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mercoledì 16 febbraio 2022

A chi indarno adorò Adorno (risposta a Minima&moralia)

Il 9 febbraio 2022 è uscito sul Portale della lingua Treccani un mio pezzo, intitolato L'emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata, che riprende e amplia i contenuti di un post apparso su questo blog il 9 luglio 2021: 10 tesi per una lingua democratica rispettosa del genere. La prospettiva è quella che conosce chi frequenta questo blog: offrire all'insegnante strumenti aggiornati per pensare la grammatica.

 

La concomitanza con una petizione lanciata pochi giorni prima su Change.org da un altro linguista ha creato un clima di contrapposizione. Due polemisti si sono sentiti in dovere di rispondere, mettendo insieme la petizione (un testo breve dai toni aggressivi che riprendeva un post FB del promotore) e il mio articolo, lungo e argomentato, in un compiaciuto esercizio di decostruzione intitolato "Perché la petizione promossa da Massimo Arcangeli è una schifezza e perché nemmeno l'articolo di Cristiana De Santis sullo schwa è convincente".

Premesso che il mio pezzo era solo una parte di un articolo più corposo, corredato di ampia bibliografia (Emancipazione grammaticale, grammatica ragionata e cambiamento linguistico, uscito sullo Speciale Lingua italiana Treccani del 21 marzo 2022), e che il pezzo dei polemisti rivela fin dalla forma linguistica la postura di chi ha fretta di parlare per mettere a tacere l'altro (risistemando alla bell'e peggio post scomposti usciti su FB: vale la pena leggerli, anche come esercizio di critica del testo ai fini delle attribuzioni), quella che segue è la mia risposta.



A chi indarno adorò Adorno

di Cristiana De Santis

(da far circolare liberamente tra persone che hanno a cuore il dibattito democratico)

Leggo con interesse che un mio pezzo – scritto e meditato per oltre un mese e nato, prima ancora che da una proposta del Portale Treccani, dalle riflessioni fatte in molte occasioni con studenti e militanti, oltre che dai confronti con altri studiosi – diventa il bersaglio di una sarcastica “decostruzione” fatta nel corso di una notte e apparsa prima – con toni violenti e a firma di un’unica autrice – su una rete sociale e poi – dopo una veloce operazione di maquillage che potesse renderla socialmente accettabile – su una rivista online a beneficio di un pubblico più ampio di cui si vogliono rafforzare le convinzioni e l’impermeabilità al dubbio.

Non rispondo alla prima parte dell’articolo, che si applica a una petizione che io non ho firmato e alla quale sono stata associata in base a una strategia tipica del populismo linguistico e del discorso iperpolemico, che nell’analisi del discorso è chiamata “amalgama”: si mettono in uno stesso calderone posizioni diverse per poter costruire un contro-discorso capace di risvegliare performativamente un pathos negativo in chi legge o ascolta, allo scopo di provocarne l’indignazione e suscitarne il risentimento. Un testo nato prima di un altro non ne corrobora né ne mitiga le tesi: al più rientra nello stesso universo discorsivo, non necessariamente con lo stesso posizionamento (ma il posizionamento evidentemente è un feticcio di cui si richiama la necessità solo quando se ne può reclamare la mancanza). Che poi il pensiero originale di una donna venga automaticamente ricondotto a quello di uomini più visibili e potenti è una spia di quanto l'ordine patriarcale sia incistato anche nelle menti che si pensano più libere.

Segnalo comunque – en passant – la presenza di pseudo-argomenti ricorrenti nel discorso di molti paladini delle soluzioni gender-fair di cui si dibatte: 

- sono solo sperimentazioni (non sarebbe più onesto parlare di pratiche che sostanziano un’ideologia linguistica? - Althusser docet)

- ci limitiamo a studiare e descrivere il fenomeno (qui entra il campo il paradosso dell’osservatore, opportun(istic)amente mescolato alla postura profetica della vox clamans e all'attitudine dell'inquisitore e giustiziere, a seconda dei contesti)

- non pensiamo che possa essere applicato sistematicamente. Cioè nei diversi domini sociolinguistici? (Su questo siamo d'accordo: un post su FB è altro rispetto a un atto ministeriale redatto da un pubblico ufficiale) oppure all'interno di un testo? (e in questo caso chi stabilisce quando sì e quando no, e con quali criteri? le norme tipografiche decise a tavolino da una casa editrice militante o diffuse da un sito?)

- alla fine saranno i parlanti a decidere (i parlanti, appunto, che hanno diritto di reagire a ciò che contraddice i propri giudizi di grammaticalità, a prescindere dalla pervasività di certi usi scritti e dai pareri di esperti più e meno autorevoli: acclarati o semplicemente acclamati come tali).


(c) per gentile concessione di Cecilia Campironi (www.ceciliacampironi.com)

Vengo al cuore della parte che affronta il mio testo, che subito denuncia l’incapacità di riconoscere l’ironia (che è cosa diversa dal sarcasmo) di chi, per entrare in un universo altro dal discorso accademico, adotta e adatta certe strategie discorsive (il posizionamento, appunto). L’amalgama torna subito alla carica: il concetto di grammatica “ragionevole” o “ragionata” (che allude alla tradizione che risale a Port-Royal, ha una storia ricca nella grammaticografia europea, e che ispira le riflessioni di questo blog oltre che le mie pubblicazioni scientifiche) è mescolato con la distinzione tra norma e uso (che ha una storia più recente, risalente alla seconda metà del secolo scorso), a quella tra regole descrittive e prescrittive e ad altri concetti che – se noti – ci mettono in grado di sfumare e problematizzare lo studio della lingua intesa sia come sistema sia come insieme di realizzazioni all’interno di uno spazio sociale.

Qui si nota anche la tendenza a delegittimare il discorso altrui sovrapponendo all’accezione tecnica quella comune di un termine: come più sopra non si coglieva il riferimento alla “deriva linguistica” (che non è un seguire rovinosamente il corso degli eventi, ma una modalità tipica del cambiamento delle lingue), qui si usa il termine ragionevole (una grammatica ragionevole è una grammatica filosofica), opponendolo a irragionevole (anziché a tassonomico).

Veniamo all’emancipazione, che una presupposizione (basata sulla non conoscenza dei lavori citati da chi scrive, nonché da quelli di chi scrive, non citati per eleganza) aggancia comodamente alla conoscenza del funzionamento della lingua standard, anziché (come nella tradizione filosofica riportata in auge dal filosofo francese Jacques Rancière) a una pratica antiautoritaria dell’insegnamento linguistico che si basa sulla competenza spontanea di ogni parlante – pratica che richiede una faticosa decostruzione del sapere grammaticale ricevuto, oggi resa possibile dagli strumenti della linguistica moderna (cito qui uno strumento agile dal nome parlante: Nuova grammatica dell'italiano adulto di Vittorio Coletti). 

Ma sarebbe bastata la conoscenza delle Postille di Gramsci a Panzini, facilmente reperibili in rete e meno onerose della lettura di prima mano di un intero Quaderno dal carcere, a illuminare quell'aggettivo: ragionevole. Su questo punto vado rapida perché l’accusa di “ridurre a paternalismo la prospettiva gramsciana” tradisce una falsa coscienza alla quale una meditazione più pacata avrebbe forse giovato, insinuando qualche ragionevole (sic) dubbio nel mare di tante e assolute certezze. Ma dubitare prima di parlare, e tacere all’occorrenza, è quello che si pretende solo dagli altri, evidentemente.

Segnalo giusto l’anacronismo del termine subalterni, usato per respingere come anacronistica una visione che sostanzia ancora l’impegno politico di una certa sinistra attenta alle strutture oltre che alle sovrastrutture.

Il testo furbescamente sorvola sulla natura di alcuni “utili chiarimenti” offerti dal mio intervento: si tratta in effetti di argomenti stringenti che mettono in luce la debolezza linguistica di proposte lanciate e propagandate nella misconoscenza o nello sprezzo dei principi basilari che governano il sistema di una lingua (la distinzione simbolo/indice/icona, grafema/fonema/morfema, le regole di funzionamento di un suono come la vocale indistinta nelle lingue e dialetti che lo possiedono, le regole morfologiche dell’italiano). Sistema entro il quale le parole devono inserirsi, che ci piaccia o no. Per un ripasso consiglio questo.

La grammatica non è rispettata quando si decide arbitrariamente di modificare le regole di derivazione delle parole (lettore non è una parola composta da radice e desinenza, ma da radice, suffisso -tor(e) e desinenza); ancor prima, la grammatica non è rispettata quando si decide arbitrariamente di aggiungere alla lingua un suono che non ha la capacità di distinguere parole e tantomeno può funzionare come marca di flessione. 

L’eufonia che viene sbeffeggiata non è una prerogativa della lingua del bel canto: è un fenomeno della fonetica soprasegmentale che regola l’incontro tra parole (in altre lingue si chiamerebbe liaison) e non ha niente a che vedere con i giudizi del tipo “suona bene/suona male” (mi piace/ non mi piace) che provengono dal sentimento linguistico dei parlanti e si applicano tipicamente ai neologismi (come al “minchiarimento” che segnalo agli amici lessicografi come possibile traduzione dell’inglese mansplaining, pratica in cui uno degli autori qui si produce).

Quanto al nuovo pronome neutro, nella versione lunga dell’articolo si spiega la complessità intrinseca del sistema pronominale italiano, cui non basta un pronome schwaizzato (peraltro foneticamente inadatto alla funzione che dovrebbe svolgere) a cambiare le regole: bisogna fare i conti con una ricchezza di forme e funzioni (legata alle stratificazioni storiche e ai movimenti di deriva linguistica) la cui conoscenza fa apparire demagogica una proposta come quella azzardata: una scorciatoia, appunto.

La semplicità e il semplicismo alludono all’elusione di una complessità alla quale partecipiamo come parlanti anche senza rendercene conto (la deriva è un fenomeno inconscio, come ha ben spiegato Edward Sapir), ma che è compito della scuola e dell’università insegnare a conoscere e riconoscere.

L’estensione del dominio della lotta giustifica anche le forzature e le banalizzazioni, sia chiaro (ricordate il k delle okkupazioni studentesche? E dire che ci avrebbe fatto tanto comodo quel k nella nostra ortografia!), ma non spacciamole per  proposte linguisticamente fondate per il solo fatto di essere state messe in circolo con un nome tecnico. Ha senso chiamare "schwa" una e rovesciata che non funziona come suono indistinto? Piuttosto, dichiariamo che il termine schwa ha assunto, oltre al significato proprio, un significato nuovo legato a un'ideologia linguistica e alle pratiche dei militanti che vi si riconoscono: quello di grafema che allude genericamente a un "indistinto linguistico" che si vuole mimetico della realtà.

Veniamo al presunto punto debole della mia argomentazione: l’avverbio spontaneamente. Qui è chiaro che la mia prospettiva è di tipo acquisizionale: inutile mettersi a imbastire una lezione sulla differenza tra acquisizione spontanea della lingua parlata e apprendimento guidato della lingua scritta (in questo blog se ne è spesso parlato). Basti solo notare che nessuno dei promotori dello schwa si sottopone alla fatica improba di rinunciare ad applicare la regola nel proprio parlato spontaneo (al di là di qualche esempio episodico di come fare) e anzi glissa abilmente anche nello scritto-scritto (ma si sa che chi si fa le regole da sé stabilisce per sé anche le eccezioni).

La volontà di lotta, poi, giustifica anche il disinteresse verso il modo random (dirò meglio: fuzzy, che in logica si oppone a binario) e incoerente con cui il “simbolino” viene applicato nei testi che ho avuto modo di analizzare, nonché nel documento ministeriale cui fa riferimento la petizione (come ha mostrato Claudio Marazzini in un articolo apparso su Il Mattino, 7 febbraio 2022, "L'italiano sotto assedio tra asterischi e chiocciole"). Rem tene, verba sequentur. Chi tiene le redini, poi, indirizzerà la corsa. Non possono essere mica le Accademie a indirizzare l’uso di parlanti e di scriventi: rischiano ormai di essere linciate sulla pubblica piazza dal primo Marcel che parteggiando viene (e peggio per chi – centinaia di persone ogni giorno – ancora si rivolge a loro per sapere cosa sia corretto/sbagliato prima ancora che corretto/offensivo).

Ma torniamo all’avverbio contestatomi e ai controesempi offerti: quello che chi (parlando al maschile di sé) da bambino sentiva normale (l'epiteto f****o) è un lessema, una parola che possiamo ripetere o decidere di rifiutare proprio perché, crescendo ed educandoci, ne scopriamo la violenza (ma questo dovrebbe valere anche per i tanti disfemismi ferocemente omofobi e sessisti che pervadono il parlato e lo scritto quotidiano, in bocca o sulla tastiera dei paladini del bene, con una spontaneità sulla quale non possono che concordare). Il lessico di una lingua è cosa diversa dalla sua grammatica: su questo vale la pena leggere davvero Wittgenstein (ora liberamente accessibile in rete), invece di ripetere stancamente la sola frase che circoli sui social e sui giornali (“i limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo”).

Quelli che abbiamo introiettato come stereotipi non sono meccanismi grammaticali ma parole e modi di dire (noto per inciso che gli stereotipi sessisti abbondano perfino nelle metafore usate dai due autori). Esistono anche alcuni stereotipi grammaticali tramandati dalla scuola, certo: mi fa sempre sorridere il riflesso educato di chi non scrive a me mi in testi in cui manda a quel paese tutto il mondo tranne che sé. Ma combattere questi stereotipi richiede una conoscenza, un controllo, una capacità di scendere a patti con parti più difficili di sé che, evidentemente, non possiamo dare per scontate neppure in chi dovrebbe insegnare e si vanta di diffondere un approccio critico all’intero scibile ed esistente, quando non si erge a tribuno difensore della scuola democratica.

La comunità dei parlanti è fatta da chi parla una lingua senza costringersi a rispettare le norme di un presunto standard imposto dall’alto o dal basso che sia (bisogna poi intendersi su cosa sia basso e cosa sia alto, oggi), ferma restando la possibilità di alcuni di gruppi di fare proposte la cui sostenibilità verrà poi  valutata e messa alla prova dall'uso nella comunità più ampia.

 












La comunità dei parlanti è fatta da chi, con gradi diversi di padronanza del codice, si inserisce nel flusso della lingua viva e vera, muovendosi tra libertà e costrizione – come ci ha insegnato il geniale precursore della nostra sociolinguistica, Benvenuto Terracini –, tra riconoscimento e sanzione sociale. 

Capirlo aiuterebbe un gruppo di parlanti (che non sono TUTTI i parlanti, per quanto l'algoritmo del web generi e rafforzi in loro tale convinzione) a spiegarsi le altrui resistenze verso lo schwa in modo più raffinato e persuasivo del generico “maschilismo introiettato” (da loro stessi per primi, come abbiamo visto). Intanto, per chi volesse riflettere sull'ossessione hipster per la purezza (anche ortografica), rimando a questo post e a questo per altre riflessioni politiche sull'ortografia.

La comunità dei parlanti è fatta di persone che possono sentirsi esiliate dalla lingua per tanti motivi diversi, che non riguardano solo l’identità di genere; nella comunità rientrano anche persone che scelgono l’italiano come lingua altra per definire la propria identità: questa è la lezione della sociolinguistica  quando si applica alla società vista nella sua stratificazione complessa.

E no, mi dispiace, l’amalgama con chi dice “giù le mani dai bambini” non passa. Perché essere stati bambini non basta a capire come funziona la “grammatica dei bambini ” (oggi c’è chi la studia, per fortuna, e in questo blog se ne parla spesso, anche attraverso le riflessioni di Tullio De Mauro). Ad ascoltare i bambini, attraverso autentici "esperimenti grammaticali", ci sarebbe da imparare anche su queste questioni. Chi lo fa sta arrivando a conclusioni molto simili a quelle del logico Andrea Iacona.  

E poi la lingua cambia, sì, ma come cambia? Normalmente cambia da sé, nella lunga durata. Le proposte di cambiamento che possono venire da singoli o da gruppi hanno possibilità di successo solo se sono isolate (pensiamo alla sigla LGBTQI+, che si è arricchita pure di un simbolo non alfabetico) o se "fanno sistema", cioè se inseriscono nel sistema della lingua senza creare incoerenze (tra scritto e parlato in primis) e senza entrare in conflitto con le regole non negoziabili della lingua.

La contrapposizione tra gruppi è creata da chi polarizza l’attenzione e il dibattito su una minoranza discriminata e attacca con ferocia chiunque (percepito come un fastidioso corpo esterno) voglia allargare il “campo”, lanciando accuse sotto forma di etichette autoritarie (boomer, terf, cherry picking ecc.). Mostrando una incapacità di mediazione linguistica che ci dice molto proprio su quelle "agende sociali e politiche" sulle quali si vorrebbe intervenire, nonché sulle sconfitte prevedibili di chi cerca il muro contro muro. Del resto, la mediazione nasce dalla relazione e ogni relazione autentica richiede fatica – figurarsi le interrelazioni tra gruppi che riescono solo a delegittimarsi vicendevolmente.

Scivolo sulla fine (magari ci tornerò in un secondo momento) perché lavorare stanca (a maggior ragione il doversi obbligare a una excusatio non petita) e io ho già molto riflettuto e scritto sul concetto di autorità (intesa, con Horkheimer, come superiorità riconosciuta), di autoritarismo (molto diffuso nel populismo, anche linguistico), autorevolezza labile conquistata a colpi di like sul web. (Sul sito Academia trovate  quasi tutto: ma sono letture pesanti, vi avverto).

I problemi non sono ben altri, sia inteso: 

- in primo luogo perché siamo di fronte a una richiesta precisa da parte di persone che si sentono discriminate, alle quali abbiamo la responsabilità di dare "pane" e non "pietre", e spiegare che non è la lingua con le sue regole a discriminare e includere (se così fosse, Ungheria e Turchia sarebbero il paradiso dei diritti civili), ma chi la parla con le sue scelte, linguistiche ma non solo. E che non si tratta di opporre una lingua "nostra" a una lingua "loro", ma di capire le ragioni di una lingua comune che sia strumento efficace per comunicare, pensare, cantare, poetare;

- in secondo luogo perché siamo di fronte a una “quistione” linguistica che pone un problema di “egemonia”. Dobbiamo affrontarla forti di tanti studi e diversi, di più e più voci: non rinunciando al confronto, senza paura delle cyberminacce dei profeti del bene, col coraggio di denunciare la “falsa moneta” prima che l’inflazione del conformismo culturale impoverisca la nostra vita riducendola a ben poca causa. Rimanendo umani nel mondo post-umano.

Chiudo con una citazione, che ho avuto modo di leggere a conclusione del mio intervento per “La lingua batte” del 13 febbraio (Perché divide la lingua dell'inclusione): 

ciò cui si deve mirare è una democratizzazione conciliabile con standard di livello alto dove praticare politiche di rispetto e di riconoscimento, che sono le parole d'ordine per uscire dalle logiche del rancore e del risentimento. E per abbassare forse la hybris dei meritevoli autoproclamantisi eccezionali, unici, singolari, singoli (Francesca Rigotti, La società dei singoli, Einaudi, 2020, pp. 129-130).

 

P.S.: A chi volesse volare altrove, sulle ali della letteratura, consiglio la lettura dell'articolo di Tiziano Scarpa uscito su "Il Domani" di mercoledì 16 febbraio: Solo la lingua che ci esclude riesce a produrre saggezza.  

Un libro di poesia al quale sono tornata per trovare conforto da tanta violenza è Valerio Magrelli, Disturbi del sistema binario (Einaudi, 2006), da cui trascrivo questa poesia:

 

Infanzia del lavoro

Guarda questa bambina
che sta imparando a leggere:
tende le labbra, si concentra,
tira su una parola dopo l’altra,
pesca, e la voce fa da canna,
fila, si flette, strappa
guizzanti queste lettere
ora alte nell’aria
luccicanti
al sole della pronuncia.