lunedì 14 gennaio 2019

Il potere dell'alunno (intorno a un libro di Philippe Meirieu)



Qualche post fa ho cercato di disegnare, sulla scorta di un libro del filosofo Jacques Rancière, un profilo dell'insegnante che fatica ad abdicare alla propria autorità, ad abbandonare la postura verticale del correttore e sanzionatore, a posare sullo studente uno sguardo non clinico, non cinico.
Questa volta vorrei raccontarvi di una lettura che mi ha portata a riflettere sul potere di chi apprende: si tratta di un volumetto intitolato Il piacere di apprendere, scritto da un pedagogista d'eccezione, Philippe Meirieu, pubblicato da Lisciani editore con la traduzione dal francese di Christine Cavallari e un'Introduzione di Carlo Petracca (dal quale ho avuto il libro in dono).
È l'alunno che detiene il potere, poiché nulla lo può costringere a mobilitarsi sui saperi, per importanti e attraenti che siano. È l'alunno che detiene il potere, poiché se i saperi sono a lui preesistenti, è lui che nei suoi apprendimenti e nel suo sviluppo preesiste rispetto ai saperi. È la sua attenzione che è necessaria, il suo impegno che è richiesto, il suo studio che, solo, può farlo progredire.
Quante volte ci dimentichiamo di questa verità semplice, pretendendo che l'alunno mobiliti la sua intelligenza e creatività a comando, pronto a entrare in un contesto educativo appositamente predisposto da adulti forti del loro sapere, saper essere, saper fare.
Ma nessun insegnante può imporre il proprio insegnamento se non c'è nell'alunno la volontà e il desiderio di imparare. Il "piacere di apprendere" nasce appunto dall'incontro tra la determinazione dell'insegnante nel trasmettere i saperi necessari per l'emancipazione dell'alunno e la disponibilità dell'alunno ad accogliere la fatica di apprendere (attività che ha costi temporali, psichici, economici, ed è cosa diversa dal semplice sapere).
Perché questo incontro avvenga è necessario che, da una parte e dall'altra, si superi quello che Meirieu definisce utilitarismo scolastico: un'ideologia di mercato dominante in campo sociale, diffusa anche nelle scuole, per cui conta solo ciò che ha un valore immediatamente spendibile.
L'utilizzo incantatore del termine competenza nei programmi scolastici indica, a questo riguardo, l'incapacità della scuola di mobilitare gli allievi sulle vere sfide culturali, a vantaggio dei criteri della semplice occupabilità: non si insegna niente se non ciò che è utilizzabile e che è funzionale a uno scopo. 
Questo è solo uno degli esempi della critica ai luoghi comuni della pedagogia e della didattica (la tradizione francese non fa distinzione tra i due concetti) cui Meirieu ha dedicato uno splendido libro uscito lo scorso anno per Aracne: Pedagogia: dai luoghi comuni ai concetti chiave (che ho ricevuto in dono da Silvana Loiero). Qui, ripercorrendo la storia del pensiero pedagogico, Meirieu sviscera concetti diventati slogan, dietro i quali si cela una complessità intrinseca (non scevra da contraddizioni): la "motivazione", per esempio, o le "metodologie attive" ritenute ineludibili per coinvolgere alunni sempre più svogliati e indisciplinati. Come le cancre, la peste, ritratto nella poesia omonima di Jacques Prévert (da Paroles):

Il dit non avec la tête
mais il dit oui avec le coeur
il dit oui à ce qu’il aime
il dit non au professeur
il est debout
on le questionne
et tous les problèmes sont posés
soudain le fou rire le prend
et il efface tout
les chiffres et les mots
les dates et les noms
les phrases et les pièges
et malgré les menaces du maître
sous les huées des enfants prodiges
avec les craies de toutes les couleurs
sur le tableau noir du malheur
il dessine le visage du bonheur.


Chi è questo alunno svogliato? Non riesce perché non è motivato? Oppure è vero il contrario: non è motivato perché non è mai riuscito (e la sfacciataggine esibita non è altro che una strategia di difesa per evitare l'umiliazione dello scacco)? "In classe niente immobilizza di più dell'insucesso" - ricorda Meirieu, che ci  invita a guardare all'apprendimento come a un processo che non deve eliminare la libertà e la soggettività dell'alunno, ma accoglierla; che deve invitare tutti e ciascuno a "scoprire l'orgoglio di riuscire e il piacere di superarsi".

Quello che Meirieu ci consegna è il ritratto di un docente che riesce a mantenere uno sguardo incoraggiante e valorizzante; che non solo riesce a suscitare interesse, ma trasmette il piacere del conoscere, la fatica e la gioia del pensare. Un insegnante che non si accontenta di formule vuote, non si libera del peso del rigore istituzionale, non è preda dell'ossessione valutativa, non cede alla tentazione di svuotare i saperi disciplinari (sui quali si fonda la sua competenza) in nome della didattica per competenze. Al contrario, ha l'umiltà di porsi a fianco dell'allievo, nella posizione non di chi detiene saperi incontrovertibili, ma di chi apprende mentre insegna:
Perché insegnare è un mestiere strano: la padronanza delle conoscenze deve permettere di mettersi al posto di coloro che le devono acquisire. Meglio ancora: di rifare il cammino con ognuno degli alunni. 

Per far ciò, per offrire il piacere di apprendere, "bisogna prendere piacere dal prendere. Dal prendere il mondo e la cultura di petto". Prendere per donare, senza impoverirsi né impoverire.
Non è da tutti, certo. Ma Meirieu dà qualche suggerimento applicabile anche dai più inamovibili: passare dalla domanda "a che cosa serve?" alla domanda "come funziona?" - che poi è un modo per non consegnarsi alle logiche neoliberiste senza per questo rifugiarsi nel passato.

Anche nell'ambito della grammatica è possibile mettere in atto quella che lui chiama pedagogia del capolavoro, prendendo spunto dalle pratiche delle botteghe medievali.

Sulla stregua dei bozzetti che realizzavano gli apprendisti come esito del loro percorso iniziatico, ogni attività di apprendimento che noi proponiamo ai bambini o agli adolescenti dovrà loro permettere, nello stesso tempo, di appropriarsi delle conoscenze trasmesse dalle generazioni precedenti e di metterle alla prova con un atto di creazione personale.
Prove autentiche e guidate, dunque, al posto dei "compiti di realtà" (che dopodomani saranno superati da una realtà in continuo cambiamento). Felici miniaturizzazioni che diventano testimonianze del pensiero in azione; comprensione del modello che diventa ri-creazione personale: i grafici radiali, a ben vedere, servono proprio a questo.

Il metodo di Meirieu è applicabile non solo alla lingua, ma alle opere prodotte in una certa lingua. Una forma di accesso nuovo alla tradizione, così lontano dagli esercizi standardizzati imperanti, fatto di incontri significativi con prodotti della cultura modellati da altri uomini, da altre donne.
Un metodo che si traduce inoltre in pratiche di scrittura nuove e consapevoli, basate sulla precisione e sulla libertà, in cui l'obiettivo diventa "avvicinarsi all'espressione più appropriata e trasformare le costrizioni della lingua in risorse del pensiero".

Felice lettura!
E per chi volesse ascoltare la voce di Meirieu e una sintesi del suo pensiero su educazione e cittadinanza, rimando a questa intervista video realizzata da Enrico Maria Bottero per Rai Scuola.


P.S.: In prossimità della giornata della memoria, mi piace ricordare la vicinanza di Meirieu alla figura di un grande educatore, il polacco Janusz Korczak (1878-1942), pioniere dei diritti dell'infanzia nell'Europa dei nazionalismi e dei fascismi, convinto sostenitore dell'importanza di rispettare e coinvolgere i bambini nel processo educativo. Al racconto della sua straordinaria avventura umana sono dedicati due bellissimi libri illustrati usciti di recente: Korczak. Perché vivano i bambini (testi di Philippe Meirieu, illustrazioni di Pef, edizioni Junior, 2014) e Il mio maestro Janusz Korczak (testo e disegni di Itzchak Belfer, Gallucci, 2019). A questi si aggiunge L'ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini, di Irène Cohen-Janca (Orecchio acerbo, 2015). Per chi volesse saperne di più, rimando a questo mio articolo.     

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