Sono stata sollecitata, da chi aveva letto il mio pezzo sul mastrocolismo, a intervenire sul libro uscito di recente per La Nave di Teseo, firmato dalla coppia Paola Mastrocola e Luca Ricolfi. Ho letto il libro ma non ho trovato argomenti nuovi rispetto a quelli che mi ero già impegnata a decostruire (nuovi sono i dati, che però sono sempre "presi", nel senso che si sceglie quali presentare e come presentarli in funzione delle tesi da dimostrare). Ritrovo anzi argomenti pretestuosi, come la difesa dell'analisi (il)logica eretta a baluardo contro il degrado culturale. Sono nel frattempo uscite ottime e documentate recensioni - come quella di Vincenzo Sorella per doppio zero o quella di Gianluca Argentin e Orazio Giancola per l'Indice - che renderebbero inutili commenti dettagliati sui limiti del libro che una prelettura avrebbe potuto segnalare all'incauto (o studiatamente cinico) editore.
Ho deciso perciò di parlare di un altro libro, recentemente uscito in Francia, che tratta il tema della disuguaglianza da tutt'altro punto di vista. Scientificamente molto più convincente e politicamente illuminante perché capace di trasformare lo sguardo.
Si intitola Enfances de classe. De l'inegalité parmi les enfants ed è un monumentale lavoro collettivo (oltre 1200 pagine) diretto da Bernard Lahire, il sociologo che ha raccolto in Francia l'eredità di Pierre Bourdieu.
Mi piace parlarne anche perché dubito che verrà tradotto in italiano (non è successo per il precedente libro di Lahire, La culture des individus. Dissonances culturelles et distinction de soi, del 2004, ideale continuazione del volume La distinzione di Pierre Bourdieu). E temo che una simile ricerca non vedrà mai la luce in Italia: frutto del lavoro di un'équipe interdisciplinare di 17 ricercatori, condotta nel corso di quattro anni nelle scuole materne di diverse località francesi grazie a un cospicuo finanziamento statale.
Mentre la formula che ha guidato i nostri Mastrocola e Ricolfi è "se il figlio dell'idraulico non arriva a fare il notaio forse è perché ha fatto una scuola che non lo ha preparato", il punto di partenza della ricerca francese è la constatazione che "i bambini vivono nello stesso momento nella stessa società, ma non nello stesso mondo".
Nella società francese le disuguaglianze, a lungo ammantate dietro il vessillo dell'identità nazionale da difendere in tempi di crisi migratorie e attacchi terroristici, sono state portate alla ribalta dal movimento dei Gilets jaunes. Benché denunciate nel discorso pubblico e misurate dagli istituti statistici, rimangono inesplorate nei loro effetti sulla vita quotidiana delle persone "dal punto di vista di ciò che è accessibile agli uni e inaccessibile agli altri, possibile in misura quasi illimitata per taluni e completamente impossibile se non impensabile per altri" (p. 12).
L'obiettivo della ricerca francese è stato appunto quello di mostrare le disuguaglianze sociali mettendoci sotto gli occhi le differenze concrete tra gli stili di vita di 35 bambini appartenenti a classi sociali diverse, osservati nel momento della prima socializzazione, prima dell'ingresso nella scuola primaria. Perché è in questi anni che si gioca la formazione di quelle competenze e di quegli atteggiamenti (modi di sentire, pensare, giudicare, parlare, comportarsi) che pongono basi durature per la futura riuscita (o per la sconfitta) scolastica e professionale.
Se gli studi sociologici sull'infanzia degli ultimi decenni hanno sottolineato la agency (agentività) dei bambini, cioè la loro capacità di agire indipendentemente dalle strutture sociali in cui sono inseriti, in questo studio i bambini vengono ricollocati nei contesti familiari dai quali rimangono fortemente dipendenti e da cui sono condizionati in ragione delle diverse risorse economiche, culturali, sanitarie, linguistiche degli adulti di riferimento. Ci si allontana insomma da una visione della prima educazione come sequenza di apprendimenti universali (della motricità, del linguaggio ecc.) estranei agli effetti delle differenze sociali per indagare l'impatto del diverso capitale economico e culturale dei genitori sul percorso scolastico dei figli. Senza per questo sfociare in un determinismo che vedrebbe ciascuno ancorato al proprio destino familiare.
Come negare del resto l'influenza che il quartiere in cui si abita, le scuole che si frequentano, gli sport che si possono praticare, gli amici che ci si può fare, lo spazio che si ha a disposizione in casa, il tipo di alimentazione e di cure sanitarie cui si ha accesso abbiano conseguenze decisive sui più piccoli? La crisi sanitaria ha mostrato con forza ed evidenza a ogni insegnante quanto pesino queste differenze.
Certo, la scuola mantiene un ruolo importante nel contrasto delle disuguaglianze: ruolo che ha conquistato nel corso del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, nel quale - come ricorda Lahire - si è passati da una riproduzione delle disuguaglianze a base familiare (si diventava operai se figli di operai) a una determinazione scolastica dei destini professionali (si diventa operai per debolezza del percorso formativo, abbandono scolastico, bocciatura agli esami). Ma dopo aver letto i toccanti "ritratti sociologici" di bambini che il libro ci offre, si esce persuasi della tesi che si intende dimostrare: il peso dei meccanismi strutturali e storicamente durevoli di produzione delle disuguaglianze e la precocità con cui in agiscono nel destino delle persone. E non in senso astratto, ma nelle piccole cose che fanno la quotidianità infantile, a partire dagli scambi linguistici.
Sono rimasta molto colpita dai ritratti "sociolinguistici" dei bambini (da Libertad, Ashan, Balkis, fino a Maxence, Anais, Mathilde: già i nomi parlano per loro) realizzati grazie a interviste strutturate e piccoli "esercizi" (prove di elicitazione di immagini, statiche e in movimento) volti a indagare l'estensione del vocabolario dei bambini, la padronanza della sintassi e la capacità di esplicitare in forma narrativa sequenze di eventi. Ne emergono "pratiche linguistiche più o meno conformi alle attese scolastiche" (per esempio nell'attenzione alla pronuncia corretta, nella capacità di spiegare e raccontare o di giocare con le parole), "un rapporto con la cultura scritta più o meno avanzato" (legato alla maggiore o minore esposizione alla lettura di storie), "l'apprendimento più o meno precoce di lingue straniere, in particolare dell'inglese" (p. 56). Insieme con diverse attitudini: "maggiore o minore fiducia in sé, tendenza più o meno marcata ad atteggiamenti ascetici o viceversa combattivi, competitivi o obbedienti" (p. 57).
In fondo, anche Mastrocola e Ricolfi nel loro libro ci consegnano un paio di autoritratti sociologici dell'infanzia, sia pure datati al secolo scorso e agli anni precedenti la scolarizzazione di massa. Così la piccola Mastrocola potrebbe riconoscersi nella ragazza di classe popolare che, pur disponendo di un minore capitale culturale rispetto al futuro marito, "può approfittare di un certo numero di qualità, come la disposizione alla docilità, alla calma, all'agire accurato che la rendono più adatta all'ambiente scolastico" (p. 61). Capirebbe inoltre di essere cresciuta in un periodo storico in cui gli studi umanistici non solo erano incoraggiati per le donne, ma erano considerati socialmente più desiderabili di quanto non lo siano nei nostri tempi, dopo che le sfide scolastiche e culturali - anche in un paese ancorato alla cultura classica come il nostro - si sono spostate verso il polo scientifico (le STEM).
Ci sarebbe da imparare - e da offrire materiale per politiche scolastiche efficaci - a realizzare uno studio simile in Italia. Ma qui si preferisce bearsi del tempo passato, dare la colpa alla democratizzazione della scuola, rimproverare ai nostri figli e nipoti di non possedere le nostre stesse opportunità e capacità, invecchiando da conservatori, convinti di aver fatto la propria parte da bravi privilegiati (per destino, fortuna o merito scolastico).
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