzy, che in logica si oppone a binario) e incoerente con cui il “simbolino” viene applicato nei testi che ho avuto modo di analizzare, nonché nel documento ministeriale cui fa riferimento la petizione (come ha mostrato Claudio Marazzini in un articolo apparso su Il Mattino, 7 febbraio 2022, "L'italiano sotto assedio tra asterischi e chiocciole"). Rem tene, verba sequentur. Chi tiene le redini, poi, indirizzerà la corsa. Non possono essere mica le Accademie a indirizzare l’uso di parlanti e di scriventi: rischiano ormai di essere linciate sulla pubblica piazza dal primo Marcel che parteggiando viene (e peggio per chi – centinaia di persone ogni giorno – ancora si rivolge a loro per sapere cosa sia corretto/sbagliato prima ancora che corretto/offensivo).

Ma torniamo all’avverbio contestatomi e ai controesempi offerti: quello che chi (parlando al maschile di sé) da bambino sentiva normale (l'epiteto f****o) è un lessema, una parola che possiamo ripetere o decidere di rifiutare proprio perché, crescendo ed educandoci, ne scopriamo la violenza (ma questo dovrebbe valere anche per i tanti disfemismi ferocemente omofobi e sessisti che pervadono il parlato e lo scritto quotidiano, in bocca o sulla tastiera dei paladini del bene, con una spontaneità sulla quale non possono che concordare). Il lessico di una lingua è cosa diversa dalla sua grammatica: su questo vale la pena leggere davvero Wittgenstein (ora liberamente accessibile in rete), invece di ripetere stancamente la sola frase che circoli sui social e sui giornali (“i limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo”).

Quelli che abbiamo introiettato come stereotipi non sono meccanismi grammaticali ma parole e modi di dire (noto per inciso che gli stereotipi sessisti abbondano perfino nelle metafore usate dai due autori). Esistono anche alcuni stereotipi grammaticali tramandati dalla scuola, certo: mi fa sempre sorridere il riflesso educato di chi non scrive a me mi in testi in cui manda a quel paese tutto il mondo tranne che sé. Ma combattere questi stereotipi richiede una conoscenza, un controllo, una capacità di scendere a patti con parti più difficili di sé che, evidentemente, non possiamo dare per scontate neppure in chi dovrebbe insegnare e si vanta di diffondere un approccio critico all’intero scibile ed esistente, quando non si erge a tribuno difensore della scuola democratica.

La comunità dei parlanti è fatta da chi parla una lingua senza costringersi a rispettare le norme di un presunto standard imposto dall’alto o dal basso che sia (bisogna poi intendersi su cosa sia basso e cosa sia alto, oggi), ferma restando la possibilità di alcuni di gruppi di fare proposte la cui sostenibilità verrà poi  valutata e messa alla prova dall'uso nella comunità più ampia.

 












La comunità dei parlanti è fatta da chi, con gradi diversi di padronanza del codice, si inserisce nel flusso della lingua viva e vera, muovendosi tra libertà e costrizione – come ci ha insegnato il geniale precursore della nostra sociolinguistica, Benvenuto Terracini –, tra riconoscimento e sanzione sociale. 

Capirlo aiuterebbe un gruppo di parlanti (che non sono TUTTI i parlanti, per quanto l'algoritmo del web generi e rafforzi in loro tale convinzione) a spiegarsi le altrui resistenze verso lo schwa in modo più raffinato e persuasivo del generico “maschilismo introiettato” (da loro stessi per primi, come abbiamo visto). Intanto, per chi volesse riflettere sull'ossessione hipster per la purezza (anche ortografica), rimando a questo post e a questo per altre riflessioni politiche sull'ortografia.

La comunità dei parlanti è fatta di persone che possono sentirsi esiliate dalla lingua per tanti motivi diversi, che non riguardano solo l’identità di genere; nella comunità rientrano anche persone che scelgono l’italiano come lingua altra per definire la propria identità: questa è la lezione della sociolinguistica  quando si applica alla società vista nella sua stratificazione complessa.

E no, mi dispiace, l’amalgama con chi dice “giù le mani dai bambini” non passa. Perché essere stati bambini non basta a capire come funziona la “grammatica dei bambini ” (oggi c’è chi la studia, per fortuna, e in questo blog se ne parla spesso, anche attraverso le riflessioni di Tullio De Mauro). Ad ascoltare i bambini, attraverso autentici "esperimenti grammaticali", ci sarebbe da imparare anche su queste questioni. Chi lo fa sta arrivando a conclusioni molto simili a quelle del logico Andrea Iacona.  

E poi la lingua cambia, sì, ma come cambia? Normalmente cambia da sé, nella lunga durata. Le proposte di cambiamento che possono venire da singoli o da gruppi hanno possibilità di successo solo se sono isolate (pensiamo alla sigla LGBTQI+, che si è arricchita pure di un simbolo non alfabetico) o se "fanno sistema", cioè se inseriscono nel sistema della lingua senza creare incoerenze (tra scritto e parlato in primis) e senza entrare in conflitto con le regole non negoziabili della lingua.

La contrapposizione tra gruppi è creata da chi polarizza l’attenzione e il dibattito su una minoranza discriminata e attacca con ferocia chiunque (percepito come un fastidioso corpo esterno) voglia allargare il “campo”, lanciando accuse sotto forma di etichette autoritarie (boomer, terf, cherry picking ecc.). Mostrando una incapacità di mediazione linguistica che ci dice molto proprio su quelle "agende sociali e politiche" sulle quali si vorrebbe intervenire, nonché sulle sconfitte prevedibili di chi cerca il muro contro muro. Del resto, la mediazione nasce dalla relazione e ogni relazione autentica richiede fatica – figurarsi le interrelazioni tra gruppi che riescono solo a delegittimarsi vicendevolmente.

Scivolo sulla fine (magari ci tornerò in un secondo momento) perché lavorare stanca (a maggior ragione il doversi obbligare a una excusatio non petita) e io ho già molto riflettuto e scritto sul concetto di autorità (intesa, con Horkheimer, come superiorità riconosciuta), di autoritarismo (molto diffuso nel populismo, anche linguistico), autorevolezza labile conquistata a colpi di like sul web. (Sul sito Academia trovate  quasi tutto: ma sono letture pesanti, vi avverto).

I problemi non sono ben altri, sia inteso: 

- in primo luogo perché siamo di fronte a una richiesta precisa da parte di persone che si sentono discriminate, alle quali abbiamo la responsabilità di dare "pane" e non "pietre", e spiegare che non è la lingua con le sue regole a discriminare e includere (se così fosse, Ungheria e Turchia sarebbero il paradiso dei diritti civili), ma chi la parla con le sue scelte, linguistiche ma non solo. E che non si tratta di opporre una lingua "nostra" a una lingua "loro", ma di capire le ragioni di una lingua comune che sia strumento efficace per comunicare, pensare, cantare, poetare;

- in secondo luogo perché siamo di fronte a una “quistione” linguistica che pone un problema di “egemonia”. Dobbiamo affrontarla forti di tanti studi e diversi, di più e più voci: non rinunciando al confronto, senza paura delle cyberminacce dei profeti del bene, col coraggio di denunciare la “falsa moneta” prima che l’inflazione del conformismo culturale impoverisca la nostra vita riducendola a ben poca causa. Rimanendo umani nel mondo post-umano.

Chiudo con una citazione, che ho avuto modo di leggere a conclusione del mio intervento per “La lingua batte” del 13 febbraio (Perché divide la lingua dell'inclusione): 

ciò cui si deve mirare è una democratizzazione conciliabile con standard di livello alto dove praticare politiche di rispetto e di riconoscimento, che sono le parole d'ordine per uscire dalle logiche del rancore e del risentimento. E per abbassare forse la hybris dei meritevoli autoproclamantisi eccezionali, unici, singolari, singoli (Francesca Rigotti, La società dei singoli, Einaudi, 2020, pp. 129-130).

 

P.S.: A chi volesse volare altrove, sulle ali della letteratura, consiglio la lettura dell'articolo di Tiziano Scarpa uscito su "Il Domani" di mercoledì 16 febbraio: Solo la lingua che ci esclude riesce a produrre saggezza.  

Un libro di poesia al quale sono tornata per trovare conforto da tanta violenza è Valerio Magrelli, Disturbi del sistema binario (Einaudi, 2006), da cui trascrivo questa poesia:

 

Infanzia del lavoro

Guarda questa bambina
che sta imparando a leggere:
tende le labbra, si concentra,
tira su una parola dopo l’altra,
pesca, e la voce fa da canna,
fila, si flette, strappa
guizzanti queste lettere
ora alte nell’aria
luccicanti
al sole della pronuncia.


giovedì 13 gennaio 2022

La scuola dei singoli (sul libro di Francesca Rigotti)

 



Siamo nell'era del singolo. Un'epoca in cui un numero sempre maggiore di persone, spesso inconsapevoli di far parte di una tendenza generale, non si aspetta più il generale ma sempre lo speciale, non si volge a ciò che è standardizzato e regolato ma a ciò che è originale e particolare [...]. Per esempio per i nostri figli cerchiamo non più un'istruzione uguale per tutti, ma scuole che valorizzino il profilo individuale, i talenti, l'unicità e la singolarità di ciascuno dei nostri rampolli. 


Il nuovo libro della filosofa Francesca Rigotti si intitola L'era dei singoli, è da poco uscito per Einaudi e si presenta come una densa riflessione sociale e politica che interroga anche gli insegnanti, posti di fronte a richieste sempre più personalizzate, ritagliate sulle preferenze di "singoli" che reclamano una propria visibilità e riconoscibilità.  

Sembrerebbe una tendenza recente del consumo culturale, che "democratizza" la ricerca borghese di "distinzione". Scopriamo che si tratta invece di un movimento più profondo, che ha a che vedere con l'evoluzione del concetto moderno di individuo (inteso come titolare di diritti e doveri) e con la dissoluzione delle classi sociali.   

Oggi conta più la difesa della propria identità personale e del proprio diritto alla felicità individuale rispetto al senso del dovere e di responsabilità nei confronti della comunità. Alla comunità più larga si sostituiscono semmai "bolle sempre più piccole e impermeabili a informazioni che non rafforzino le convinzioni di chi ne fa parte" - come ha scritto Pietro Del Soldà nella sua recensione al libro (La Domenica del Sole 24ore, 2 gennaio 2022). Con un risultato solo apparentemente paradossale: la ricerca spasmodica dell'unicità porta a un processo di omologazione tanto più pervasivo quanto più è nascosto "dall'aumento delle opzioni e dalla frammentazione degli stili di vita".

Prendiamo i nomi di persona: la prima parola con cui ciascuno di noi acquista familiarità e sulla quale pone le basi per fare le prime ipotesi sulla consistenza fonica e sulla traduzione grafica della lingua parlata. La ricerca di originalità da parte dei genitori porta a cavalcare "ondate" onomastiche che mettono sotto i nostri occhi classi di Giulie, di Martine, di Sofie, di Ginevre, di Matildi e di Emme. Ciascuna dotata di un corpo unico, la cui singolarità sarà sottolineata da tatuaggi e piercing, e comunque (ri)modellabile in base al proprio desiderio grazie a fitness, moda e ritocco (chirurgico o fotografico). Ciascuna spinta verso una definizione sempre più precoce dei propri gusti in termini di cibo, musica, arte, viaggi, lingue straniere. Gusti assecondati e alimentati da proposte di consumo ritagliate sulle proprie preferenze, grazie agli algoritmi che regolano la nostra vita iperconnessa.   

Tutta la nuova educazione tardomoderna è un programma di singolarizzazione del ragazzo basato sulla sua autorealizzazione e sull'investimento dei genitori nei confronti del suo status. E se i test PISA controllano e assicurano (si spera) una soglia di competenza verso il basso, la scuola accoglie ed esalta dove può il singolarismo dei genitori: non si mandano più i bambini alla scuola più vicina [...]; si mandano alla scuola che meglio sviluppa la personalità individuale dei pargoli, i loro talenti e le loro vocazioni. Non più la scuola di quartiere, ma la scuola di eccellenza. (p. 82 s.)    


Ovviamente, questo atteggiamento parentale non è senza conseguenze sulla vita dei figli, sottoposti a una  pressione continua per la valutazione e a una sorta di selezione permanente che dal mercato del lavoro si è trasferita alle esperienze scolastiche e alle relazioni personali.

Ne risente, giocoforza, anche la professionalità dell'insegnante, che come individuo è chiamato a far fronte a tante richieste sempre più pressanti di éveil ed épanouissement dei piccoli prima, poi di agency e di empowerment personale degli scolari, infine di "customizzazione" dei percorsi formativi degli studenti ed esami on demand.

Eppure proprio a scuola si gioca la scommessa: è qui che possiamo continuare a tessere quei legami necessari (di socialità autentica) che sono il collante tra esistenze singole e singolari - come suggerisce il coniatore del termine singolarismo, il sociologo franco-peruviano Danilo Martuccelli

E' nelle classi che possiamo provare a costruire un'alleanza tra istanze di uguaglianza e singolarismo, che possiamo insegnare a bilanciare ciò che è dovuto a noi con ciò che dobbiamo agli altri. Iniziando dalla lingua che parliamo e che "esercita una meravigliosa autorità con la sua combinazione di regole e scelte, dove la libertà di queste con la migliore conoscenza di quelle" (Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg & Sellier, 2013).

Buona lettura!

N.B.: Un'ampia e approfondita recensione del libro, scritta da Mauro Portello, è stata pubblicata su doppiozero.

 «la lingua che parliamo esercita una meravigliosa forma di autorità con la sua combinazione di regole e scelte, dove la libertà di queste c