Le parti del discorso, unitesi a convegno
a dibattere e discutere si misero d'impegno
quale tra loro nove fosse la più importante,
quella che in un discorso era determinante.
Ognuno dice la sua, finché non interviene il verbo a chiarire:
... senza di me son guai:
la frase senza di me non funziona mai".
Almeno quando il verbo ha un significato 'forte' (ovvero è predicativo, e non copulativo, ausiliare, modale o di supporto) ed è coniugato in una forma finita del verbo (cioè in uno qualsiasi dei modi ,a parte l'infinito e participio passato).
Perché in ogni frase succede qualcosa, e chi dà il canovaccio dell'azione o dell'evento da mettere in scena è il verbo. A seconda del suo significato, il verbo chiamerà in scena uno o più protagonisti (nomi o sostituti del nome) pronti a occupare le diverse posizioni sul palco e a ricoprire i diversi ruoli previsti dal regista, vestendo i panni appropriati.
Eppure c'è chi ha voluto dimostrare che ribellarsi contro il tiranno è possibile. Almeno nella letteratura sperimentale di tradizione francese che, dall'Oulipo in poi, si misura con giochi verbali e contraintes strutturali.
E questa la traduzione proposta da Marco Fulvio Barozzi:
La narrazione prosegue sottoforma di flusso di pensieri, in un "presente assoluto" che giustappone immagini, ricordi, riflessioni, in una lingua mescidata che fa largo uso di espressioni idiomatiche, frasi gergali, neoformazioni, giochi di parole. E giustappone enunciati, cioè espressioni che funzionano come messaggi anche se non sono costruiti come una frase-modello.
Lo scrittore, nel celebrare il funerale del verbo, esplicita così la sua avversione per questa "parte del discorso":
Ma in un'epoca di 'presentismo', vale la pena rinunciare allo strumento principe che ci permette (come aveva già intuito Aristotele) di esprimere il tempo, di vedere i fatti in prospettiva, di modulare i nostri atti di parola? O forse vale la pena continuare a gestire la più complessa delle parole (ciascun verbo ha un paradigma di oltre cento forme), accettando il principio di autorità che regge la frase (per cui i nomi sono 'soggetti' al controllo del verbo o divengono 'oggetti' al suo comando)?
Una volta eliminata la tirannia del verbo, dovremmo comunque affrontare la tirannia dei nomi, che impongono l'ordine e l'accordo ad articoli, aggettivi, participi passati, e tengono sotto scacco anche i pronomi.
Perché non c'è sintassi senza gerarchia.
E così sia.
Perché in ogni frase succede qualcosa, e chi dà il canovaccio dell'azione o dell'evento da mettere in scena è il verbo. A seconda del suo significato, il verbo chiamerà in scena uno o più protagonisti (nomi o sostituti del nome) pronti a occupare le diverse posizioni sul palco e a ricoprire i diversi ruoli previsti dal regista, vestendo i panni appropriati.
Eppure c'è chi ha voluto dimostrare che ribellarsi contro il tiranno è possibile. Almeno nella letteratura sperimentale di tradizione francese che, dall'Oulipo in poi, si misura con giochi verbali e contraintes strutturali.
Michel
Thaler (pseudonimo di Michel Dansel) ha intentato una lotta contro il presunto "invasore, dittatore e usurpatore della nostra letteratura” scrivendo un intero romanzo di 233 pagine senza verbi che non siano participi passati (ovvero le forme nominali del verbo): Le Train de Nulle Part (Il treno da nessun dove). Il libro è stato pubblicato nel 2004 per i tipi di Adcan Editions, e in una nuova edizione nel 2014, per les Editions du Net).
Questo l'incipit:
Questo l'incipit:
Quelle aubaine ! Une place de libre, ou presque, dans ce compartiment. Une escale provisoire, pourquoi pas ! Donc, ma nouvelle adresse dans ce train de nulle part : voiture 12, 3ème compartiment dans le sens de la marche. Encore une fois, pourquoi pas ?
E questa la traduzione proposta da Marco Fulvio Barozzi:
Che pacchia! Un posto libero, o quasi, in questo scompartimento. Una sosta provvisoria, perché no! Allora, il mio nuovo indirizzo su questo treno da nessun dove: vettura 12, 3° scompartimento nel senso di marcia. Ancora una volta, perché no?
La narrazione prosegue sottoforma di flusso di pensieri, in un "presente assoluto" che giustappone immagini, ricordi, riflessioni, in una lingua mescidata che fa largo uso di espressioni idiomatiche, frasi gergali, neoformazioni, giochi di parole. E giustappone enunciati, cioè espressioni che funzionano come messaggi anche se non sono costruiti come una frase-modello.
Lo scrittore, nel celebrare il funerale del verbo, esplicita così la sua avversione per questa "parte del discorso":
Il verbo è come l’erbaccia in un campo di fiori. Devi sbarazzartene per consentire ai fiori di crescere e sbocciare. Eliminate i verbi ed il linguaggio parlerà da solo.Parlerà, certo. Come parlano i titoli dei libri e dei giornali, esempi tipici di "stile nominale".
Ma in un'epoca di 'presentismo', vale la pena rinunciare allo strumento principe che ci permette (come aveva già intuito Aristotele) di esprimere il tempo, di vedere i fatti in prospettiva, di modulare i nostri atti di parola? O forse vale la pena continuare a gestire la più complessa delle parole (ciascun verbo ha un paradigma di oltre cento forme), accettando il principio di autorità che regge la frase (per cui i nomi sono 'soggetti' al controllo del verbo o divengono 'oggetti' al suo comando)?
Una volta eliminata la tirannia del verbo, dovremmo comunque affrontare la tirannia dei nomi, che impongono l'ordine e l'accordo ad articoli, aggettivi, participi passati, e tengono sotto scacco anche i pronomi.
Perché non c'è sintassi senza gerarchia.
E così sia.
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