Questa volta mi riprometto di essere breve. Prendo spunto da una conversazione con una collega ricercatrice in pedagogia interculturale, Ivana Bolognesi. Parlando di una ricerca che sta conducendo (osservando bambini bilingui alle prese con i compiti a casa), mi racconta di una bambina in particolare, sempre andata bene a scuola, che, arrivata alla fine del ciclo elementare, inizia ad avere alcune difficoltà.
Una delle difficoltà osservate riguarda la comprensione del testo di un problema di matematica: la bambina faticava a capire il significato della parola ogni presente nella consegna. Ora, la stessa bambina, messa di fronte a un breve testo narrativo in cui era presente la parola ogni, non solo non aveva difficoltà di comprensione, ma la classificava correttamente come "aggettivo indefinito". Eppure, quella parola conosciuta diventava improvvisamente opaca all'interno di un testo disciplinare, come se questo fosse scritto in un'altra lingua. In effetti, nel problema la parola ogni, pur mantenendo la sua funzione (determinare il nome) e la sua posizione tipica (davanti al nome), è associata a un "comando", e più in particolare a una operazione algebrica da eseguire: moltiplicazione (es. ci sono 3 scatole; devi mettere 6 uova in ogni scatola: quante uova ti servono?) o divisione (es. hai 18 uova e vuoi sistemarle in 3 scatole; quante uova metterai in ogni scatola?), a seconda del contesto.
Allora: dov'è il problema?
Il problema è nel modo frettoloso e tassonomico con cui - durante l'ora di grammatica - vengono liquidate parole importanti che funzionano come operatori logici. Una parola come ogni meriterebbe molte riflessioni: perché - come mostra il problema di matematica - di "indefinito" ha in realtà ben poco: si tratta di un quantificatore, alla stregua dei numerali, ma più debole, perché si presta a indicare quantità variabili. Un "aggettivo quantitativo non numerale", potremmo definirlo (per evitare termini troppo tecnici), come scriveva Maria Montessori:
A seconda del testo e del contesto, l'espressione "ogni scatola" indicherà un numero diverso di scatole, bambini ecc. (tutti nomi numerabili!), ma sempre considerate nella loro totalità e in senso distribuzionale. Potremmo dire anche "tutte le scatole", che è un'espressione equivalente, ma in questo caso le considereremmo nel loro insieme, e non una per una.
Attraverso questo confronto abbiamo scoperto una caratteristica importante che distingue tutti da ogni: in entrambi i casi abbiamo a che fare con parole che indicano pluralità, ma nel secondo caso si tratta di un plurale distributivo...
Se continuiamo a osservare le due espressioni equivalenti a caccia di differenze, ci rendiamo conto che ogni sarà pure un aggettivo come ci insegna la grammatica (anzi, è senz'altro un aggettivo, perché se vuole diventare un pronome deve fondersi con uno: ognuno), ma è un aggettivo assai "singolare", perché non cambia forma, si usa solo con nomi singolari e basta da solo a determinare il nome (non serve che ci mettiamo anche l'articolo davanti: ogni scatola funziona benissimo).
Anche tutti è un aggettivo molto particolare: ha 4 forme come la maggior parte degli aggettivi (tutta, tutto, tutti, tutte), ma al singolare indica la totalità di una massa (es. tutta la classe), mentre al plurale indica una pluralità di individui (tutti i bambini). E poi ha un'altra stranezza: da solo non riesce a far funzionare il nome nella frase: ha bisogno di un articolo; solo che l'articolo si mette dopo l'aggettivo: diciamo le scatole rosse, (le) tante scatole, ma tutte le scatole!
Eppure, se apriamo i libri delle elementari alla voce "aggettivo", cosa troviamo? Inutili tassonomie che invitano a memorizzare forme ed etichette: qualificativo, indefinito, dimostrativo, numerale, possessivo... tutti messi sullo stesso piano, senza alcun riferimento al fatto che un conto è "qualificare" (peraltro gli aggettivi qualificativi in italiano possono mettersi sia dopo e sia prima del nome) e un conto è "quantificare" (operazione assai complessa, che si può fare in molti modi, e che coinvolge parole diverse tra di loro...), e un conto ancora è "indicare col dito" (come fanno, in modi diversi, i possessivi e i dimostrativi).
Anche per queste ultime parole, che cambiano di continuo il riferimento (mio è di chi lo dice, questo è vicino alla persona che parla ecc.), è molto utile lavorare con i "comandi", azioni che mettono in movimento i bambini insieme con le categorie grammaticali, come insegnava nel secolo scorso Maria Montessori, che suggeriva di far correre i bambini da un angolo all'altro della stanza per trovare di volta in volta "questo" o "quello".
Guardando i disegni inediti della grande pedagogista contenuti nella sua Psicogrammatica (un dattiloscritto inedito che sta per uscire in libreria, per i tipi di Franco Angeli, annotato e introdotto da cura di Grazia Honegger Fresco e Clara Tornar) mi accorgo di quanta sapienza educativa siamo riusciti a dissipare in anni di conformismo grammaticale.
Avevo già parlato, in un vecchio post, delle scatole montessoriane utilizzate per la grammatica. Ora abbiamo a disposizione le riflessioni che hanno ispirato quei materiali, sperando che diventino "lettera viva".
Del resto, la strada era stata indicata, anche più recentemente: non solo nel contesto dei cosiddetti "metodi globali" (la Psico-grammatica di Montessori si inserisce in un percorso olistico, che comprende anche la Psico-aritmetica, la Psico-geometria, la Psico-musica) ma anche nell'ambito dei "metodi analitici", quando riescono a far dialogare tra loro i saperi disciplinari: come nella memorabile esperienza di collaborazione tra la linguista Maria Luisa Altieri Biagi e il matematico Francesco Speranza, da cui nacque il volume Oggetto, parola, numero. Itinerario didattico per gli insegnanti del primo ciclo (Bologna, Nicola Milano, 1981).
Molto è stato già fatto, molto si sta facendo, molto rimane ancora da fare.
Basterebbe poco (o tanto): impegnarsi (e divertirsi) a osservare la lingua come piccoli scienziati, anziché correre dietro alle etichette grammaticali (pronte a volar via come farfalle).
Capiremmo e faremmo capire meglio la nostra lingua e i saperi che con le parole costruiamo.
Perché, come ricordava Albert Einstein, "Nessun matematico pensa per formule".
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