venerdì 27 dicembre 2019

Vite insature (sul romanzo di Paolo di Paolo)

Ho letto un romanzo di cui voglio parlare perché ha a che vedere con la (non) saturazione degli argomenti del verbo.
Sia chiaro: non leggo romanzi per farne analisi valenziali. Li leggo per vivere altre "vite che (non) sono la mia". (Perché le storie ci aiutano a vivere, per citare il titolo di un bel libro di Michele Cometa.) Di solito sono loro a scegliermi (è complicato da spiegare, ma i lettori/le lettrici forti sanno cosa voglio dire), solo che questa volta è andata diversamente. L'ho scelto io e l'ho messo in valigia per ragioni (anche) di lavoro.
L'autore, Paolo Di Paolo, ha raccontato ai ragazzi classici della nostra letteratura (Dante, Leopardi). Ha accettato di scrivere la Prefazione a un libro sulla scrittura che ho curato e che uscirà a febbraio. Da gennaio, inoltre, sarà lui la nuova voce del programma radiofonico "La lingua batte".

Ci sono tante buone ragioni per leggere il suo ultimo romanzo, che si chiama Lontano dagli occhi, come la canzone del 1969 di Sergio Endrigo, ma è ambientato nel 1983: l'anno di Vamos a la playa, per dire. L'anno di nascita di Paolo Di Paolo, anche. Due anni dopo, a Milano, nascerà la prima scuola italiana di scrittura "espressiva", condotta per un decennio da Giuseppe Pontiggia (prima che esplodesse il fenomeno delle scuole di scrittura creativa, che tanta parte hanno avuto nella diffusione dello storytelling anche fuori dalle pagine dei libri).
Ma torniamo al romanzo, che ha una storia con tre inizi possibili (quasi il rovescio di Tante storie per giocare di Gianni Rodari, che varia ogni volta i finali) e un unico finale - separato dalla prima parte grazie a una pagina interamente nera
Scritto con una sintassi spezzata e una retorica avvolgente, che sembra mimare il movimento del fasciare, abbracciare, cullare: ciò che è mancato in quella pagina - della storia come della vita. Perché Lontano dagli occhi racconta la storia di un abbandono, di una o più fughe dei personaggi (dalla maternità/paternità), di una rincorsa dell'io narrante (verso ciò che ci accomuna, tutte e tutti: l'essere e il potersi dire figli/e).


Capita così (e non a caso) di incontrare tra le pagine frasi interrotte (p. 62):
Devi convincerti di. 

O frammentate attraverso gli spezzoni di un ipotetico dialogo (p. 80):

Lui gli direbbe: c'è una ragazza che dice.
Che dice cosa?
Che è rimasta incinta.
Di te?
Di me, sì.

Oppure frasi sospese, in cui sta all'interlocutore (e al lettore, che si vuole cooperante) completare il verbo reggente con una frase (p. 95):
Io non credevo, io non immaginavo, io non volevo. (p. 95) 
È sicura? Ha deciso? (p. 161)

Il perché ce lo spiega l'autore a p. 176:
capita di  fermarsi a pensare alla vita dei nostri genitori prima di noi... Come stava andando. Come poteva andare. Se lui non avesse. Se lei non fosse.  

Ma sul senso di questo interrogarsi ci aveva già messo in guardia a p. 15:
Sempre che abbia senso la domanda. Sempre che abbia senso la storia fatta coi se.

Resta l'umano bisogno di capire da dove veniamo, e lo straordinario potere della letteratura di dare forma (e risposte possibili) a verità altrimenti inaccessibili, agli occhi come al cuore. 

Buona lettura!

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