venerdì 2 ottobre 2020

Penso di essere un verbo (Magris e Sebeok in dialogo)


Nel suo ultimo libro, Croce del sud. Tre vite vere e improbabili (Mondadori, 2020, p. 36 s.), Claudio Magris scrive:

Come ogni lingua, ma con intensità particolare, quella araucana si raccoglie, si agglutina intorno al verbo, si avvolge nella sua "selva intricata", in un groviglio di forme, parole e soprattutto di tempi verbali, non dissimile da quello della giungla. La lingua sembra essere non soltanto e forse non tanto l'espressione del vissuto quanto il vissuto stesso. 

Intervistato da Paolo Di Paolo per La lingua batte (27 settembre), Magris precisa che "la lingua in noi è quella parte che dà valore o rifiuta o ama o rigetta la vita che noi stiamo facendo [...] e il verbo certamente in una lingua è la componente per eccellenza che può dire l'esistenza di tutta una vita".

Mi piace accostare a questa affermazione quella del semiologo Thomas A. Sebeok, che nel saggio Penso di essere un verbo (Sellerio, 1990) riprende la frase scritta da Ulysses S. Grant, 18mo presidente degli Stati Uniti, poco prima di morire (1885): "io penso di essere un verbo e non un pronome personale. Un verbo è qualsiasi cosa che significhi essere, fare o soffrire". 


Se il pronome personale è pronto a designare chiunque se ne impadronisca, il verbo appare a Sebeok un "segno vitale" in grado di condensare il senso di un'esistenza. 

Il semiologo fa notare la quasi contemporaneità della frase di Grant con un'altra celebre affermazione "finale": quella di Ch. S. Peirce per cui "l'uomo è un segno" (1905 ca.). 

Sebeok cita anche questo libro, di pochi anni precedente il suo (1970): "una sorta di pastiche con illustrazioni", opera di un pensatore originale (Fuller), che identifica la propria energia creativa con quella del verbo: 




Pensarci come pronomi ci pone come segni vuoti (io è chiunque prenda la parola). Pensarci come nomi (per esempio scrivente, lettrice) ci reifica e, nel dare una forma precisa alle nostre ambizioni, ci blocca in un'istantanea. Pensarci come verbi (scrivo, leggo) restituisce alla nostra esistenza la sua mobilità e imprevedibilità.  

Scrive Alice Ceresa alla voce Grammatica del suo Piccolo dizionario dell'ineguaglianza femminile (Nottetempo, 2020):

Le parole non si possono usare liberamente e secondo ispirazioni personali, né a questo modo interpretare; bensì esse rappresentano frammenti concettuali prestabiliti e convenzionali che ai popoli vengono faticosamente insegnati nella prima infanzia, insieme con i rudimenti appunto grammaticali che ne permettono l'estensiva e corretta combinazione significante per le mille circostanze della vita e delle morte.  

Già, perché con i nomi e i pronomi, in italiano, la scelta si impone: i nomi vanno declinati (al singolare o al plurale, tenuto conto del loro genere intrinseco o di quello del referente nel caso dei nomi mobili), i pronomi prevedono un paradigma complesso (che prevede distinzioni di persona, numero, genere, caso, umano/non umano, tonico/atono), ma i verbi di più, se è vero che li coniughiamo tenendo conto del tempo, del modo, della persona, del numero, in alcuni casi anche del genere del soggetto, dell'aspetto verbale e della diatesi (attiva/passiva). 

Complessità grammaticale e complessità dell'esistere, norme sociali e norme linguistiche (queste ultime si danno sempre insieme alla possibilità della loro violazione), convenzionalità ed emancipazione linguistica. Ne parleremo questa domenica, a La lingua batte. 

Lontano da noi, intanto, il dibattito sul linguaggio inclusivo si muove in direzioni diverse: Noam Chomsky è tra i firmatari della lettera (apparsa su Harper's Magazine il 7 luglio 2020) in difesa del free speech negli Usa (dove è uscito il libro di Suzanne Nossel, Dare to speech). In Francia 32 linguisti hanno firmato una lettera aperta (apparsa su Marianne il 18 settembre 2020) che mette in guardia dai pericoli della scrittura "inclusiva" (posizioni simili a quelle di Nossel, a favore di una "retorica del dissenso" che accolga posizioni contrastanti all'interno del dibattito pubblico, sono state però espresse da Ruth Amossy, analista del discorso di cui è stato recentemente tradotto in italiano il volume Apologie de la polémique. Si veda inoltre questo splendido articolo di Alice Krieg-Planque). 



P.S.: Per sé, Sebeok sceglie il verbo interpretare, a riassumere (e far coincidere) la sua concezione della vita e quella del proprio lavoro. E voi, quale verbo scegliereste?


N.B.: Se volete conoscere meglio Alice Ceresa, potete ascoltare questa bella discussione tra studiose. 




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