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sabato 11 dicembre 2021

I libri di cui preferisco (non) parlare

Sono stata sollecitata, da chi aveva letto il mio pezzo sul mastrocolismo, a intervenire sul libro uscito di recente per La Nave di Teseo, firmato dalla coppia Paola Mastrocola e Luca Ricolfi. Ho letto il libro ma non ho trovato argomenti nuovi rispetto a quelli che mi ero già impegnata a decostruire (nuovi sono i dati, che però sono sempre "presi", nel senso che si sceglie quali presentare e come presentarli in funzione delle tesi da dimostrare). Ritrovo anzi argomenti pretestuosi, come la difesa dell'analisi (il)logica eretta a baluardo contro il degrado culturale. Sono nel frattempo uscite ottime e documentate recensioni - come quella di Vincenzo Sorella per doppio zero o quella di Gianluca Argentin e Orazio Giancola per l'Indice - che renderebbero inutili commenti dettagliati sui limiti del libro che una prelettura avrebbe potuto segnalare all'incauto (o studiatamente cinico) editore. 

Ho deciso perciò di parlare di un altro libro, recentemente uscito in Francia, che tratta il tema della disuguaglianza da tutt'altro punto di vista. Scientificamente molto più convincente e politicamente illuminante perché capace di trasformare lo sguardo. 

Si intitola Enfances de classe. De l'inegalité parmi les enfants ed è un monumentale lavoro collettivo (oltre 1200 pagine) diretto da Bernard Lahire, il sociologo che ha raccolto in Francia l'eredità di Pierre Bourdieu.   




Mi piace parlarne anche perché dubito che verrà tradotto in italiano (non è successo per il precedente libro di Lahire, La culture des individus. Dissonances culturelles et distinction de soi, del 2004, ideale continuazione del volume La distinzione di Pierre Bourdieu). E temo che una simile ricerca non vedrà mai la luce in Italia: frutto del lavoro di un'équipe interdisciplinare di 17 ricercatori, condotta nel corso di quattro anni nelle scuole materne di diverse località francesi grazie a un cospicuo finanziamento statale. 

Mentre la formula che ha guidato i nostri Mastrocola e Ricolfi è "se il figlio dell'idraulico non arriva a fare il notaio forse è perché ha fatto una scuola che non lo ha preparato", il punto di partenza della ricerca francese è la constatazione che  "i bambini vivono nello stesso momento nella stessa società, ma non nello stesso mondo". 

Nella società francese le disuguaglianze, a lungo ammantate dietro il vessillo dell'identità nazionale da difendere in tempi di crisi migratorie e attacchi terroristici, sono state portate alla ribalta dal movimento dei Gilets jaunes. Benché denunciate nel discorso pubblico e misurate dagli istituti statistici, rimangono inesplorate nei loro effetti sulla vita quotidiana delle persone "dal punto di vista di ciò che è accessibile agli uni e inaccessibile agli altri, possibile in misura quasi illimitata per taluni e completamente impossibile se non impensabile per altri" (p. 12).  

L'obiettivo della ricerca francese è stato appunto quello di mostrare le disuguaglianze sociali mettendoci sotto gli occhi le differenze concrete tra gli stili di vita di 35 bambini appartenenti a classi sociali diverse, osservati nel momento della prima socializzazione, prima dell'ingresso nella scuola primaria. Perché è in questi anni che si gioca la formazione di quelle competenze e di quegli atteggiamenti (modi di sentire, pensare, giudicare, parlare, comportarsi) che pongono basi durature per la futura riuscita (o per la sconfitta) scolastica e professionale. 

Se gli studi sociologici sull'infanzia degli ultimi decenni hanno sottolineato la agency (agentività) dei bambini, cioè la loro capacità di agire indipendentemente dalle strutture sociali in cui sono inseriti, in questo studio i bambini vengono ricollocati nei contesti familiari dai quali rimangono fortemente dipendenti e da cui sono condizionati in ragione delle diverse risorse economiche, culturali, sanitarie, linguistiche degli adulti di riferimento. Ci si allontana insomma da una visione della prima educazione come sequenza di apprendimenti universali (della motricità, del linguaggio ecc.) estranei agli effetti delle differenze sociali per indagare l'impatto del diverso capitale economico e culturale dei genitori sul percorso scolastico dei figli. Senza per questo sfociare in un determinismo che vedrebbe ciascuno ancorato al proprio destino familiare. 

Come negare del resto l'influenza che il quartiere in cui si abita, le scuole che si frequentano, gli sport che si possono praticare, gli amici che ci si può fare, lo spazio che si ha a disposizione in casa, il tipo di alimentazione e di cure sanitarie cui si ha accesso abbiano conseguenze decisive sui più piccoli? La crisi sanitaria ha mostrato con forza ed evidenza a ogni insegnante quanto pesino queste differenze.

Certo, la scuola mantiene un ruolo importante nel contrasto delle disuguaglianze: ruolo che ha conquistato nel corso del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, nel quale - come ricorda Lahire - si è passati da una riproduzione delle disuguaglianze a base familiare (si diventava operai se figli di operai) a una determinazione scolastica dei destini professionali (si diventa operai per debolezza del percorso formativo, abbandono scolastico, bocciatura agli esami). Ma dopo aver letto i toccanti "ritratti sociologici" di bambini che il libro ci offre, si esce persuasi della tesi che si intende dimostrare: il peso dei meccanismi strutturali e storicamente durevoli di produzione delle disuguaglianze e la precocità con cui in agiscono nel destino delle persone. E non in senso astratto, ma nelle piccole cose che fanno la quotidianità infantile, a partire dagli scambi linguistici. 

Sono rimasta molto colpita dai ritratti "sociolinguistici" dei bambini (da Libertad, Ashan, Balkis, fino a Maxence, Anais, Mathilde: già i nomi parlano per loro) realizzati grazie a interviste strutturate e piccoli "esercizi" (prove di elicitazione di immagini, statiche e in movimento) volti a indagare l'estensione del vocabolario dei bambini, la padronanza della sintassi e la capacità di esplicitare in forma narrativa sequenze di eventi.  Ne emergono "pratiche linguistiche più o meno conformi alle attese scolastiche" (per esempio nell'attenzione alla pronuncia corretta, nella capacità di spiegare e raccontare o di giocare con le parole), "un rapporto con la cultura scritta più o meno avanzato" (legato alla maggiore o minore esposizione alla lettura di storie), "l'apprendimento più o meno precoce di lingue straniere, in particolare dell'inglese" (p. 56). Insieme con diverse attitudini: "maggiore o minore fiducia in sé, tendenza più o meno marcata ad atteggiamenti ascetici o viceversa combattivi, competitivi o obbedienti" (p. 57). 

In fondo, anche Mastrocola e Ricolfi nel loro libro ci consegnano un paio di autoritratti sociologici dell'infanzia, sia pure datati al secolo scorso e agli anni precedenti la scolarizzazione di massa. Così la piccola Mastrocola potrebbe riconoscersi nella ragazza di classe popolare che, pur disponendo di un minore capitale culturale rispetto al futuro marito, "può approfittare di un certo numero di qualità, come la disposizione alla docilità, alla calma, all'agire accurato che la rendono più adatta all'ambiente scolastico" (p. 61).  Capirebbe inoltre di essere cresciuta in un periodo storico in cui gli studi umanistici non solo erano incoraggiati per le donne, ma erano considerati socialmente più desiderabili di quanto non lo siano nei nostri tempi, dopo che le sfide scolastiche e culturali - anche in un paese ancorato alla cultura classica come il nostro - si sono spostate verso il polo scientifico (le STEM). 

Ci sarebbe da imparare - e da offrire materiale per politiche scolastiche efficaci - a realizzare uno studio simile in Italia. Ma qui si preferisce bearsi del tempo passato, dare la colpa alla democratizzazione della scuola, rimproverare ai nostri figli e nipoti di non possedere le nostre stesse opportunità e capacità, invecchiando da conservatori, convinti di aver fatto la propria parte da bravi privilegiati (per destino, fortuna o merito scolastico).     




domenica 14 novembre 2021

Un libro stra-ordinario (di Mari D'Agostino per il Mulino)

Ho letto un libro stra-ordinario, per almeno due motivi:

- mi ha riconciliata con la sociolinguistica 'vera', quella fatta sul campo, in tutta la varietà delle accezioni che il termine può coprire (compreso il campo da calcio e il campo di detenzione): basata sull'interazione reale con gli informatori, sulla capacità di ascolto e di interpretazione di storie complesse che hanno in comune il tema del viaggio-migrazione tra lingue e identità 

- ha allargato i miei orizzonti, la mia capacità di lettura dei dati linguistici e del mondo, spostandomi dal tavolo di lavoro e dalla bibliografia consueta per immergermi in un flusso di esperienze raccontate da voci autentiche, raccolte con cura amorevole e trasmesse con una scrittura limpida e corale, capace di accogliere, raccogliere e ordinare dati, biografie e fonti scientifiche per trasformarle in un'avventura intellettuale e in un racconto emozionante. 

Il libro si intitola Noi che siamo passati dalla Libia. Giovani in viaggio fra alfabeti e multilinguismo, è stato scritto da Mari D'Agostino e raccoglie le esperienze di ItaStra, la scuola di italiano per Stranieri dell'Università di Palermo da lei diretta e che dal 2012 (se ne parlava già in questo post) è diventata crocevia di alfabetizazione e socializzazione per tanti giovani sbarcati in Sicilia dopo un viaggio in mare che è solo l'ultima tappa di un percorso fatto di scambi, incontri, 'disastri' lungo traiettorie spesso impreviste.



Mi piace paragonare questo libro a uno spettacolo teatrale altrettanto staordinario cui ho avuto la fortuna di assistere nel 2003, alla Cartoucherie di Parigi: Le dernier caravansérail (Odissées) di Ariane Mnouchkine e del suo Théâtre du Soleil, poi divenuto film documentario (2006). Ricordo con precisione il movimento delle tele blu che simulavano le onde del grande mare in cui transitavano persone in transito tra vite e lingue diverse, a rischio, in trasformazione. 

Odissee come quella disegnata sulla copertina di questo libro, prodotta durante uno dei laboratori di narrazione condotti negli anni dagli appassionati docenti palermitani e divenuti terreno di sperimentazione di nuove strategie didattiche e di ricerca.

Libri e spettacoli da cui si esce tras-formati.

Difficile dire in poco il tanto che ho scoperto in questo libro. Provo con un elenco in ordine casuale:

- il farsi guidare dai saperi delle persone intervistate, usando l'autobiografia linguistica (su cui rimando a un precedente libro di Mari D'Agostino, Sociolinguistica dell’Italia contemporanea) come strumento di accoglienza e di conoscenza 

- il ricostruire le storie step by step, con lo stessa gradualità e attenzione alle tappe intermedie con cui si punta a costruire una competenza linguistica nell'italiano come lingua d'arrivo (si veda il metodo Ponti di parole)

- la fedeltà con cui vengono riportate le storie, sgrammaticature comprese, e il rispetto e il riserbo con cui vengono trattate quando toccano esperienze di violenza (la detenzione in Libia) e di sofferenza (la traversata)

- la scoperta della grande ricchezza del repertorio dei parlanti provenienti dall'Africa subsahariana, immersi in contesti multilingui che vedono affiancate lingue coloniali e lingue patrimoniali (di tradizione prevalentemente orale), sistemi di scrittura diversa (arabo e occidentale), modi e livelli di albetizzazione e scolarizzazione non standardizzati

- l'instabilità di questo repertorio, fatto di risorse linguistiche in movimento, continuamente arricchite e ridefinite dalle esperienze di vita, dagli spostamenti nello spazio sociale e fisico

- la ricchezza e alterità (rispetto ai testi ufficiali e al racconto mediatizzato) del vocabolario della migrazione costruito da chi vive in prima persona l'esperienza del viaggio

- la dinamica creata dal continuo riutilizzo delle parole dell'altro, che non comporta solo mescidanza, ma cambio di segno: come accade per le parole d'odio in libico che diventano strumento di aggregazione scherzosa tra transfughi e "indicatori simbolici delle esperienze compiute"

- il fatto che si possa, anche per questa via, costruire un 'noi' resiliente, che è quello evocato dal titolo

- le canzoni che parlano della migrazione verso l'Europa alternando inglese, wolof, mandinka e introducono il tema della morte e del dolore incontrato sulla rotta centrale

- il senso di responsabilità e di verità che emana dall'intero libro, così capace di détricoter (uso questo verbo per evitare l'abusato 'decostruire)' una narrazione fatta di stereotipi e facili riduzionismi

- la dedica a un collega e coetaneo scomparso quest'estate, Roberto Sottile, gentile "esploratore di mondi linguistici". 

Buona e saggia lettura!




giovedì 30 settembre 2021

La sintassi della frase semplice (uscita del mio volume per il Mulino)

Esce oggi in libreria il primo volume della serie "Le strutture dell'italiano contemporaneo", diretta da Paolo D'Achille per il Mulino: 200 pagine ariose per 7 capitoli arricchiti da 29 quadri di approfondimento tematico e attività stimolanti a fine capitolo.

 


Ci ho speso tante energie perché fosse insieme rigoroso e accessibile. Spero che il risultato sia apprezzabile sia da studenti universitari alle prese con l'approfondimento di un capitolo della linguistica italiana, sia da insegnanti che vogliano ripercorrere in modo sistematico alcuni concetti chiave della grammatica (analisi della frase e delle parti del dicorso).

Sul sito del Mulino potete leggere l'indice. Sulla mia pagina di Academia potete leggere anche l'Introduzione al volume, corredata da un'immagine suggestiva, scattata da Robert Doisneau nel 1949 sul set del film di Jacques Tati Giorno di festa: lui è il postino François.

 



AGGIORNAMENTO: Ne parliamo a "La lingua batte", su Radio Tre, il 31 ottobre. Qui il podcast.

Qui il webinar di presentazione del libro disponibile sul canale Youtube del Mulino.

Qui una recensione apparsa sul sito insegnandoitaliano.

mercoledì 1 settembre 2021

Un corpus sempre giovane (CORIS/CODIS)

Una delle prime imprese alle quali ho collaborato è stata la creazione, a cavallo del 2000, del primo grande CORpus dell'Italiano Scritto contemporaneo: il CORIS, sviluppato presso il Centro Interdipartimentale di Linguistica Teorica e Applicata dell'Università di Bologna sul modello dei grandi corpora elettronici delle lingue europee che stavano rinnnovando la lessicografia (in particolare il BNC, British National Corpus). Erano anni di grandi collaborazioni: con John Sinclair soprattutto. Insieme a M.A.K. Halliday, uno dei geniali allievi di J.K. Firth, il linguista britannico che aveva sviluppato la teoria contestuale del significato. 

Se il significato di una parola si può cogliere solo attraverso gli usi di una parola (come sostenevano negli stessi anni gli antropologi Ogden e Richards), cosa c'è di meglio di una grande base di dati da cui estrarre automaticamente liste di parole in contesto, a partire da tipi di testi diversi, tutti autentici e rappresentativi della lingua in uso? Se poi queste raccolte di testi digitali possono essere interrogate grazie a programmi appositi capaci di generare concordanze, liste di frequenza e altre misure statistiche di prossimità semantica, il gioco è fatto.

Da questa idea, sviluppata grazie alla nascente linguistica computazionale (già applicata ai testi sacri), prese forma una fortunata corrente di studi in ambito internazionale: la corpus linguistics o "linguistica dei corpora".  Oggi, a distanza di oltre vent'anni, la vitalità di quella scuola è circoscritta, ma restano le grandi basi di dati che ambiziosi progetti hanno contribuito a creare nei diversi paesi. 

In alcuni casi, come nel nostro, la base preesistente (150 milioni di parole provenienti da testi raccolti tra il 1980 e il 2000, spesso digitalizzati e annotati manualmente), continua a essere rimpinguata, grazie a corpora di monitoraggio inglobati con scadenza triennale. La sapiente manutenzione di Fabio Tamburini ha negli anni reso il CORIS (con il suo corrispettivo "dinamico" CODIS, modulabile in base alle tipologie di testi contenuti in vari sottocorpora) uno strumento ancora fruibile e aggiornato, utile per ricerche e applicazioni didattiche.

 

 

Basta familiarizzare con la maschera di interrogazione del corpus (in inglese), capire in che modo le parole vadano inserite per ottenere i risultati voluti. 

Facciamo una prova con una parola che l'attualità ha riportato nella lingua dell'uso: "pandemia" (la parola va trascritta proprio così, tra virgolette). Otteniamo 1022 occorrenze totali, di cui la maggior parte provenienti dal corpus di monitoraggio 2017_2020 (il programma consente di scegliere l'arco temporale, time slice, della ricerca) e dal sottocorpus della stampa (anche in questo caso è possibile scegliere se limitare o estendere la ricerca ad altri subcorpora). 

 


 

Il programma ci fa scegliere se visualizzare 30/100/300/1000 concordanze (nel formato KWIC: key word in context), e come ordinarle (sort): partendo per esempio dalla parola che precede, a sinistra (-1), o da quella che segue, a destra (+1). Dipende da quello che vogliamo osservare: l'uso degli articoli o degli aggettivi associati alla nostra parola, per esempio. 

In ogni caso, il programma è in grado di calcolare da solo (utilizzando misure statistiche) i collocates cioè i "collocati/collocatari", le parole con cui la nostra parola cooccorre più spesso: nel caso di pandemia troveremo elencati coronavirus, COVID-19, emergenza, scoppioimpatto, gestione... 

Il corpus è inoltre lemmatizzato, per cui può contemporaneamente estrarre le diverse forme di parola (in questo caso quella singolare e quella plurale, "pandemie", che è meno frequente: se ne trovano solo 36 esempi nell'intero corpus).

Insomma, a volerne studiare la presentazione e le funzionalità, e a volersi impratichire con il linguaggio di interrogazione (query), si possono fare interessanti ricerche e scoperte. Che, a differenza di quelle supportate da motori di ricerca generali, producono risultati "puliti": provenienti cioè da testi selezionati e annotati a scopi di studio e di ricerca, non a fini commerciali.

Buone esplorazioni!   

venerdì 9 luglio 2021

10 tesi per una lingua democratica rispettosa del genere

Le scuole sono chiuse. Se fossero ancora aperte, c'è da scommettere che tante e tanti insegnanti si sentirebbero sollecitati, magari nell'ora di grammatica, a rispondere su una questione che infervora gli animi: la legittimità dell'uso di simboli non appartenenti al nostro alfabeto in un'ottica inclusiva. (Nelle scuole superiori, tanti ragazzi e ragazze cominciano a ostentare per sé l'uso di pronomi inglesi come he-him-his she/her o they). 

Il tema dell’uso di una lingua rispettosa delle differenze di genere è da anni al centro di iniziative istituzionali volte a contrastare il sessismo linguistico. Si tratta di un piccolo sforzo suggerito, in contesti di comunicazione pubblica, per rendere più visibile la presenza delle donne, sfruttando la possibilità che la grammatica dell'italiano offre di formare il femminile di nomi di professione e carica. 

Le recenti proposte “dal basso” in direzione di una lingua inclusiva si spingono più avanti, proponendo di superare la presunta binarietà della lingua italiana. Nascono così e si diffondono soluzioni di vario tipo, tutte accomunate da un presupposto di fondo: la sovrapposizione di un concetto sviluppato dalle scienze sociali (identità di genere) a quello linguistico di genere grammaticale. Tutte le soluzioni proposte puntano inoltre a offuscare le desinenze delle parole italiane che marchino il genere (quindi i nomi e le parole che al nome si accordano o si riferiscono).

Non entrerò nel merito del modo in cui vengono propagandate, anche se la questione potrebbe essere utilmente posta in classe: è legittimo, per promuovere una cultura inclusiva, non discriminatoria e non violenta, ricorrere a forme che forzano la lingua e violano le regole del codice comune?

(Non stiamo parlando della proposta di parole nuove o di nuovi significati per parole esistenti, ma di simboli estranei all’ortografia dell’italiano, che rendono irriconoscibili le parole, con le conseguenze di cui diremo. Non stiamo negando il bisogno sociale di riconoscimento, di diritti civili e non solo, di chi aderisce a certe proposte grafiche, ma la legittimità di estendere il dominio della lotta manipolando la grammatica di una lingua).

Si può ancora parlare di "esperimenti" (nel caso di asterischi e schwa o scevà) quando promotori e attivisti entusiasti ricorrono a un linguaggio autoritario e a tratti intimidatorio per difenderne la diffusione contro chi osi richiamarsi ad altri principi democratici e di inclusione (si veda il recente caso sollevato dall'articolo di Maurizio Maggiani, Io non sono un asterisco)? 

Usare formule come "maschio cisgender (o cishet)" o "TERF" per liquidare avversari(e), riducendone l'identità a un'etichetta che azzera la loro storia e il loro pensiero (anche politico), vuol dire non solo evitare di nominarli, ma circoscriverli entro definizioni con connotazioni spregiative dietro le quali non possono essere riconosciuti né riconoscersi. Anche questo è linguaggio dell'odio

Né si possono liquidare le obiezioni come frutto di ignoranza o di posizioni ideologiche conservatrici e reazionarie, infastidite dal linguaggio cosiddetto "inclusivo". 

Di seguito proverò a dare alcune indicazioni utili per l'insegnante che voglia attivare in classe una riflessione sulla grammatica parlando dalla questione del genere. (I primi punti sono lunghi e impegnativi perché le questioni non sono semplici come vorrebbero farci credere: se le premesse filosofiche non vi appassionano, passate ai punti successivi. Ma tenete in mente la complessità, che si tende a eludere a volte per fretta, talora per incompetenza, talaltra per ideologia, non di rado per malafede). 

 

*

1) Il fatto che l’italiano opponga il genere grammaticale femminile e maschile NON ne fa una «lingua binaria»: maschile in grammatica non vuol dire necessariamente ‘del maschio’ né femminile ‘della femmina’. La lingua vive di opposizioni, spesso espresse sotto forma di metafore (femminile/maschile, attivo/passivo, singolare/plurale, forte/debole, dolce/duro, destra/sinistra...). 

In generale, il rapporto tra lingua e realtà è di natura complessa e non si pone in termini di mimesi: la lingua non imita la realtà. La lingua è infatti un sistema simbolico, nel senso che il rapporto tra le parole e gli oggetti del mondo non è motivato dalla somiglianza: la parola cane non abbaia, la terminazione -a non è di per sé indice di femminilità. 

La lingua, in quanto espressione di una cultura, veicola visioni del mondo (talora superate) e stereotipi dei quali dobbiamo essere consapevoli per usare in modo responsabile le parole (ogni italiano sa che il femminile cagna veicola connotazioni negative se riferito a una persona). 

Non ci sono tuttavia prove per affermare che la lingua determini la nostra percezione della realtà - come vorrebbe chi si rifà a teorie in larga parte superate come l'ipotesi Sapir-Whorf (già alla fine anni Ottanta il linguista Geoffrey Pullum, citando gli studi dell’antropologa Laura Martin, mise in luce «la grande frode del lessico eschimese»). Peraltro, a leggere direttamente Edward Sapir si capisce che era ben lontano da certe affermazioni: "la tendenza a considerare le categorie linguistiche come espressive di evidenti lineamenti culturali, tendenza che sembra essere venuta di moda presso certi sociologi e certi antropologi, dovrebbe venir combattuta in quanto non convalidata in alcun modo dai fatti" - scriveva nel 1933. E andava  combattuta perché poneva le basi per il razzismo linguistico, come ha recentemente messo in luce Andrea Moro in un libro che ogni insegnante dovrebbe leggere: La lingua e la razza. Sei lezioni sul razzismo. (Se poi volete ricostruire la storia delle idee di Sapir sullo sfondo della rivoluzione antropologica che portò alla reinvenzione delle idee di razza, sesso e genere a cavallo delle due guerre, vi consiglio la lettura dello splendido libro di Charles King, La riscoperta dell'umanità, tradotto da Einaudi nel 2020)



La presenza o assenza delle marche di genere in una lingua non dice né predice nulla a proposito del sessismo della cultura di cui è espressione (altrimenti non si spiegehrebbero né Orban né Erdogan, visto che né l' ungherese né il turco marcano il genere). Tantomeno la presenza di suoni indistinti nelle finali delle parole è indice di inclusività da parte della comunità che parla quella lingua o quel dialetto (parola di abruzzese proveniente da un paese che ha ben 3 scevà nel nome dialettale, di cui due all'interno di parola, e che prevede comunque opposizioni di genere espresse attraverso alternanze vocaliche della radice invece che della desinenza).

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2) I nomi NON si flettono in base al genere, ma in base al numero: il genere grammaticale è una caratteristica intrinseca e convenzionale del nome. In italiano ci sono nomi maschili e nomi femminili. Alcuni nomi presentano due forme autonome e parallele, M/F, che in italiano tendono a essere molto simili (spesso sono distinte solo dalla vocale finale) ma non sono derivate l'una dall'altra: è vero che signore e signori è la traduzione di ladies and gentlemen, ma signora non deriva da signore, come lady non deriva da gentleman. Il rapporto tra genere grammaticale e sesso del referente è pertinente solo nel caso di un numero ristretto di nomi di questo tipo, riferiti a esseri animati sessuati. E' inoltre pertinente per i pronomi personali riferiti ad esseri animati (es. lui/lei), ma non in quelli riferiti a inanimati (esso/essa). Il genere neutro, quando è presente in una lingua, è tendenzialmente associato a inanimati.

Nelle parole che accompagnano il nome (come l’articolo o l'aggettivo) il genere è una semplice manifestazione dell’accordo. (Se volete approfondire questo tema vi consiglio di leggere il volumetto Le parti del discorso di Giampaolo Salvi). 

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3) Se la lingua ha gli strumenti per nominare una realtà, i parlanti sono legittimati a usarli, ricordando però che "la grammatica non deve rendere conto di nessuna realtà". La frase è tratta dalla Grammatica filosofica di Ludwig Wittgenstein, un filosofo spesso citato nel dibattito per un'altra e ben più celebre frase (ovviamente avulsa dal suo contesto, inaccessibile ai più): "I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo". 

Wittgenstein fu anche un maestro di scuola elementare,  e come tale ci ha insegnato la dignità delle "lingue di casa" e l'importanza dell'ampliamento del lessico (non lo stravolgimento della grammatica!). Tutta la sua riflessione logico-filosofica è stata "una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio". Sarebbe una buona idea tornare ai suoi testi per capire che la grammatica è una struttura astratta, indipendente dalla realtà. Per il filosofo tedesco si tratterebbe di un "gioco" a carattere convenzionale; per i neuroscienziati (si veda il libro citato di Moro) un meccanismo con basi biologiche. Non la impariamo per imitazione e non funziona per imitazione. 

Pretendere che la lingua rifletta sempre la realtà è una scorciatoia del pensiero, frutto di un bias cognitivo che potremmo chiamare pregiudizio realistico.

Non è la grammatica a dover rendere conto della complessità sociale delle identità, semmai è il parlante che deve rendere conto della grammatica (intesa come sistema di regole di una lingua) all'intera comunità che in quella lingua si riconosce, ed è tenuto a rispettarla come garanzia di comprensibilità reciproca. Il parlante o il gruppo di parlanti è libero di proporre parole nuove, o recuperare parole desuete, e provare a farle circolare e accettare dalla comunità. Il lessico, infatti, è il territorio della lingua più facilmente espandibile e aperto alle scelte individuali.  Mentre il lessico è sensibile a cambiamenti "meteorologici", la sintassi di una lingua è tendenzialmente stabile: i cambiamenti non sono esclusi ma sono legati a movimenti "geologici" ("di deriva" - per citare Edward Sapir), inconsci (non guidati) e lenti (impercettibili nell'arco di una generazione).

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4) Il simbolo attualmente in voga, la e girata o schwa, è un simbolo dell’IPA (International Phonetic Alphabet) utilizzato per indicare un suono vocalico indistinto (un fono, non un fonema: non ha capacità distintiva di parole) in finale di parola o in sillaba atona. Nelle lingue europee che conoscono questo suono e che hanno una tradizione scritta (come il francese o l'inglese), l’evoluzione fonetica verso la terminazione foneticamente indistinta di alcune parole (non necessariamente e non solo nomi) è stata frutto di un’evoluzione naturale e secolare che non ha cancellato i grafemi o i nessi grafici corrispondenti. La transizione forzata e accelerata verso esiti non compatibili con il sistema grammaticale di una lingua non ha precedenti. Nella nostra storia conosciamo gli esiti della forzata italianizzazione delle parole straniere in età fascista, quando si volle bandire anche il "lei" di cortesia perché "femmineo, straniero, sgrammaticato" (sappiamo poi come è andata).  

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5) Il simbolo grafico ə corrisponde a un suono pronunciabile perché nasce, proprio come tutti i simboli fonetici, per farci capire come si pronunciano certi nessi grafici in lingue diverse dalla nostra, oppure per dare "forma" a suoni indistinti, che hanno un ruolo nella formazione della sillaba: per esempio /ʃəˈwa/ è la trascrizione fonetica del termine ebraico שווא (propriamente 'insignificante') traslitterato come schwa, che contiene il famoso suono indistinto nella pronuncia ma non nella grafia (per inciso, l'ebraico si legge da destra a sinistra e trascrive solo le consonanti: di qui le secolari discussioni sulla traduzione dei testi biblici - basta interpolare vocali diverse nella radice consonantica perché il significato cambi)

Il simbolo viene usato solo nelle trascrizioni fonetiche (per esempio nei vocabolari cartacei - quelli elettronici ci fanno sentire direttamente la pronuncia) in combinazione con altri simboli fonetici, NON insieme con lettere dell'alfabeto latino: nessuna lingua ha lo schwa nel suo alfabeto grafico. Che cosa succede quando si trova il simbolo fonetico mescolato a lettere dell'alfabeto corrente? Nulla, perché nessuno lo trasferisce della grafia alla pronuncia né realizza il suono indistinto nell'interazione parlata (né al singolare, né al plurale, che alcuni vorrebbero marcare con un ulteriore simbolo: schwa allungato, trascritto come 3). Quando ci si prova, come ha fatto la giornalista televisiva Flavia Fratello alle prese con la lettura in diretta di un articolo di Michela Murgia, il risultato è il troncamento delle parole, non la realizzazione di un suono indistinto (che garantirebbe la tenuta della sillaba finale). 

Perciò questa soluzione non ha nessun impatto sulla lingua vera, che è quella parlata dalle persone nei più vari contesti e quella che viene acquisita naturalmente dai bambini.

Pensare che l'inclusività si ottenga con una convenzione ortografica è un errore di prospettiva.

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6) L’enfasi su una soluzione che ha impatto solo sull’uso scritto della lingua è un effetto sia della tradizione scrittocentrica della lingua italiana (dalla quale non ci siamo emancipati), sia della lente deformante offerta dai social media: un uso sociale della lingua particolarmente pervasivo, con forte capacità espansiva (anche per ragioni di snobismo linguistico e opportunismo politico), ma non rappresentativo della gamma di usi cui la cittadinanza attiva ci chiama a rispondere. 

Mettetevi nei panni di chi lavori in uno sportello pubblico, nei servizi sociosanitari, o anche a scuola: che cosa fare con un simbolo utilizzabile solo in alcuni contesti comunicativi e per un certo tipo pubblico?  

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7) Il simbolo in questione (ma lo stesso vale per l'asterisco), oltre che essere assente sulle tastiere (problema facilmente risolvibile), non è riconoscibile dai programmi di sintesi vocale e di riconoscimento vocale come Jaws (che non lo realizza) o Voiceover (che lo realizza come “e girata”), utilizzati dai non vedenti: la presunta inclusione non si coniuga con l’accessibilità (l'intersezione con altre minoranze discriminate rivela qui i suoi limiti: i diritti di singoli interferiscono con i diritti di altri singoli, nonché con i diritti della collettività). 

      L'uso di questi grafemi compromette inoltre la trattabilità dei testi con sistemi informatici di analisi dei testi che sono alla base delle nostre ricerche sui browser (e delle proposte suggeriteci in caso di errori di battitura), della traduzione automatica (oggi facilmente accessibile e sempre più precisa nei suoi esiti), della correzione automatica e del calcolo della leggibilità: tutti strumenti di inclusione per i non italofoni (quelli che chiamiamo "gli stranieri") e per gli analfabeti di ritorno (ancora tanti tra gli italofoni). A questi servizi, del resto, chiunque (anche le persone colte) deve poter attingere con facilità in una società plurilingue e multiculturale. A maggior ragione studiosi e i linguisti che usano corpora per le loro ricerche.

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      8) I simboli proposti si limitano a sostituire la vocale finale (-a/-o) anche quando per offuscare il genere sarebbe necessario modificare l’intero suffisso (al maschile animatore, per esempio, corrisponde il femminile animatrice: animator* è un maschile monco). Peraltro, negli usi correnti, il simbolo si trova inspiegabilmente utilizzato anche per le terminazioni di nomi epiceni in -e (es. genitor*). 

      Il simbolo (asterisco o  schwa) crea problemi di (orto)grafia nel caso di nomi che presentino nell'ultima sillaba una consonante palatale/velare, per la presenza di eventuali grafemi "muti" come H o I diacritica (amic(h)? colleg* è colleghi o collegi?).   

      Ma, soprattutto, la convenzione ortografica che si vorrebbe adottare non si limita a occultare il genere: contraddice le regole grammaticali della nostra lingua (la cui struttura prevede la distinzione tra i due generi e il ricorso al maschile plurale come forma non marcata, specie al plurale).

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      9) Il simbolo finisce per occultare l’accordo (anche a distanza) di aggettivi, articoli, participi e i riferimenti anaforici operati dai pronomi: strumenti fondamentali non solo per la sintassi ma per la coesione del testo.

      Il simbolo lascia inoltre irrisolti i problemi della determinazione (viste le molte forme dell’articolo determinativo italiano, distinte non solo per genere e per numero, ma anche in base a ragioni di eufonia), della referenza pronominale (come nominare le identità alias, rimanendo entro i confini della lingua italiana?), degli allocutivi (con quale appellativo rivolgersi a una persona che non conosciamo, senza risultare offensivi?).  

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      10) Come è stato evidenziato nell'ambito del dibattito francese che ha fatto seguito alla diffusione del cosiddetto “punto mediano” o "mezzano" (vietato nelle scuole da una circolare del Ministère de l'Education Nationale), le pratiche di scrittura che sovvertono l'ortografia compromettono non solo la comprensibilità dei testi, ma la loro leggibilità e, nelle classi primarie, l'insegnamento della lettura. Tutto ciò in una realtà scolastica caratterizzata da bisogni sempre più differenziati: pensiamo al numero crescente dei DSA, per i quali il ribaltamento dei simboli è un problema che va ad aggiungersi a quelli creati dalle incongruenze tra grafia e pronuncia. (Vale la pena ricordare che stiamo abbandonando la scrittura in corsivo perché qualcuno ci ha convinti che discrimini i dislessici in quanto non separa e differenzia a sufficienza i simboli: p e d, per dire, sono una il rovesciamento dell'altra. Peccato che nel frattempo le neuroscienze abbiano scoperto l'incidenza della scrittura manuale "legata" - che consente di "correre" - nello sviluppo delle competenze di lettura...). D'altra parte, ogni insegnante sa che l'ortografia è un problema per la maggior parte dei i ragazzi in età scolare (anche normodotati), nonché per gli adulti che abbiano perso dimestichezza con la scrittura di testi complessi.


Queste avvertenze dovrebbero bastare a scoraggiare: non l’uso individuale dei militanti, che hanno sempre manipolato la lingua a fini politici (anche se con mezzi meno pervasivi, come manifesti, volantini e tazebao), ma l’uso di chi, operando a contatto con il pubblico o essendo chiamato a pronunciarsi in pubblico, tenda ad adeguarsi nel timore di apparire reazionario, offensivo o irrispettoso delle diversità. Finendo per mostrare un'adesione spesso irriflessa a mode linguistiche nate in paesi nei quali il genere grammaticale pone problemi diversi e molto più circoscritti.       

Il compito delle istituzioni che devono curare il rapporto con la cittadinanza, o addirittura educare alla cittadinanza (come nel caso della scuola), è quello di promuovere un uso responsabile della lingua, che garantisca a ogni parlante il riconoscimento dei propri diritti, tra i quali rientra la possibilità di capire pienamente i messaggi, a prescindere dal canale (scritto o parlato) e dal mezzo di fruizione. Un diritto che può essere garantito solo se riconosciamo come nostro dovere quello di rispettare le regole che garantiscono la mutua comprensibilità. 

Il compito di ogni linguista competente e responsabile è quello di osservare e monitorare i movimenti linguistici senza censure e purismi, ricordando però i principi fondamentali di ogni lingua e le regole NON negoziabili che fanno parte della struttura della nostra lingua (come le desinenze variabili delle parole), a garanzia di tutti e di ciascuna.

Osservare ed eventualmente pronunciarsi è cosa diversa dal pretendere di indirizzare il cambiamento linguistico verso direzioni che alimentino la propria visibilità e la rappresentazione di una parte a danni di altri (più che l'inclusività della società nel suo complesso).

Insomma, impariamo e insegniamo a pensare la lingua: non è detto che vivremo in una società più inclusiva, ma forse saremo e formeremo persone migliori, senza etichette. 


NEW! 24 settembre 2021... è arrivato il parere dell'Accademia della Crusca nella persona del Presidente del Servizio di consulenza linguistica: da non perdere!

 

NEW! 9 febbraio 2022... è uscito sul Portale della lingua Treccani un mio pezzo, intitolato L'emancipazione non passa per una e rovesciata, che riprende e amplia i contenuti di questo post. Una versione più ampia sarà pubblicata sullo Speciale Treccani Lingua Italiana in uscita a marzo.

 

 

martedì 29 giugno 2021

"O piccola Maria, / di versi a te che importa?" (su due volumi di Franca Bosc)

Per chi non pretende di svuotare il mare con un secchiello, ma ama "l'arte di mettere il mare in un bicchiere" - come Italo Calvino definiva la poesia - per portarlo in aula, ad alimentare lo stupore dei piccoli occhi e degli orecchi acerbi, consiglio due libri di Franca Bosc:





- Arricchire il lessico attraverso la poesia. 25 proposte didattiche per la scuola primaria, pubblicato da Erikson nel 2020, si propone di estendere a livello nazionale i risultati promettenti di una sperimentazione che ha coinvolto numerose scuole piemontesi, nell'ambito di un progetto elaborato dal corso di laurea di Scienze della Formazione Primaria dell'Università di Torino, proponendo 25 testi della nostra tradizione corredati di ricchi materiali didattici suddivisi per classe (dei primi risultati del progetto Franca Bosc parlava in questo articolo uscito nel 2019 sulla rivista "Italiano LinguaDue"). Il volume segue, a 10 anni di distanza, un altro testo di Erminia Ardissino, uscito nella collana "guide" della stessa casa editrice: Leggere poesia. 50 proposte didattiche per la scuola primaria

- Poesia, lingua e ascolto. Una nuova didattica per la scuola dell'infanzia, uscito per Franco Cesati nel 2021, attraverso sei saggi di diverse autrici (tra cui Bosc e Ardissino), cerca di spostare indietro l'incontro con la poesia, ai primissimi anni della scolarizzazione, valorizzandone la dimensione ritmica e ludica, la capacità di attivare la riflessione metalinguistica (a livello di suoni delle parole e di significati) e il contributo attivo all'ampliamento del vocabolario infantile.  

Nel volume dedicato alla scuola primaria troviamo proposte nuove, che allargano il canone scolastico, mettendo sullo stesso piano poeti della tradizione (D'Annunzio, Saba, Ungaretti, Quasimodo, Montale) poeti più vicini alla contemporaneità (Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sinisgalli) e altri dei giorni nostri (come Vivian Lamarque e Fabio Pusterla). Troviamo, soprattutto, schede intelligenti che avvicinano alla comprensione del testo poetico e contribuiscono alla conoscenza, fissazione e riutilizzo  del lessico. 

Una poesia come Favoletta di Umberto Saba, del resto, può essere proposta con grazia anche nella scuola dell'infanzia, come mostra il secondo volume, che propone altri testi "leggeri e vaganti" come le filastrocche dell'odierna Lina Schwarze, Laura Grange.


lunedì 31 maggio 2021

Collana GISCEL-Quaderni di base

Sono usciti i primi due numeri della collana "GISCEL. Quaderni di base", editi da Franco Cesati.

Si tratta di volumetti agili (140 pagine), curati da studiose esperte di educazione linguistica, ciascuno dei quali fa il bilancio su un'abilità o un tema al centro del dibattito nell'ambito della didattica dell'italiano negli ultimi quarant'anni. In ogni volume, la voce dell'autrice o curatrice si intreccia con quella di altre studiose e studiosi che hanno contribuito con le loro riflessioni alla costruzione di un sapere rinnovato, di cui si colgono tracce nelle Indicazioni nazionali che si sono succedute negli ultimi quindici anni.

Il volume 1, Scrivere. Idee per la didattica della scrittura, a cura di Anna Rosa Guerriero, è un libro che raccoglie più contributi: oltre a quelli di cornice della curatrice, che mettono a fuoco le diverse dimensioni della competenza di scrittura e le prospettive didattiche nell'ottica di un curricolo verticale, troviamo un capitolo di Maria Emanuela Piemontese, che fa il punto sulle teorie che ci hanno insegnato a guardare alla scrittura come processo e come compito di problem solving, e sulle tecniche didattiche che hanno cercato di portare quelle idee nella pratica. Il capitolo di Adriano Colombo riprende uno scritto del 2002 dedicato a Tipi e forme testuali nella scrittura scolastica. Quello di Cristina Lavinio (Scrivere in breve) si concentra sull'abilità di sintesi. Ma si parla anche di altri tipi di manipolazione testuale come le riscritture, e di scritture funzionali come gli appunti e le schedature. Insomma, ci si confronta a più livelli con la complessità insita nella scrittura, con le sue molteplici funzioni e con le diverse forme, nell'ottica di un'educazione che punti alla "mobilità linguistica e cognitiva".  

Il volume 2, Testi a scuola. Tra lingua e letteratura, di Cristina Lavinio, riapre il dibattito sui rapporti tra educazione linguistica e letteraria, partendo dalla ridefinizione dei criteri che fanno di un testo un testo, e dei tipi e generi testuali che si incontrano nell'esperienza scolastica. L'approfondimento sulla testualità letteraria consente di mettere a fuoco la centralità di un tipo di testo che rimane di gran lunga il più esplorato nei vari ordini di scuola. La riproposta antologica di testi centrali per la riflessione sul tema ci consente di rileggere un gustoso testo di Maria Luisa Altieri Biagi (Testi alla griglia, 1986), che ritraeva l'allora nascente e imperitura moda dell'analisi narratologica trasformata in griglia di riferimento per le scritture bambine. Sulla scrittura di testi narrativi riflette ancora Lavinio, riproponendo le sue centrali analisi del testo fiabesco e dell'oralità narrativa. Il contributo finale di Hermann Grosser, del 2000, ritesse il filo che lega l'analisi del testo letterario alla storia letteraria, formulando una proposta ragionevole (non minimalista né massimalista) che consenta di storicizzare l'analisi: per insegnare alle nuove generazioni a "leggere, ordinare l'esperienza verbale e non verbale del mondo".

Sono in uscita i prossimi due volumi: uno di Carmela SammarcoMiriam VogheraAscoltare e parlare, con esempi di analisi di testi parlati e idee per una didattica che punti a sviluppare due abilità tanto centrali quanto trascurate nella pratiche scolastiche. 

L'altro, Italiano lingua di contatto e didattica plurilingue, di Francesca Gallina, è dedicato alla didattica dell'italiano come lingua seconda nella realtà oggi comune delle classi plurilingui, con apprendenti di madrelingua diversa e con diversi livelli di competenze dell'italiano, usato come lingua di socializzazione e di scolarizzazione. 


giovedì 29 aprile 2021

Ricordando Giancarlo Cerini

La scorsa settimana ci ha lasciati Giancarlo Cerini, l'ispettore scolastico più noto e amato nella regione in cui vivo, collaboratore del Ministero dell'Istruzione a documenti come le Indicazioni Nazionali 2012 e, fino agli ultimi giorni di vita, le Linee guida 0-6. 

Oggi è stato ricordato nel corso di una cerimonia in diretta da viale Trastevere, alla presenza del Ministro Bianchi: Nel dialogo, la cura del sapere e della scuola




Cerini ha scritto tanto di scuola e tanto ha fatto scrivere le persone nelle quali riconosceva o intuiva la sua stessa passione serietà energia. 

Mi piace ricordarlo per la possibilità che mi ha dato di scrivere sulla Rivista dell'istruzione, il bimestrale che dirigeva, su due temi che a entrambi stavano a cuore: il curricolo verticale di educazione linguistica e l'educazione linguistica in chiave di cittadinanza (quest'ultimo articolo è entrato anche in un volume a più voci da lui curato, dedicato al tema della cittadinanza). Non ne faccio un motivo di merito suo, ovviamente, ma un'occasione di crescita per me. 

Ho imparato tanto dalle sue osservazioni puntuali, dalla sua capacità di ascolto e di mediazione intelligente, dalla sua generosità intellettuale, dalla fiducia che riponeva in te mettendoti in condizione di meritartela. Aveva una grinta paziente e una mite fermezza che mi ricordavano mio padre: perciò ho sempre fatto il possibile, quando mi ha chiesto un contributo: non per accontentarlo, ma per non deluderlo.

In una delle ultime lettere che ci siamo scambiati scriveva:   

c'è una vera cittadinanza se le persone hanno gli strumenti culturali per partecipare da protagonisti alla vita civile, sociale e culturale del proprio paese. E l'istruzione ha un ruolo fondamentale in questo percorso di crescita e di emancipazione. 
Condivido ciascuna di queste parole e, tutte insieme, le faccio mie.     

mercoledì 31 marzo 2021

Chi è il padrone della lingua? (su una recente polemica intorno alle parole)



Se sono diventata una linguista lo devo anche ad Alice, perciò è a quel libro che torno ogni volta che cerco di trovare un senso dove un senso non c'è, o almeno così parrebbe.

Nel capitolo VI di Attraverso lo specchio, l'uomo-uovo Humpty Dumpty si rivolge ad Alice con sprezzatura, rivendicando a sé il diritto di dare a una parola il significato che sceglie di dargli. Alice, agganciandosi al "né più né meno", risponde con un argomento quantitativo: si tratta di capire se si possano dare alle parole tanti significati diversi. Humpty-Dumpty rettifica: non è un problema di quantità, ma di autorità - bisogna vedere chi è che comanda. 

E di che cosa, se non di autorità, parliamo quando parliamo di polemiche linguistiche?  

La doxa (l'opinione comune) contro gli auctores (le autorità riconosciute). Linguistica popolare e linguistica scientifica. Puristi e attivisti. Dottori e sciamani. Polemisti da una parte e dall'altra. Prove di forza e tentativi di negoziazione tra istanze diverse. Il triste spettacolo di chi alimenta le polemiche senza verificare le fonti, o di chi usa fonti senza citarle per autopromuoversi come domatore/trice nel circo mediatico (in cui conta l'autorevolezza data dal numero di like, più che l'autorità che viene dagli studi e dal riconoscimento dei pari).

La lingua, intanto, scorre nel suo alveo. Mal tollerando imposizioni e cambiamenti bruschi. Come cambia la lingua è un fatto raramente apprezzabile nel corso di una generazione, anche ora che la società sembra aver accelerato il passo e i ritmi. Cambia il lessico, più della grammatica. E con una indulgenza verso le mode che da secoli induce i lessicografi a monitorare a lungo gli usi scritti delle parole prima di registrarne forme e significati nei dizionari. Una simile, rassicurante lentezza diventa a un tratto un inciampo per chi, dall'alto del muretto, pretende che la lingua cambi e subito, per adeguarsi alle esigenze di questo o quell'uso militante. 

Accade così quello che Giuseppe Pontiggia, acuto teorizzatore del "linguaggio autoritario", aveva diagnosticato negli usi ideologici della lingua tipici dei movimenti politici degli anni Settanta: per combattere l'autorità (che è per definizione ancorata al passato e alla tradizione, come ci ricorda Myriam Revault d'Allonnes), si assumono le forme semplificanti del linguaggio autoritario. La difesa di un uso legittimo diventa pretesa di estensione universale, anche in assenza del consenso della comunità che in quella lingua si riconosce.

La scelta dei verbi, dei modi verbali, delle persone diventa subito rivelatrice di questo atteggiamento. Al di là della bontà degli argomenti espressi all'interno del dibattito sulla definizione di "donna", che ha visto esperti ed esperte del Vocabolario Treccani rispondere una prima volta e poi una seconda alle sollecitazioni di un'attivista, supportata da altre firmatarie, autrice di una prima e di una seconda lettera che con insistenza hanno richiesto che fosse cambiata la voce "donna" all'interno del più ampio e autorevole dizionario liberamente accessibile online. 

Vi invito a cercare i verbi, e a soffermarvi sul loro uso, in particolare dove si formula esplicitamente una richiesta: Vi invito / Vorreste gentilmente / Sono certa che potrete... / Chiediamo cortesemente - cui seguono congiuntivi esortativi (ma si noti che nella seconda lettera si passa all'infinito iussivo). Ma osservate anche gli avverbi di enunciazione in -mente (cortesemente, gentilmente) che, mentre si sforzano di attenuare la perentorietà della richiesta, finiscono per aumentarne la portata polemica. Collaborano allo scopo i punti elenco, l'uso delle citazioni dirette (B.L. Whorf, Toni Morrison) e indirette (foucaltiano) o allusive (la luna e il dito di Confucio e De Gregori; i passi storici di Neil Armstrong e il dibattito sull'eliocentrismo; "il linguaggio è un'arma potentissima", traduzione del titolo del volume del 1980 di Dwight Bolinger dedicato a uso e abusi della lingua). Citazioni che (come ogni dato) sono sempre prese e avulse da un contesto all'interno del quale andrebbero valutate e discusse. Anche le accuse di "fallacia argomentativa" andrebbero del resto vagliate, specie se spese in un testo che ricorre alla manomissione delle parole (si veda l'interpretazione del termine eufemismo). 

Appare significativo, insomma, che per chiedere di cancellare la lingua del disprezzo e "contribuire alla costruzione e diffusione di una cultura più inclusiva e pacifica" si ricorra a un linguaggio autoritario che finisce per imporre in modo a tratti intimidatorio una rappresentazione del reale che la lingua sarebbe tenuta a rispecchiare (a costo di mutilazioni, distorsioni, semplificazioni). 

Non mettiamo qui in discussione la bontà della causa, ma i modi linguistici per raggiungerla. Perché, come Alice, non dovremmo accontentarci dello specchio, ma imparare ad attraversarlo. Col rischio di trovarci davanti quello che non ci piace: un ideale linguistico costruito su misura per soddisfare le esigenze del(la) parlante. 

Che lezione può trarne l'insegnante di italiano? L'urgenza di una didattica del dizionario, oltre che col dizionario (strumento sempre più presente nelle scuole a scopo di arricchimento lessicale, ma evidentemente poco conosciuto): i dizionari vanno capiti e usati bene, e per farlo bisogna avere imparato, così da coglierne la ricchezza e complessità insieme con i limiti. 

La scarsa utilità dei sinonimi e dei contrari, anche, quando costretti dentro un dizionario generale dell'uso: come diceva Donata Schiannini (mia e da tanti indimenticata maestra di lessicografia editoriale, che se n'è andata il 29 gennaio), dare in mano a un bambino un dizionario dei sinonimi e dei contrari è come mettergli in mano una mitraglietta carica. Meglio procedere con gradualità (scegliendo dizionari graduati, appunto) e rivolgersi a opere di spessore e d'autore, come il Trifone, oppure optare per i dizionari analogici (come questo), che nella rete lessicale della parola fanno spazio anche ai sinonimi. Peraltro sono questi i migliori strumenti a supporto della competenza di scrittura e dell'appropriatezza lessicale.

Del resto, scusate, perché mai dovremmo cercare (se non a scopo di indagine ideologica) il sinonimo di un termine fondamentale come donna? Quello che dobbiamo imparare è usare la parola giusta, in modo responsabile, ripetendola se necessario senza paura (e liberandoci dall'ossessione tutta italiana della variatio a ogni costo). Semmai potremo chiederci l'etimo di donna, e scoprire così che è imparentata con la domus, col domino, col duomo e col don. I sinonimi, gli eufemismi e i disfemismi del caso lasciamoli a chi preferisce non chiamare le cose col loro nome. Se poi vogliamo ricostruire la storia delle mentalità attraverso i dizionari, potremo leggere, per iniziare, il bel saggio di Nicoletta Maraschio su Continuità e continuità e discontinuità nelle cinque edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca (Atti del X Convegno ASLI, Franco Cesati, 2013). 

E se proprio vogliamo giocare a correggere gli errata della storia, esercitiamoci con la tecnica del caviardage: basta recuperare un vecchio dizionario, come quello usato da Stefania Bandinu per realizzare questo collier. Perché la provocazione artistica è più bella dell'estensione del dominio della lotta.



  

P.S. Qui potete leggere un articolo su Nuove ideologie e nuove autorità in contesto europeo ("Circula", 10/2019). Se volete approfondire il tema del potere modellizzante/riflettente del linguaggio rispetto alla realtà, vi rimando a questo articolo divulgativo, uscito sulla rivista "Sapere" nel 2014.

sabato 27 febbraio 2021

Stereotipi e archetipi (ancora sul femminile, non solo grammaticale)

Quando si parla di femminile grammaticale, da una parte si levano scudi e si sbarrano cancelli, dall'altra si alzano spalle, si grida alla stecca o si rispolvera la vecchia arma del riso.

[1835]


Questi schieramenti non sono - come si potrebbe pensare - facilmente identificabili. E tantomeno si può pensare di etichettarli semplicisticamente per opposizione: femminista/maschilista, progressista/conservatore.

Il primo errore da non fare, quando si parla di femminile, è infatti quello di sottovalutare il peso delle divisioni interne ai movimenti femminili, e anche una certa ostilità reciproca che possiamo trovare all’interno di gruppi di donne che occupano con consapevolezza ruoli “apicali” nella società. (L'ultimo, significativo episodio, le polemiche verso una direttrice d'orchestra che - alla stregua di tante altre direttrici che operano in ambienti prevalentemente maschili - si è autonominata al maschile, direttore, per motivi che pertengono alla distinzione sociale più che alla grammatica, ma che andrebbero comunque rispettati - anche per evitare lo spiacevole "effetto matroneo", verso il quale è costretto ad alzare lo sguardo il compassionevole predicatore di turno). 

La scrittrice premio Nobel Toni Morrison, nel volume L’importanza di ogni parola, suddivide le donne americane in tre gruppi: le femministe dichiarate, le antifemministe e le umaniste non allineate; ciascuno di questi gruppi tende a sabotare l’altro (Donne, razza e memoria, 1989). In Italia la situazione, oggi, è certo più frammentata: accanto alle antifemministe, troviamo le vecchia guardia (essenzialiste o differenzialiste - ma oggi accomunate in quanto "separatiste", bollate come TERF o liquidate come binarie) nettamente separate dalla nuova generazione di "intersezionaliste".    

Morrison parla anche, in un altro scritto, dell'atteggiamento da sorellastre di Cenerentola” (nell'articolo omonimo). Queste sorelle, che negli adattamenti recenti e nella versione disneyana sono brutte e goffe, nella favola di Grimm sono “belle e bianche di viso”: si tratta cioè di donne di ceto sociale elevato (donne di potere) che contribuiscono all’oppressione di altre donne della famiglia. 

Ci troviamo dunque di fronte a un archetipo, proprio come quello del principe azzurro (per rimanere nel fiabesco) o l’immagine della donna messa a tacere dall’uomo, su cui ha scritto pagine luminose la classicista Mary Beard, nel suo Donne e potere, partendo da Penelope - che l'imberbe Telemaco rispedisce nelle sue stanze perché “la parola spetta agli uomini” (il mansplaining viene da lontano...). Ma possiamo pensare anche alla Griselda del Decameron, evocata dalla romanziera Antonia Susan Byatt in uno dei suoi racconti fantastici come esempio di voce ed energia femminile soffocata. 

Del resto, è un archetipo anche quello che vede generazioni diverse di donne in lotta tra di loro: una lotta simbolica che passa attraverso lo scambio di cibo, la trasmissione di pratiche affidata ad aghi e spille - ce lo ha spiegato l'antropologa francese Yvonne Verdier, analizzando le versioni dimenticate della favola di Cappuccetto Rosso (il libro è stato tradotto in italiano).

Gli archetipi sono immagini dal forte valore modellizzante in una certa tradizione culturale. Non vanno confusi con gli stereotipi (che a loro volta non vanno confusi con i prototipi...). E vanno conosciuti e riconosciuti quando ci occupiamo di certi temi, pena il rischio - non appena ci si ritrova in una posizione di visibilità o di potere - di assumere quello stesso atteggiamento che rimproveriamo agli oppressori: sfruttare il lavoro femminile (materiale e intellettuale) riducendo le (altre) donne al silenzio, o divorandole addirittura.

Scrive Toni Morrison, rivolgendosi alle studentesse neolaureate del Barnard College di New York nel 1979: 

Non voglio chiedervi bensì dirvi di non partecipare all'oppressione delle vostre sorelle.  [...] Mi allarma la violenza che le donne compiono sulle altre: violenza professionale, violenza competitiva, violenza emotiva. Mi allarma la prontezza di tante donne a ridurre in schiavitù le altre. Mi allarma la sempre più sfacciata indecenza nel mattatoio delle realtà professionali femminili. (Le sorellastre di Cenerentola, in L'importanza di ogni parola, p. 124)

Non vi siete accorte di questo atteggiamento in tante paladine del femminile? Beh, esiste un modo per smascherarlo, almeno nella scrittura: basta guardare le bibliografie, quando ce ne sono. Perché il sistema delle citazioni - come ho scritto alla fine di questo post - è una spia infallibile del modo in cui si cerca di costruire la propria autorità (chiamiamo le cose col loro nome, autorevolezza è una parola da pedagogisti ipercorretti e da influencer). Stabilendo alleanze e - ahi noi - occultando scientemente chi ci ha precedute o ci affianca, e da cui abbiamo imparato tutto quello che predichiamo dai pulpiti mediatici. 

Allo stesso modo per cui chi si appropria dei GRS (grafici radiali Sabatini) cita Tesnière (che rappresentava in altro modo, a forma di albero rovesciato, la struttura verbocentrica della frase) tacendo Francesco Sabatini, così capita che chi scrive di uso pubblico delle forme femminili citi la pioniera Alma Sabatini (che dell'altro Sabatini non è parente né congiunta, anche se fu lui a prefare la ricerca sul sessismo nella lingua italiana, commissionata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1986 - l'autrice morirà due anni dopo in un incidente stradale) tacendo il contributo scientifico e l'impegno a fianco delle istituzioni di chi ne ha raccolto il testimone: prima Gianna Marcato e poi, dal 2000 Cecilia Robustelli. Oppure citandone il nome ma tangenzialmente, magari per parole riportate in un'intervista. 

Io non mi capacito di quest'atteggiamento (potrei dire che sono "basita" o "offesa", ma non fingo sorpresa preparando l'offesa). Perché mina la credibilità di tutte le donne che hanno a cuore la questione femminile e, con sensibilità diverse (ma con la stessa cura amorevole e senza aggressivi protagonismi), cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni al problema della rappresentanza e dei diritti delle donne e di altre minoranze. Una questione non solo linguistica, evidentemente, ma anche sociale e politica. Che però non deve diventare, come avverte Toni Morrison, "un'astrazione, una causa": perché è anche e in primo luogo "una questione personale. Non si tratta solo di noi, si tratta di me e di te". 

Né l'amore per la causa deve farci dimenticare, come dice Patrizia Valduga (che ho già citato qui), che la storia della lingua è anche storia delle idee del passato: di pregiudizi, discriminazioni, superstizioni che non possiamo pretendere di cancellare con un colpo di spugna. Ce lo ricorda Valeria Della Valle nella lettera di risposta alle richieste di modifica di alcune voci del dizionario Treccani frutto del lavoro redazionale di generazioni di esperte ed esperti. 

Tenere a mente la dimensione storica della nostra lingua (che pure - con buona pace dei puristi - porta le tracce di architettricidottrici, lettrici, e perfino di una professora) è un atto dovuto per linguisti e linguiste. Loro, nostro compito sarebbe anche quello di sensibilizzare all’idea che non tutti i discorsi polemici portano necessariamente al raggiungimento di un accordo: un esempio è offerto dal dibattito francese sul velo nelle scuole, analizzato da Ruth Amossy, autrice del volume Apologia della polemica, recentemente tradotto dal francese. Secondo la studiosa israeliana, possiamo e dobbiamo elaborare una “retorica del dissenso” che educhi a gestire il disaccordo, evitando la polarizzazione delle opinioni e la tendenza a delegittimare l’avversario. 

Fondamentale è anche ricordare che le parole percepite come "ostili" possono ferire, ed è compito delle istituzioni trovare rimedi e lenitivi: il "politicamente corretto" da questo punto di vista può funzionare da strumento di difesa per le minoranze oppresse. Perciò è giusto promuoverne l'uso, ma senza imporlo dall'alto, senza ledere il diritto all'autodeterminazione dei soggetti interessati (non a caso i governi, i ministeri, le regioni, i comuni, le università che diffondono delle linee guida per contrastare la discriminazione usano formule come "si consiglia, si raccomanda…") e rispettando la grammatica di una lingua, che è garanzia di intercomprensione al di là delle microcomunità nelle quali ci si riconosce

Nello sforzarci di usare un linguaggio non offensivo, poi, dovremmo ricordarci che la convivenza di opinioni diverse è vitale all’interno di una democrazia: quando difendiamo la libertà di espressione non dovremmo erigere cancelli - ce lo ricorda l’americana Suzanne Nossel, autrice del volume Dare to speak. E quando mettiamo sotto accusa la cultura dell'odio, dovremmo evitare di alimentarla con il flaming virtuale, magari chiedendo la testa dei maschilisti o delle femministe d'antan. 

Infine, come donne che si autodefiniscono o vengono riconosciute "brave", dovremmo distinguere la bravura dalla bravezza: perché la lingua è un serbatoio di stereotipi in un senso e nell'altro. Al maschile, l'aggettivo bravo porta con sé una connotazione di ferocia rapinosa e impunita che al femminile per fortuna non c'è. O non ancora. 

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AGGIORNAMENTO: Parliamo di lingua politica al femminile a Lingua Batte (23 gennaio 2022)

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Di seguito, per chi volesse approfondire, la bibliografia scientifica essenziale che ho preparato nel 2020 per le Linee guida sulla visibilità di genere nella comunicazione istituzionale del mio Ateneo (i testi linkati sono leggibili online).

Con un'avvertenza: bisogna distinguere i suggerimenti da "Grammatica italiana" (quelli relativi alla corretta flessione dei nomi femminili) da quelli che pertengono alla dimensione del "Manuale/Codice/Dizionario di stile" a uso di redazioni, uffici ecc. alle prese con la scrittura di testi (qui si parlerà eventualmente di espedienti grafici come l'asterisco finale, accettabili in una e-mail aziendale ma non in un bando pubblico). E, soprattutto, tenere distinti diversi usi sociali della lingual'uso militante e mobilitazionista della lingua proprio dell'attivismo (che passa oggi per proclami social più che per collettivi, manifestazioni e tazebao) è altro rispetto all'uso istituzionale della lingua, all'uso quotidiano e colloquiale, all'uso con fini artistici. L'uso comune riposa su convenzioni frutto di un accordo storicamente condivisi dall'intera comunità, le regole grammaticali (come l'accordo di genere) non sono negoziabili e l'evoluzione della lingua segue ritmi naturali che non possono essere forzati da interventi autoritari (come ha mostrato l'esperienza della politica linguistica in età fascista).


Agenzia delle Entrate, Linee guida per l'uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere, Prefazione di Claudio Marazzini, 2020.

Carla Bazzanella, Genere e lingua, in Enciclopedia dell’italiano, diretta da Raffaele Simone, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. I., 2010, s.v.

Saveria Capecchi, La comunicazione di genere. Prospettive teoriche e buone pratiche, Roma, Carocci, 2018.

Stefania Cavagnoli, Linguaggio giuridico e lingua in genere. Una simbiosi possibile, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2013.

Stefania Cavagnoli, Laura Mori (a cura di), Gender in legislative languages. From EU to national law in English, French, German, Italian and Spanish, Berlin, Frank & Timme, 2019.

Fabio Corbisiero, Pietro Maturi, Elisabetta Ruspini (a cura di), Genere e linguaggio. I segni dell’uguaglianza e della diversità, Milano, Franco Angeli, 2016. 

Maria Vittoria Dell'Anna, Genere e rappresentazione del femminili nei testi del diritto e dell'amministrazione in Italia, "Kwartalnik Neofilologiczny", LXVI, 2/2019: 353-360.

Valeria Della Valle, Rita Fresu, Cecilia Robustelli, Carla Marcato, La lingua e il femminile, la lingua al femminileSpeciale          Treccani - Lingua Italiana, 2012.

Francesca Dragotto (a cura di), Grammatica e sessismo. Questione di dati? Lavori del Seminario interdisciplinare (2012), vol. 1, Roma, Universitalia, 2012.

Francesca Dragotto (a cura di), Grammatica e sessismo. Lavori del Seminario interdisciplinare (2014-2015), vol. 2, Roma, Universitalia, 2015.

Patrizia Gabrielli (a cura di), Elette ed eletti. Rappresentanza e rappresentazioni di genere nell’Italia RepubblicanaRubbettino, Soveria Mannelli, 2020. 

Giuliana Giusti, Susanna Regazzoni (a cura di), Mi fai male… Atti del Convegno (Venezia, Auditorium Santa Margherita, 18-19-20 novembre 2008), Venezia, Cafoscarina, 2009 (parte II: Mi fai male... con le parole).

Yorick Gomez Gane (a cura di), «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, con interventi di Giuseppe Zarra e di Claudio Marazzini, Firenze, Accademia della Crusca, 2017.

Silvia Luraghi, Anna Olita (a cura di), Linguaggio e genere. Grammatica e uso, Roma, Carocci, 2006.

Carla Marcato, Lingua e genere, in Manuale di linguistica italiana, a cura di S. Lubello, Berlin, de Gruyter, pp. 357-364.

Gianna Marcato (a cura di), Donna & linguaggio, Padova, Cleup, 1995. 

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, a cura del gruppo di lavoro MIUR coordinato da Cecilia Robustelli, Roma, MIUR, 2018.

Stefano Ondelli (a cura di), Le italiane e l'italiano: quattro studi su lingua e genere, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2020.

Graziella Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Cagli (PU), Settenove, 2014.

Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l'uso dell'italiano, Roma, FNSI-GIULIA, 2014 (Prefazione di Nicoletta Maraschio).

Cecilia Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto “Genere e linguaggio. Parole e immagini della comunicazione”, Firenze, Comune di Firenze, 2012.

Cecilia Robustelli, Pari trattamento linguistico di uomo e donna, coerenza terminologica e linguaggio giuridico, in La buona scrittura delle leggi, a cura di Roberto Zaccaria, Atti del convegno (Roma, 15/9/2011), Roma, Camera dei Deputati, 2012, pp. 181-198.

Cecilia Robustelli, Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere, Roma, Accademia della Crusca e la Repubblica, 2016  (Postfazione di Claudio Marazzini).

Cecilia Robustelli, Infermiera sì, ingegnera no?, in I temi del mese (2012-2016), a cura di Claudio Marazzini, Firenze, Accademia della Crusca, 2016, pp. 11-13.

Cecilia Robustelli, Lingua italiana e questioni di genere. Riflessi linguistici di un mutamento socio-culturale, Roma, Aracne, 2018.

Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1987.

Maria Serena Sapegno (a cura di), Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole, Roma, Carocci, 2011.

Anna Maria Thornton, Quando parlare delle donne è un problema. In A.M. Thornton, M. Voghera (a cura di), Per Tullio De Mauro. Studi offerti dalle allieve in occasione del suo 80° compleanno, Roma, Aracne, 2012, pp. 301-316.

Anna Maria Thornton, Per un uso della lingua italiana rispettoso dei generi, Università dell'Aquila, 2020 (Prefazione di Paolo d'Achille).