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mercoledì 2 dicembre 2020

Un continuo interagire: tra scienza e grammatica (sui libri di Rovelli e Pievani)

Ho letto due libri di scienziati divulgatori di cui vorrei parlarvi. Sono libri presenti nelle classifiche e nelle vetrine delle librerie, facili da trovare. 



Il primo, Helgoland di Carlo Rovelli, è diventato un caso editoriale e quasi di costume, dopo le comparse in tv del celebre fisico, le imitazioni e la circolazione virale di immagini (con o senza gatti schrodingeriani).  

L'aspetto che mi interessa di questo libro è la concezione "relazionale" degli oggetti della fisica: se la fisica classica ci ha abituati a pensare il mondo in termini di oggetti cose enti, la fisica quantistica (di cui Rovelli è un originale interprete) punta invece sulla relazione. Il mondo è un continuo interagire.

"Gli oggetti sono caratterizzati dal modo in cui interagiscono" - scrive Rovelli a p. 84. E ancora: “non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni” (p. 88). Questo implica, tra l’altro, che una stessa sequenza di eventi può essere definita e detta in molti modi: “Le proprietà degli oggetti esistono solo nel momento delle interazioni e possono essere reali rispetto a un oggetto ma non rispetto a un altro” (p. 90).

Questi stessi concetti possono essere facilmente trasposti sul piano della lingua (la natura relazionale del segno linguistico è uno dei concetti centrali della linguistica moderna) e della grammatica nella prospettiva "nuova" che cerchiamo di proporre: se la grammatica tradizionale ci ha abituati a pensare in termini di classi di parole e paradigmi di forme, la grammatica valenziale punta invece sulla relazione. La lingua è un continuo interagire.

Le parole non si definiscono in base a proprietà intrinseche, o a partire dalle relazioni con la realtà extralinguistica, ma sono caratterizzate dal modo in cui interagiscono tra di loro: ne consegue, per esempio, che una stessa parola può essere attribuita a classi diverse (mangiare, per esempio, può essere sia un nome sia un verbo). Solo vedendo una parola all'interno della frase potremo stabilirne natura e funzione.

Per quanto riguarda il verbo, che è parola relazionale per eccellenza, la proprietà che lo definisce sintatticamente, la valenza, è un tipo di "legame". Tendiamo a pensare il verbo come una parola con una certa valenza (quindi con un certo numero di legami), ma è solo l'interazione con altri nomi e la loro disposizione all'interno della frase a consentire al verbo di dispiegare il proprio significato, che varierà a seconda della configurazione sintattica degli altri costituenti di frase. Il significato del verbo (specie per i verbi di alta frequenza) può infatti variare sensibilmente in relazione al numero e al tipo di argomenti cui si lega per formare una frase.  


L'altro libro, Finitudine dell'evoluzionista Telmo Pievani, intavola un dialogo tra lo scrittore Albert Camus e il biologo Jacques Monod, intorno all'etica della conoscenza. Temi avvincenti: la consapevolezza della necessità del caso come motore dell'evoluzione; la dialettica tra ciò che è stabile e quanto può mutare senza un fine preordinato; l'accettazione della ("tenera" - direbbe lo straniero di Camus) indifferenza dell'universo alla nostra finitezza. 

Temi che potrebbero essere declinati in chiave linguistica, per renderci più sensibili alla variazione, all'imperfezione che si insinua nella trasmissione-tradizione e diventa fattore di innovazione. 

Pievani, poi, ci ricorda che "siamo scimmie bambine, dunque fragili", che rimangono a lungo dipendenti dalle cure e dalla protezione parentale, ma - in compenso - hanno più tempo e maggiore plasticità cerebrale per l'apprendimento, il gioco, la sperimentazione e l'immaginazione. 

La sintassi di una lingua partecipa di questa dimensione spontaneamente creativa. Ed è compito di noi educatori (ed educatrici in primis) non irregimentarla precocemente in pseudo-regole che bloccano i processi naturali di sviluppo, nella fretta di anticipare le tappe culturali della scolarizzazione secondaria.

Gioverà, a chi si appresta a insegnare, la lettura del bel contributo del neuroscienziato Leonardo Fogassi al volume Montessori e le neuroscienze. Cervello mente educazione (2019).     

giovedì 29 ottobre 2020

Luminosa festosa viva: la grammatica di Rodari (intervista a Daniela Marcheschi)


È da poco uscito il Meridiano delle Opere di Gianni Rodari, curato da Daniela Marcheschi: un volumone di 1800 pagine sottili (rigorosamente senza figure!) corredato di un quaderno illustrato a colori (curato da Grazia Gotti) dedicato alle opere dei tanti illustratori e illustratrici (compresa la figlia Paola) che hanno accompagnato con le loro immagini i testi di Rodari nel tempo.

Il volume raccoglie la produzione narrativa, poetica e saggistica di Rodari, consegnandoci un ritratto a figura intera dello scrittore. Ne parliamo con Marcheschi: letterata, critica e studiosa di storia culturale, epistemologia, antropologia delle arti, già curatrice per i Meridiani Mondadori delle opere di Collodi e di Pontiggia. 



Rodari è considerato uno scrittore per l'infanzia, ma il suo lavoro di "scardinatore della lingua" (come lo definiva Tullio De Mauro) si rivolge solo ai più piccoli? Le sue opere per ragazzi con quali altri opere per grandi dialogano?

No, si rivolgeva a tutti: «Tutti gli usi della parola a tutti» era il suo motto, com’è noto. La lingua è un bene di cui il bambino ha diritto; ed è un dovere degli adulti, della società, consentirgli di apprenderla al meglio, di “abitarla” al meglio, per poter diventare un uomo libero. Non a caso Rodari parla di «civiltà dell’infanzia», nel senso di ciò che si deve costruire perché il bambino possa crescere in piena armonia: da un lato, istituzioni come scuole, biblioteche, ludoteche e simili, dall’altro, letteratura, cinema, teatro, ecc., per l’infanzia. In Rodari, che è originale in questo, si ritrova in filigrana tutto il miglior Novecento educativo-pedagogico: da Maria Montessori a Don Milani, da Mario Lodi a Danilo Dolci, giusto per fare qualche nome.

Rodari nota come il bambino sia diverso dall’adulto, ma pensa sempre i bambini insieme con gli adulti, e gli adulti insieme con i bambini: in ciò non tradisce mai il giovane maestro che era stato. Lui stesso non può pensare di scrivere i suoi libri senza farne una verifica incontrando scolaresche su scolaresche e discutendoli con loro. I suoi libri sono per tutti, e da leggere insieme. Generazioni diverse, ma insieme.

Sul piano letterario come si possono incontrare il bambino con l’adulto? Appunto sul piano di una lingua dell’uso, di un linguaggio chiaro, di uno stile semplice, di ritmi-danza corporea che permettono quella che Marcel Jousse chiamava «la manducazione della parola», dell’umorismo e della satira. Non per nulla Rodari scrive ad esempio per gli adulti versi comici e umoristici, che pubblica nella rivista satirica romana «Il Caffè» di Giambattista Vicari; e in Parole per giocare (1979) include versi per bambini e altri per adulti. Pensare a Rodari come a uno scrittore moderno di dual audience e di double audience, che scrive via via per i bambini e per i grandi e, insieme, per grandi e piccoli e viceversa, è fondamentale per capirne la complessità del lavoro.


Grammatica della fantasia è un titolo ossimorico, almeno così doveva essere recepito nei primi anni Settanta, e forse ancora oggi nel senso comune. Che letture ci sono dietro la valorizzazione dell'immaginazione combinatoria di Rodari? Che influenza ha avuto nella costruzione del libro l'originaria destinazione didattica delle lezioni che compongono il libro?  

La nostra cultura era ed è ancora talmente imbevuta  di  romanticismo (attraverso l’esperienza decadente) che tendiamo a vedere ovunque opposizioni antitetiche, eppure già Kant  - lo sapeva Rodari che lo aveva bene assimilato fin dalla giovinezza - aveva osservato come immaginazione e intelletto siano due facoltà dell’essere umano tutt’altro che in antitesi, sebbene in grado di esplicarsi in modo distinto. Pertanto, secondo l’ausipicio di Novalis - «Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare» -, Rodari ha preso a indagare la Fantastica nel tentativo di chiarirne le “leggi” e il funzionamento: Introduzione all’arte di inventare storie recita non per niente il sottotitolo di Grammatica della Fantasia.

La combinatoria di Rodari è, così, particolare: non confonde mai la regola con la costrizione di un vincolo assunto a priori, che non può non tralasciare leggi dei materiali, intenzionalità e finalità artistiche, le reciproche determinazioni fra soggetto che scrive e oggetto scritto. La tecnica, la regola sono sempre il punto di partenza, mai l’unica strada forzatamente percorribile. Infatti il finale delle sue storie presenta sempre uno scarto, è poco prevedibile, al contrario, ad esempio, di quanto accade con il Calvino più tardo (ad esempio: Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979).  

Grammatica della fantasia è un’opera di straordinaria complessità, un tutto: strumento didattico-pedagogico, saggio, autobiografia, narrazione aperta, riflessione critica sulla lingua e la letteratura, conversazione amichevole ecc. ecc. Ha dietro una sterminata quantità di letture di ogni sorta: di «psicologia», «pedagogia», «didattica», «sociologia», ma anche di storia, grammatica, filosofia, scienze, musica e via ad libitum. Non si può infatti, «fantasticare nel vuoto», Rodari scriveva in La letteratura infantile oggiEsercizio di insegnamento e, insieme, di  apprendimento, Grammatica della Fantasia è il libro-giocattolo per eccellenza: unisce piccoli e grandi e fa della fantasia un modo più intenso di vivere, come del resto lo è il pensiero; stringe il libro di lettura alla vita in un vincolo di necessità e di piacere profondo: perché è senz’altro anche un modo per insegnare a leggere le fiabe o il limerick, oltre che a produrli. Nel libro-giocattolo di Rodari sono mirabilmente sintetizzati l’azione educativo-didattica, l’estetica, la ricerca tecnica, l’esperienza e il gioco.


Grammatica della fantasia si occupa di "grammatica delle storie", ma tante storie e filastrocche rodariane mettono in scena anche la grammatica della lingua e la sua terminologia. Che importanza ha avuto sul piano educativo la sua valorizzazione creativa dell'errore?  

Notevole, perché le filastrocche sulla punteggiatura, sugli errori dei bambini, consentono proprio ai piccoli di memorizzare la forma sbagliata e quella corretta: il verso della filastrocca, il ritmo giocoso si stampa nella memoria grazie alla festa del corpo che ascolta e “inghiotte” la parola. Siamo ben lontani dal lassismo pedagogico, da una eccessiva indulgenza o dallo scadimento della sostanza didattica. Anzi. Rodari, che aveva dentro di sé la gioia di studiare e imparare, trasmetteva in questo modo ai bambini la gioia della conoscenza,  la bellezza di sapere.


Marcheschi, lei ha curato anche il Meridiano di un altro classico per l'infanzia, Carlo Collodi. Il lavoro di edizione di testi ottocenteschi e di testi novecenteschi ha comportato grandi differenze? Ha trovato analogie tra le operazioni culturali dei due autori e tra le diverse immagini di scuola e di infanzia proposte?

Il lavoro filologico è comunque sempre necessario per qualsiasi autore si voglia studiare: dal testo, dalla lettera dei testi, bisogna partire, proprio per evitare equivoci, chiacchiere inutili e approssimative. La filologia è base fondamentale per l’esercizio della interpretazione e della critica, perché ci mette a confronto con la storicità della parola e del testo, con i suoi significati, e illumina lo stile di un autore.

In genere l’Ottocento si studia meglio del Novecento: gli archivi di 200 anni fa non sono chiusi o soggetti a tanti vincoli come invece possono essere spesso quelli che conservano documenti più vicini nel tempo.

Nel caso di Collodi e Rodari - che pubblicano, correggono e ripubblicano i loro testi su varie testate, e più volte, magari recuperando anche redazioni già accantonate -, bisogna talora procedere in analogo modo. Se ne deve “leggere” bene non solo il percorso variantistico, ma anche il contesto specifico a cui una redazione è destinata e perché. Oltre a differenze che qui non vale la pena di enumerare, la grande diversità è che le opere di Collodi sono oggetto di una Edizione Nazionale, che ho l’onore di presiedere e che ne sta dando finalmente, tra le altre cose, pure una edizione critica. Per Rodari una simile edizione manca; e in occasione del Meridiano una delle tante fatiche è stata anche quella di cercare di individuare la direzione e le peculiarità degli usi scrittori dell’Autore. Per il confronto delle versioni dei testi usciti sui giornali e in edizioni a stampa, per aver assecondato in uniformità i criteri indicati implicitamente da Rodari nelle singole opere e in generale nella sua scrittura, si può anzi dire che il volume mondadoriano costituisce un primo avvio a verifiche storico-filologiche più puntuali di quanto in genere non si sia fatto finora*, e di cui dà conto la Nota all’edizione.

Quanto all’idea di infanzia, Collodi e Rodari presentano affinità: c’è un comune rispetto del bambino e dell’infanzia, concepita come un momento di festosità e conoscenza. Le spettano la libertà di fare esperienza e il dovere di andare a scuola; il diritto di avere una esistenza che le permetta di esplicarsi in serenità e il dovere di rapportarsi al mondo degli adulti, familiarizzando con le responsabilità; il dovere di mantenere la propria integrità morale e cercare la verità. Del resto, fra il Collodi, che nasce nel 1826 e muore nel 1890, e il Rodari, che muore quasi cento anni dopo nel 1980, all’età di 60 anni, c’è un terreno che vorrei dire, con un paradosso ma non troppo,  “d’intesa”: il Risorgimento, con tutti gli slanci che tanti giovani partigiani, uno fu appunto Rodari, sentirono proprio come radicati nella matrice risorgimentale. Non era poco; e non per nulla Collodi era andato a combattere, come volontario, nelle prime due guerre d’Indipendenza.

Sia Collodi sia Rodari cercavano di creare una letteratura per l’infanzia nuova: non moralisticamente pedagogica, non severa né consolatoria. Non propongono ai loro piccoli lettori una visione edulcorata della società e del mondo, che sono mostrati loro in tutta la cattiveria e pesantezza che vi possono albergare: povertà, ingiustizia, falsità, fatica, morte. Poi, naturalmente, la scuola ai tempi di Collodi era diversa: più mnemonica, più “inquadrata”, sebbene un testo come Quand’ero ragazzo, in Storie allegre (1887) la dica lunga sulla scuola ottocentesca. Non va dimenticato poi che, a lungo, i libri collodiani furono sgraditi al Ministero della Pubblica Istruzione, perché  “concepiti in modo così romanzesco, da dar soverchio luogo al dolce, distraendo dall’utile; e sono scritti in istile così gaio, e non di rado così umoristicamente frivolo, da togliere serietà all’insegnamento” (cfr. Editori a Firenze nel secondo Ottocento [...], a cura di I. Porciani, Prefazione di G. Spadolini, Firenze, Olschki, 1983, pp. 480-481). Collodi nutriva del resto una idea della infanzia come rivoluzionaria in sé – si pensi alla parentela stretta fra il Gavroche di Victor Hugo e Pinocchio –, di cui ho scritto in  Per una idea di infanzia (e dell'età adulta): immagini del bambino nella narrativa europea dell'Ottocento, in «Enthymema» (VI, 2012,  pp. 101-117, I ediz. : Madeira, 2008).


Ci dia una sua definizione della lingua di Rodari.

Luminosa, festosa: viva.


*Si veda, per esempio, il testo di Grammatica della fantasia, per la prima volta ricontrollato ed emendato da refusi e indicazioni bibliografiche imprecise.

P.S.: Se volete leggere due belle recensioni al Meridiano, a questo link trovate quella di Roberto Carnero, qui quella di Gino Ruozzi. 


domenica 11 ottobre 2020

Alice nella selva oscura (sulla nuova grammatica De Santis-Prandi)

...... CI SIAMO

La nuova grammatica dell'italiano, essenziale e ragionata, sbocciata durante il periodo della prima quarantena (ma risultato di un decennio e oltre di riflessioni), è arrivata. Ed è anche recensita

Questa è la copertina che vedrete, "senza figure" (direbbe Alice nel Paese delle Meraviglie), di un color lavanda molto glamour (aggettivo che nasce dalla trasformazione della parola latina gramatica) e a lettere sfalsate (come nelle copertine più recenti dei libri di Rodari):


 Questa, invece, è la copertina che non vedrete, ma che ci sarebbe piaciuta per più motivi:


Innanzitutto il libro, che esce a ridosso dell'anno dantesco e del Dantedì, è dedicato a lui (a ser Durante Alighieri) per quel "naturale amore" verso la lingua materna (il "volgare" e il suo potere generativo) che ci ha condotti fin qui.

Poi, il libro inizia con una domanda: "Per quale porta siamo entrati nel territorio della grammatica?". E sì, il riferimento è all'Alice di Lewis Carroll, la bambina che deve farsi piccola o crescere a dismisura per entrare in una porta non pensata per lei, per le sue dimensioni ridotte ma non microscopiche, e addentrarsi in un territorio noto (quello della lingua materna) con una mappa pensata per un altro, più antico, territorio (quello del latino).

Cito dall'introduzione al secondo volume di una Grammatica delle due lingue italiana e latina compilata a uso dei ginnasi della Lombardia dal canonico Ferdinando Bellisomi, stampata a Milano nel 1827 dalla tipografia Pogliani e venduta al prezzo di 2 lire austriache:

Fu sciagura della grammatica italiana che i primi, i quali si diedero a compilarla, avvisassero di doverla ritrarre col linguaggio che già vedevano adoperato per la grammatica latina. Di qui venne che un tempo fu insegnato che la lingua italiana aveva casi e declinazioni e genere neutro e verbi deponenti e verbi neutri e gerundi e supini ecc. ecc., e sebbene col volger degli anni e col sorgere di una sana ed illuminata filosofia, qualche parte ella abbia dismesso di queste anticaglie, nondimeno ne conserva ancora, e, tolta per tal modo la semplicità del linguaggio didascalico, che dovrebbe rispondere alla semplicità delle cose, la verità perde assai di quella luce che è guida alle menti per giungere a lei e per darle grata accoglienza.

Al prezzo di 6 lire toscane era venduta in quegli stessi anni (in un'Italia disunita) la seconda edizione di una Grammatica ragionata della lingua italiana uscita a Livorno dai torchi di Luigi Angeloni nel 1834 (ma la prima edizione è del 1828), opera di Carlo Antonio Vanzon. Un esempio dello sforzo di produrre strumenti nuovi, ispirati a una "sana e illuminata filosofia" (la scuola di Port-Royal, che aveva prodotto nel 1660 la Grammaire generale et raisonnée, opera del grammatico Claude Arnauld e del filosofo Antoine Lancelot), che avessero "per iscopo il far riflettere l'alunno su ciò che sa, anzi che insegnargli la propria lingua" - cito dalla Prefazione dell'Autore all'opera. L'obiettivo era quello di "alleggerire il peso dell'ammaestrare, e abbreviare, di gran tratto, il cammino".

La metafora del cammino è quella che ci ha guidati nella stesura dell'opera. Non abbiamo guardato alle altre grammatiche, con lo scrupolo di aggiungere ogni minima eccezione, ma ripensato alle nostre con l'obiettivo di trovare una più agevole e "diritta via". Disboscando per ridurre all'essenziale la materia. Modificando, se necessario, le etichette che indicassero la direzione da seguire. Procedendo per via induttiva: attraverso il ragionamento guidato che parte da esempi concreti, li analizza e li confronta per arrivare poi alla formulazione della regola o della definizione.  

Rivolgendoci ad adulti, quindi potendo fare riferimento (a differenza delle grammatiche scolastiche) a «una normatività di carattere diverso, più elastico, più "ragionevole a ragionevole"», per citare Antonio Gramsci (Postille alla Grammatica di Panzini).  

Una grammatica ragionevole e "ragionata": nella disposizione delle parti, nello sviluppo di ciascuna di esse e nella descrizione dei fatti di lingua. 

Per procedere razionalmente abbiamo ritenuto necessario partire dalla frase, e da questa muoverci guardando verso l'alto (ai periodi e ai testi in cui la frase è destinata a entrare) e verso il basso (alle parti del discorso e alle unità intermedie, i sintagmi, che compongono la frase). Abbiamo cercato di districarci tra regole e scelte, smettendo l'abito dei censori e osservando senza pregiudizi la realtà mutevole della lingua circostante (che non si confà sempre alla logica, né all'economia). Ci siamo sforzati di capire e di mostrare in che modo possibilità diverse di espressione possano rispondere alle varie esigenze comunicative: dare forma a un pensiero, scambiare informazioni, persuadere, produrre bellezza.  

Non è stato facile. Ci sono state esitazioni, ripensamenti, rinunce più e meno sofferte (dovendo stare in 260 pagine...).

Non si tratta di una grammatica che risolve tutti i dubbi, ma che invita a porsene di nuovi, più fondati. Per questo motivo abbiamo scelto di inserire un glossario con rimandi interni, ma non un indice analitico delle forme. Abbiamo poi potuto rinunciare alla bibliografia perché è evidentemente la stessa del nostro Manuale di linguistica e di grammatica italiana uscito nel 2019.

Non è una grammatica normativa, ma una grammatica descrittiva, che sostituisce al principio di autorità quello della responsabilità individuale.  

Un obiettivo ambizioso, che si traduce in un testo agile e comprensibile. Perché individuare con chiarezza le regole fondamentali e condivise è il presupposto necessario per orientare le nostre scelte di parlanti consapevoli del potere delle parole. Consapevoli anche dell'importanza - ce lo ricorda Paul Celan nei suoi versi - di "non dividere il sì dal no".

Buon viaggio, allora, con l'augurio - già espresso da Salvatore Corticelli nella sua grammatica (1745) - che "l'udir ragionare alcuno ben pratico delle cose grammaticali" possa "arrecarvi maraviglioso diletto". 


P.S. Il volume ha come sottotitolo Per imparare, per insegnare. Perché per insegnare a riflettere sulla lingua bisogna prima aver imparato: non basta richiamare alla memoria il sapere scolastico. Bisogna emanciparsene, per rifare da capo il percorso. Noi siamo partiti in avanscoperta, ma non al posto vostro. A ognuna e a ognuno il compito di sperimentare una strada nuova.

venerdì 2 ottobre 2020

Penso di essere un verbo (Magris e Sebeok in dialogo)


Nel suo ultimo libro, Croce del sud. Tre vite vere e improbabili (Mondadori, 2020, p. 36 s.), Claudio Magris scrive:

Come ogni lingua, ma con intensità particolare, quella araucana si raccoglie, si agglutina intorno al verbo, si avvolge nella sua "selva intricata", in un groviglio di forme, parole e soprattutto di tempi verbali, non dissimile da quello della giungla. La lingua sembra essere non soltanto e forse non tanto l'espressione del vissuto quanto il vissuto stesso. 

Intervistato da Paolo Di Paolo per La lingua batte (27 settembre), Magris precisa che "la lingua in noi è quella parte che dà valore o rifiuta o ama o rigetta la vita che noi stiamo facendo [...] e il verbo certamente in una lingua è la componente per eccellenza che può dire l'esistenza di tutta una vita".

Mi piace accostare a questa affermazione quella del semiologo Thomas A. Sebeok, che nel saggio Penso di essere un verbo (Sellerio, 1990) riprende la frase scritta da Ulysses S. Grant, 18mo presidente degli Stati Uniti, poco prima di morire (1885): "io penso di essere un verbo e non un pronome personale. Un verbo è qualsiasi cosa che significhi essere, fare o soffrire". 


Se il pronome personale è pronto a designare chiunque se ne impadronisca, il verbo appare a Sebeok un "segno vitale" in grado di condensare il senso di un'esistenza. 

Il semiologo fa notare la quasi contemporaneità della frase di Grant con un'altra celebre affermazione "finale": quella di Ch. S. Peirce per cui "l'uomo è un segno" (1905 ca.). 

Sebeok cita anche questo libro, di pochi anni precedente il suo (1970): "una sorta di pastiche con illustrazioni", opera di un pensatore originale (Fuller), che identifica la propria energia creativa con quella del verbo: 




Pensarci come pronomi ci pone come segni vuoti (io è chiunque prenda la parola). Pensarci come nomi (per esempio scrivente, lettrice) ci reifica e, nel dare una forma precisa alle nostre ambizioni, ci blocca in un'istantanea. Pensarci come verbi (scrivo, leggo) restituisce alla nostra esistenza la sua mobilità e imprevedibilità.  

Scrive Alice Ceresa alla voce Grammatica del suo Piccolo dizionario dell'ineguaglianza femminile (Nottetempo, 2020):

Le parole non si possono usare liberamente e secondo ispirazioni personali, né a questo modo interpretare; bensì esse rappresentano frammenti concettuali prestabiliti e convenzionali che ai popoli vengono faticosamente insegnati nella prima infanzia, insieme con i rudimenti appunto grammaticali che ne permettono l'estensiva e corretta combinazione significante per le mille circostanze della vita e delle morte.  

Già, perché con i nomi e i pronomi, in italiano, la scelta si impone: i nomi vanno declinati (al singolare o al plurale, tenuto conto del loro genere intrinseco o di quello del referente nel caso dei nomi mobili), i pronomi prevedono un paradigma complesso (che prevede distinzioni di persona, numero, genere, caso, umano/non umano, tonico/atono), ma i verbi di più, se è vero che li coniughiamo tenendo conto del tempo, del modo, della persona, del numero, in alcuni casi anche del genere del soggetto, dell'aspetto verbale e della diatesi (attiva/passiva). 

Complessità grammaticale e complessità dell'esistere, norme sociali e norme linguistiche (queste ultime si danno sempre insieme alla possibilità della loro violazione), convenzionalità ed emancipazione linguistica. Ne parleremo questa domenica, a La lingua batte. 

Lontano da noi, intanto, il dibattito sul linguaggio inclusivo si muove in direzioni diverse: Noam Chomsky è tra i firmatari della lettera (apparsa su Harper's Magazine il 7 luglio 2020) in difesa del free speech negli Usa (dove è uscito il libro di Suzanne Nossel, Dare to speech). In Francia 32 linguisti hanno firmato una lettera aperta (apparsa su Marianne il 18 settembre 2020) che mette in guardia dai pericoli della scrittura "inclusiva" (posizioni simili a quelle di Nossel, a favore di una "retorica del dissenso" che accolga posizioni contrastanti all'interno del dibattito pubblico, sono state però espresse da Ruth Amossy, analista del discorso di cui è stato recentemente tradotto in italiano il volume Apologie de la polémique. Si veda inoltre questo splendido articolo di Alice Krieg-Planque). 



P.S.: Per sé, Sebeok sceglie il verbo interpretare, a riassumere (e far coincidere) la sua concezione della vita e quella del proprio lavoro. E voi, quale verbo scegliereste?


N.B.: Se volete conoscere meglio Alice Ceresa, potete ascoltare questa bella discussione tra studiose. 




martedì 22 settembre 2020

La frase urbana (sul libro di J.Ch. Bailly)

Avete mai pensato alla città come a un fraseggio? Avete mai guardato al paesaggio da una prospettiva linguistica?



Jean-Christophe Bailly, filosofo e storico francese del paesaggio, ci consegna con questo libro una riflessione originale sulla struttura delle nostre città, che non rispondono più (come nel passato) a progetti unitari e ci parlano ormai con "verbi non coniugati". Il fraseggio urbano è composto di enunciati nominali in cui verbi all'infinito e nomi appaiono giustapposti anziché subordinati l'uno all'altro all'interno di un chiaro disegno complessivo. 
Che cos'è che produce l'effetto-città in questo paesaggio apparentemente disgregato e dissonante? Come nella sintassi coupée tocca all'interlocutore collaborativo stabilire connessioni per ricostruire un significato di insieme, così nello scenario metropolitano sono i nostri passi a connettere parti che fino a quel momento erano ammutolite nel loro isolamento.
Il passeggiatore-flâneur, già tratteggiato da Walter Benjamin, torna a pensare camminando, a confrontarsi con la lingua-città (un paragone caro a Ludwig Wittgenstein), a mettere in relazione strade e caseggiati, a cercare "quel soprassalto di intensità che chiamiamo senso". Parliamo nella lingua e camminiamo nella città. La città, come la lingua, è un sistema aperto, che stimola libertà di andare e di pensare.   
Una città è una somma di combinazioni realizzate e, ogni volta, in ogni percorso, la realizzazione di una nuova combinazione, di una nuova frase (p. 34).   

Sono arrivata a questo libro, tradotto in italiano nel 2016 per Bollati e Boringhieri, attraverso un altro piccolo testo, apparso in francese quest'estate: Naissance de la frase (Nous, 2020), in cui Bailly si allontana dalle quinte del paesaggio per riflettere sull'origine del linguaggio (nella specie umana e in ciascuno degli esseri umani che vengono al mondo). Nel primo dei due saggi che compongono la raccolta, Bailly conia (e coniuga) un verbo, phraser, per dire la potenza ri-creatrice della lingua che cerca un ritmo per uscire dal silenzio originario (ce monde dénué de noms et de verbes) e dire l'indicibile. Al centro, di nuovo, c'è la frase, non le parole, unità isolate.

Dès lors qu’une phrase s’invente, elle rejoue le scénario pourtant à jamais inconnu de la naissance du langage.

sabato 12 settembre 2020

Dicono di noi (La linguistica della divulgazione)

Si parla anche di questo blog a p. 19 dell'articolo La divulgazione della linguistica in rete, firmato da Emanuele Miola e raccolto negli Atti del IV Convegno Interannuale della SLI, intitolato La linguistica della divulgazione, la divulgazione della linguistica



L'autore - dopo aver apprezzato la comprensibilità del linguaggio, la numerosità delle recensioni e la varietà dei temi trattati (non di sola valenza... ) - si chiede se questo sito possa essere considerato "divulgativo" nel senso stretto del termine, essendo "gli argomenti trattati... rivolti principalmente a chi ha a che fare con la scuola, specie in qualità di insegnante". 

Io penso che l'ambizione di questo blog sia proprio quella di rivolgersi a un pubblico definito: gli insegnanti, che sono "lavoratori intellettuali" (per riprendere la formula di Giorgio Bini) e come tali hanno bisogno di studiare sempre. Con questi insegnanti, che lavorano nelle scuole, condivido la coerenza e la costanza dell'impegno. Con loro ho il piacere di condividere anche letture e idee che potranno approfondire attraverso lo studio personale, applicare in classe o accantonare come pretese velleitarie. 

In questo libro, per esempio, troveranno un bel saggio di Cecilia Andorno (Divulgazione e dintorni: i manuali, gli insegnanti e gli alunni di fronte al "mestiere del linguista") che - oltre a presentare un'interessante sperimentazione didattica - chiarisce i termini della questione: "ci muoviamo in uno spazio di confine fra la divulgazione e la formazione: ... non si tratta di rivolgersi a un pubblico di interessati non specialisti per soddisfarne occasionali curiosità, ma di formare ... persone [in primo luogo insegnanti] che non sono però destinate a diventare specialiste e professioniste del settore". 

In questo spazio ci muoviamo, in questo spazio ci incontriamo. Linguisticamente.

giovedì 3 settembre 2020

Un secolo (e oltre) di metodo Montessori

150 anni fa nasceva a Chiaravalle, nelle Marche, Maria Tecla Artemisia Montessori, donna di valore (celebrata in molte recenti biografie, alcune esplicitamente rivolte a un pubblico di giovani donne, con un obiettivo di empowerment) e che ha prodotto valore (basti vedere la diffusione di libri e materiali ispirati al metodo montessoriano presenti sugli scaffali delle librerie per ragazzi).




Come in molti altri casi (si pensi a don Milani), la spinta a innovare i modelli tradizionali di insegnamento è nata dal lavoro con bambini "difficili", in scuole differenziali di quartieri popolari, dunque ai margini del sistema scolastico. Di qui - in ragione di una dinamica non infrequente nelle società capitaliste, e che gli economisti rappresentano con un grafico sotto forma di U rovesciata - il Metodo Montessori si è diffuso fino a diventare marchio registrato e patrimonio di pochi, utenti delle scuole paritarie, figli della buona borghesia internazionale. 

Sono berline sportive e neri suv
che varcano gli alti cancelli e di là scaricano
i poveri figli dei ricchi alla scuola privata.

Ne avrà cura tutoria dietro le reti e le insegne
la scuola fino a sera, e torneranno
al crepuscolo i genitori e la loro flottiglia
tenacemente giustificata lungo il giorno,
cromatura per cromatura, investimento
su investimento in assenza di impicci. 

I figli, nelle pause,
corrono fuori a fumare nervosi a gridare qualcosa
o restano silenziosi contro un muro.
Non bisticciano quasi mai, non manifestano
pena o interessi particolari per gli effetti e le cause.

Si allenano a diventare come i padri come le madri.

(Scuola per ricchi, Fabio Pusterla)

 

Ho parlato dei materiali Montessori dedicati alla riflessione grammaticale (le "scatole") in un vecchio post

Qui potete leggere invece un artcolo scientifico, pubblicato sulla rivista "Studi di grammatica italiana", che ho dedicato al trattato montessoriano di Psicogrammatica, scritto negli anni Trenta del secolo scorso e uscito postumo pochi anni fa. Un'opera che, come e più delle altre, dobbiamo reinserire nel contesto storico in cui ha visto la luce: per valorizzare le idee più innovative di Maria Montessori ed evitare applicazioni anacronistiche di idee ormai superate.

Se volete approfondire il tema dell'importanza della manualità per lo sviluppo delle funzioni cognitive (una delle intuizioni più fertili, io credo, di Montessori) alla luce delle recenti scoperte neuroscientifiche, vi consiglio di leggere il contributo di Leonardo Fogassi al volume Montessori e le Neuroscienze.  


venerdì 28 agosto 2020

Le rose e gli afidi (sulla lingua degli albi illustrati)

NEW! Da questo post è nato un articolo uscito sulla rivista "Infanzia" (3/2020), intitolato Parole, paroline, paroloni.   

Solo se è solo a leggere, o ascoltare, 
il piccolo lettore, o ascoltatore,
non sa che cosa fare
delle parole difficili.
Se solo non sarà, saranno come
cose dal suono arduo e sconosciuto,
che nascondono sensi: 
giochi prima segreti, misteriosi,
strani e stranieri, ma subito nuovi
e possibili nomi del mondo.

Questi versi di Roberto Piumini sono la risposta più efficace a un articolo uscito il 23 agosto sul supplemento domenicale del Sole 24 ore, a firma di Matteo Motolese, intitolato C'erano una volta... gli afidi, dedicato alla lingua degli albi illustrati e delle fiabe per bambini. 




Lo spunto dell'articolo viene dalla lettura di un albo dell'illustratore statunitense Erik Carle. Non il celebre piccolo bruco mai sazio (in inglese the very hungry caterpillar), ma la coccinella prepotente (in una precedente traduzione, uscita per Emme edizioni nel 1981, era semprearrabbiata), che infastidisce gli altri animali più grandi e più forti di lei ripetendo: "Fatti sotto, battiti con me" (la traduzione attuale è di Glauco Arneri). 
Il libro è cartonato, la tecnica pittorica è quella del collage, le pagine e i caratteri crescono con l'aumentare delle proporzioni degli ignari sfidanti della coccinella, mentre un piccolo orologio segnala il passare del tempo e il progredire della storia, finché la coda di una balena non rimanda la coccinella al punto di partenza: una foglia piena di afidi - la colazione ideale per due coccinelle (se solo la coccinella prepotente fosse in grado di dividere il pasto con una compagna delle sue proporzioni). 
Si tratta, come spesso nei libri di Carle, di una storia basata sull'accumulo e la ripetizione: di schema narrativo e frasi ad alto tasso di formularità - al provocatorio "fatti sotto...", e alla risposta riluttante dello sfidante di turno ("se proprio lo vuoi"), segue la battuta insolente della coccinella ("lasciamo perdere, sei troppo piccolo/a per me").    




Anch'io ho letto decine di volte questa storia con i miei figli, insieme con le altre di Eric Carle (il piccolo ragno che tesse e tace, la lucciola tutta sola, il piccolo grillo zitto zitto - con carillon integrato nell'ultima pagina, che faceva sentire il frinito). Sono piccoli tesori di etologia (e di terminologia naturalistica) che hanno insegnato ai miei figli a osservare con stupore e curiosità il mondo degli animali, aiutandoli anche a riconoscere dinamiche relazionali complesse (perché da grandi incontreranno tante personalità: alcune silenziosamente luminose e operose, altre megalomaniche e manipolatrici sotto le mentite spoglie di adorabili portafortuna - e se sapranno riconoscerle con l'aiuto di una storia ascoltata da bambini, anziché col DSM-IV alla mano, tanto di guadagnato!). 
Non ricordo nessuna impressione di straniamento linguistico (né mio né loro) alla lettura dell'albo (che era il loro preferito perché, a differenza degli altri libri di Carle, potevano maneggiarlo da soli grazie alle dimensioni ridotte, la robustezza delle pagine e la disposizione scalare). Del resto abbiamo sempre avuto rose in terrazza, e a ogni bocciolo si riaccende la lotta con gli afidi che vorrebbero farci colazione. Io detesto gli afidi, le cocciniglie e tutti gli altri parassiti che rovinano il mio lavoro di giardinaggio urbano. Nel libro si vedono bene, piccoli e scuri, sempre in gruppo (infatti parliamo di afidi al plurale), intenti a smangiucchiare e far arricciare le foglie. Così come è ben raffigurato il cervo volante (il primo degli involontari sfidanti della coccinella), che pure i miei figli non avevano mai visto dal vero. 
I nomi di animali e piante sono parole che appartengono alla realtà, prima ancora che ai libri illustrati: a volte basta l'esperienza della vita in campagna per impararle, ma è vero che i libri illustrati possono essere un valido supporto a quella che i linguisti chiamano la "competenza referenziale" - la capacità di nominare le cose quando le vediamo (ma anche in loro assenza, purché le conosciamo e le riconosciamo). 
C'è poi un'altra componente della padronanza lessicale: la "competenza inferenziale", ovvero la capacità di riconoscere i rapporti tra parole (sapere per esempio che l'afide, la coccinella e il cervo volante sono insetti, che volano perché hanno le ali ecc.). Entrambi le capacità agiscono nell'apprendimento del lessico: i bambini piccoli mostrano una sorprendente capacità di acquisire parole nuove sulla base di poche informazioni, collegando una catena di suoni non interrompibile (come àfide, col suo suono sdrucciolo) alla corrispondente rappresentazione mentale (animaletto che rosicchia le foglie, animaletto che piace alle coccinelle, pidocchio delle piante, e così via - procedendo verso definizioni sempre più astratte e formalizzate). Perché non si tratta soltanto di abbinare la parola alla cosa (le parole non sono etichette e non si insegnano con l'indice puntato). 
Avendo a che fare con future insegnanti di scuola materna e primaria ed educatrici di nido, ho imparato poi a distinguere tra "capacità epilinguistica" (basata su conoscenze inconsapevoli, procedurali e non dichiarative, che portano alla scoperta dei significati) e "capacità metalinguistica" (riflessione consapevole ed esplicita sulla lingua). Perché esiste, nel sottobosco delle discipline educative, una letteratura che esplora anche questi temi: in che modo i bambini si avvicinano al senso di una parola o di una frase, quali strategie usano per rappresentarsene il significato. Rodari già ne parlava nella sua Grammatica della fantasia (1973):
Non potremo mai cogliere il momento in cui il bambino, ascoltando una fiaba, si impadronisce per assorbimento di un determinato rapporto tra i termini del discorso, scopre l’uso di un modo verbale, la funzione di una preposizione: ma mi sembra certo che la fiaba rappresenta per lui un abbondante rifornimento di informazioni sulla lingua. Del suo lavorio per capire la fiaba, fa parte il lavorio per capire le parole di cui consta, per stabilire tra loro analogie, per compiere deduzioni, allargare o restringere, precisare o correggere il campo di un significante, i confini di un sinonimo, la sfera d’influenza di un aggettivo. 
Tornando alla mia esperienza genitoriale, confrontata con quella del collega: anch'io, come lui, ho incontrato nei libri che avevo scelto per i miei figli alcune parole che non conoscevo o che comunque non usavo. L'ho sempre considerata una fortuna, per me e per loro. Non mi sono preoccupata di "cambiare, semplificare, avvicinare la lingua" (forse perché i libri scritti o tradotti male li avevo già scartati) né di spiegare significati. Se e come certe parole abbiano agito nel loro immaginario l'ho scoperto dopo. E vorrei raccontare alcuni episodi per mostrare che no, non è vero che "i lemmi difficili sono in grado di lasciare tracce fertili solo in un pubblico già adulto" (non condivido neppure l'affermazione secondo cui gli occhi dei bambini di 3/4 anni "si fissano solo sulle figure": basta leggere il libro di Lilia Teruggi per capire con quanta attenzione i bambini già a questa età osservino il testo provando a fare ipotesi sulla lingua scritta).
Quest'estate ho sentito mio figlio (11 anni) chiamare "paguro Bernardo" (come il protagonista di un altro albo illustrato di Carle) il mollusco che aveva trovato scandagliando il fondale sabbioso con la maschera. L'ho sentito anche ridacchiare con i suoi cugini più grandi mentre ripetevano versi mandati a memoria da piccoli e ripescati per rinsaldare con fierezza la loro "cuginanza": "Gli Snicci stellati sulle pance hanno stelle. Gli Snicci comuni hanno solo la pelle. Non son stelle grandi, ma piccine abbastanza da farti pensare che non hanno importanza" (dall'albo del Dr. Seuss, nella traduzione di Anna Sarfatti). 
Mia figlia di 14 anni mi ha fatto invece notare un'espressione che aveva appena letto in un classico: una ridda di pensieri. Non aveva mai incontrato questa parola in un libro, eppure le suonava familiare e riusciva a intuirne il significato. Forse perché si ricordava della ridda selvaggia che i mostri del libro di Maurice Sendak "attaccano" insieme con il piccolo Max, nella splendida traduzione di Antonio Porta (anche questa pubblicata per la prima volta da Emme edizioni nel 1981, e poi riproposta da Babalibri nel 1999). Il libro è stato recentemente riedito da Adelphi in una nuova traduzione, di Lisa Topi: qui la scomposta ridda selvaggia è stata addomesticata in un finimondo che i nuovi compagni di avventura dovrebbero "scatenare". Abbiamo guadagnato in leggibilità, certo, ma non necessariamente in qualità letteraria (personalmente, lamento anche la caduta della reduplicazione espressiva crebbe crebbe crebbe, che il poeta Porta aveva oculatamente inserito, memore del naso di Pinocchio e del proprio orecchio di bambino in ascolto delle fiabe italiane). Né ci abbiamo guadagnato in termini di potere euristico della lingua, che in un libro per ragazzi dovrebbe aprire mondi, non chiuderli come si fa con una finestra quando si scatena una tempesta (qui trovate una bella lettura di questo classico per l'infanzia, che ricorda agli adulti la complessità della costruzione della personalità tra norma e avventura, spontaneità e maschere; se invece volete conoscere le fonti della grande pittura che hanno ispirato Sendak leggete qui). Sendak era ben consapevole di tutto ciò (la citazione, che trovo tradotta in questo bel post, è tratta dal volume di S.G. Lanes, The Art of Maurice Sendak, Abradale Abrams, 1993):

«Credo che i bambini intuiscano il significato profondo di ogni cosa. Sono solo gli adulti che per la maggior parte del tempo leggono la superficie. Sto generalizzando, naturalmente, ma le mie illustrazioni non sorprendono i bambini.  Loro sanno cosa c’è in queste storie [di Grimm]. Sanno che matrigna significa madre, e che il suffisso -igna è lì per evitare che gli adulti si spaventino. I bambini sanno che ci sono madri che abbandonano i loro bambini, emotivamente, non letteralmente. Talvolta vivono con questa realtà. Non mentono a se stessi. E vorrebbero sopravvivere, se questo accade. Il mio obiettivo è non mentire loro.»

Finora, abbiamo parlato di libri in traduzione (non di testi in lingua originale) e di traduttori molto consapevoli: il che dovrebbe essere la norma nella traduzione di albi illustrati, ma purtroppo così non è per un motivo piuttosto banale. Non sempre gli albi illustrati sono capolavori della letteratura senza etichette, come in questi casi. E poi gli albi illustrati hanno poco testo da tradurre: così, quando la lingua fonte è una lingua nota (come l'inglese o il francese) nulla vieta che ci si rivolga a un redattore interno o a un amico o a un figlio... Peccato che i nodi vengano subito al pettine, producendo danni molto maggiori rispetto a quelli provocati da una cattiva traduzione per adulti: perché i bambini e i ragazzi hanno più orecchio di noi adulti e sentono subito le stonature, le frasi inautentiche - frutto di calchi dalla lingua dell'originale, o di una scarsa conoscenza dei codici della letteratura fiabesca e dei grandi testi per ragazzi in italiano. Quanti "piccoli conigli" che avrebbero potuto essere chiamati "coniglietti", quante ammonizioni con un possessivo di troppo ("mangia i tuoi spinaci"), frasi con pronomi soggetto ridondanti (ricalcate su lingue che devono esprimere obbligatoriamente il soggetto davanti al verbo)... per non parlare dei "falsi amici" che tradiscono sempre i traduttori meno esperti (l'aquilone chiamato "cervo volante", per dire), o delle espressioni idiomatiche che in italiano non si sono mai sentite ("trovare scarpe per i propri piedi", anziché "pane per i propri denti").  
Questo, dal mio (e non solo) punto di vista, è il limite maggiore dei libri per i più piccoli, che oggi vengono sempre più spesso importati (anche perché in altri paesi le case editrici sono molto più disposte a investire nell'illustrazione di qualità, che fa la qualità di un albo illustrato). Quello della riscrittura di classici (ridotti e tradotti in un italiano più moderno) è un altro problema ancora, che pure ha a che vedere con la qualità e la quantità massiva di (ri)proposte editoriali in tempi di crisi economica (evito di parlare dei non-libri, ovvero dei prodotti cartacei derivati da cartoni animati, video amatoriali e compagnia brutta). Il problema, dunque, esiste, e vale la lena discuterne.

Tenendoci ai testi per bambini in lingua originale (o autotradotti dall'autore), esemplari le parole di Leo Lionni (nel libro L'immaginario come mestiere, Electa, 1990, p. 26)
Nei libri per bambini ci dev'essere una metafora decifrabile, ma anche qualcosa di indecifrabile. Sono stato fra  primi a voler usare parole incomprensibili e a lottare con i redattori per questo: non credo che il bambino debba crescere in un'atmosfera in cui tutto gli è chiaro. Sono convinto che le cose che un bambino non capisce agitino la sua immaginazione, accendano la sua curiosità.   
Possiamo citare anche quanto scrive un celebre e celebrato scrittore per ragazzi, E.B. White in una intervista pubblicata nel 1969 su The Paris Review:   
Anyone who write down to children is simply wasting his time. You have to write up, not down. Children are demanding. They are the most attentive, curious, eager, observant, sensitive, quick, and generally congenial readers on earth. They accept, almost without question, anything you present them with, as long as it is presented honestly, fearlessly, and clearly.

Some writers for children deliberately avoid using words they think a child doesn’t know. This emasculates the prose and, I suspect, bores the reader. Children are game for anything. I throw them hard words, and they backhand them over the net. They love words that give them a hard time, provided they are in a context that absorbs their attention. 

Questo è il punto. Non bisogna avere paura delle parole difficili, purché non siano fini a sé stesse (sono disposta a perdonare anche quell'emasculate...). Come fa la protagonista del libro di White intitolato La tela di Carlotta (nell'originale The Charlotte's Web): una ragnetta che insegna all'amico maialino parole difficili per renderlo speciale agli occhi dei padroni e provare a salvarlo dal suo destino di porco. 

Il difficile è catturare l'attenzione con la qualità delle proposte: ma come rimanere indifferenti alla ragnetta letterata che aveva intuito molto prima degli psicologi cognitivisti il ruolo che ha il linguaggio nella costruzione dell'immaginario? Se poi il piccolo ascoltatore o la piccola ascoltatrice vorrà conoscere (o avere conferme su) il significato di una parola contenuta in una storia avvincente, ci chiederà "che cosa vuol dire?". Oppure, semplicemente, "Come? Cosa?" (è il titolo di un albo di Fabian Negrin che mi hanno fatto conoscere le mie studentesse). E noi proveremo a spiegarlo, oppure chiederemo al piccolo di provare a indovinare, con l'aiuto del contesto: sarà l'occasione per reimparare le tecniche di definizione che usavamo prima di scoprire il metalinguaggio dei dizionari: "è come...", "è quando...", "sembra...", "assomiglia a". 

Anche più avanti negli anni, alle prese con il testo che più spesso offre occasioni di incontro con "parole difficili" o con accostamenti inconsueti di parole (la poesia), sarebbe importante incoraggiare ragazze e ragazzi a spiegare il senso (perché non di mero significato si tratta) delle parole o delle combinazioni non note, senza correre alla glossa in nota (anche perché nella migliore poesia non esistono sinonimi: esistono solo parole giuste, e il poeta le conosce). Bisognerebbe inoltre porgere più spesso la poesia con la voce, anziché in forma scritta, per incoraggiare a sentire il ritmo e usarlo come via di accesso al senso.

Vale la pena leggere quanto racconta uno dei grandi poeti del nostro Novecento, Giorgio Caproni, che insegnò come maestro elementare nel quartiere popolare di Monteverde, a Roma, e per un anno girò nelle scuole a leggere poesie di altri autori (in Sulla poesia, Italo Svevo, 2016. L'episodio è ricordato anche dalla figlia Silvana nella testimonianza contenuta all'interno del volume Poeti in classe, a cura di Evelina De Signoribus e Elena Frontaloni, Italic Pequod, 2017). 

Non è vero che i bambini non comprendessero. Non comprendevano se io gliela scrivevo alla lavagna e gliela lasciavo inerte nel linguaggio grafico, ma se, pur dicendola male, gliela porgevo con la voce credo che rimanessero a bocca aperta. Io mi ricordo una volta

Forse perché della fatal quiete / Tu sei l’imago

Poi mi misi a ridere, dissi, ironicamente: «figuriamoci se voi capite che cos’è la fatal quiete». «Aho!», fecero, «è la morte!». Avevano capito benissimo. 

Viva la poesia detta, oltre che letta! Vivano le fiabe e la "voce remota".


P.S.: A proposito di storie che insegnano a scendere a patti con gli altri e con i mostri che ci portiamo dentro, avete mai letto Una zuppa di sasso? E la brava Beatrice Alemagna, che si autotraduce dal francese?  Se poi volete  lavorare a scuola con gli albi, potete leggere questo post e questo (dedicato alla riflessione grammaticale).

P.P.S.: Sono consapevole che - in un paese di non-lettori - i figli dei professori rappresentano una minoranza di bambini, avvantaggiati almeno per quanto riguarda la disponibilità di libri, di un lettore o una lettrice forte disposti a leggere per/con loro (mediando se necessario), di un modello linguistico più ricco della media. I buoni libri per l'infanzia, però, non parlano solo a loro: riescono a catturare l'attenzione anche dei bambini più resistenti: i "ragazzi di strada" - come li chiamava Collodi - pronti dare i libri in pasto ai pesci; quelli che vengono da famiglie diffidenti nei confronti della cultura e della pretesa superiorità del sapere appreso sui libri. Proprio a loro, anzi, può cambiare la vita. Per questo è importante che ogni insegnante impari a valutare i libri per bambini e ragazzi, e a suggerire i libri giusti - quelli che avvicinano a (e non allontanano da) scuole e biblioteche, che invogliano a procurarsi altri libri e a esplorare nuovi mondi possibili, che innescano processi di cambiamento. Libri attuali, senza "paroloni" inutili, ma capaci di fornire quella ricchezza linguistica e immaginativa necessaria per i lettori e le lettrici in formazione.   

Per idee di attività di ampliamento del lessico, vi rimando a questo mio articolo e al libro recensito in questo post.

domenica 26 luglio 2020

Grammatica e fantasia (nuova edizione)

Era uscito in prima edizione per Carocci nel 2011. Ora il libro di Veronica Ujcich (con la collaborazione di Sabrina Cannavò), Grammatica e fantasia. Percorsi didattici per l'uso dei verbi nella scuola primaria, riappare in una nuova edizione.
Oltre a una diversa copertina e a una Premessa che spiega le ragioni del ritorno sul tema a distanza di nove anni, il libro si avvale della più ampia esperienza delle autrici (che sono insegnanti di scuola primaria) ed è pertanto arricchito di nuovi "esperimenti grammaticali" sul verbo (da proporre non prima della terza primaria!).


Il metodo è quello della "scoperta", messo a punto da Maria Pia Lo Duca. Alla "scuola padovana" appartiene del resto l'autrice principale, che ha alle spalle un dottorato in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie nell'Università di Padova, da cui era nato il volume I tempi nei testi. Analisi dei tempi verbali in testi narrativi prodotti a scuola (CLUEP, 2010).
L'autrice ha inoltre in cantiere, insieme con altre insegnanti-ricercatrici attive nel GISCEL Veneto (Stefania Tonellotto, Diana Vedovato, Vera Zanette) e sempre per lo stesso editore, un ampio progetto di Grammatica dei bambini in tre volumi (dedicati rispettivamente all'analisi delle parole, all'analisi della frase e agli altri temi e problemi dell'educazione linguistica nella scuola primaria, ancora una volta affrontati con metodologia laboratoriale per scoperta). Il primo (sottotitolo: Le parole) è appena uscito. 




Ma veniamo alla nuova edizione dell'agile e fortunato libro dedicato ai verbi, il cui titolo richiama - nella "fantasia" - anche il metodo rodariano delle storie fantastiche (Gianni Rodari è un autore spesso citato e ampiamente utilizzato nella costruzione delle attività operative). La consapevolezza della difficoltà, per bambini di 8 anni, di comprendere ragionamenti astratti (necessari per attivare la riflessione sulle strutture grammaticali) suggerisce all'autrice di ridurre al minimo i termini tecnici e di avvalersi di immagini, storie, piccole drammatizzazioni; nella nuova edizione, inoltre, molte attività pensate per la terza primaria sono state posticipate alle classi successive.
Il libro si articola in quattro capitoli: il primo dedicato ai tempi del verbo, il secondo al funzionamento dei verbi nel testo narrativo, il terzo alla costruzione della frase a partire dal verbo secondo il modello valenziale (questo capitolo è stato scritto da Sabrina Cannavò). Un quarto capitolo mostra esempi delle attività suggerite nel testo. Esercizi di rinforzo, osservazione e verifica sono presenti anche a conclusione dei primi due capitoli, mentre il terzo si chiude con un confronto tra il vecchio (la classificazione tradizionale dei complementi) e il nuovo (la suddivisione degli elementi periferici della frase in circostanti ed espansioni).

Se le pratiche scolastiche si accontentano spesso della memorizzazione dei paradigmi dei verbi, questo libro guida le e gli insegnanti a creare percorsi che aiutino bambine e bambini di 8-10 anni a riconoscere la categoria del verbo e le funzioni dei tempi verbali (dell'indicativo!) nel loro contesto d'uso: nei testi letti e in quelli prodotti dai bambini stessi.
La Premessa chiarisce le condizioni alle quali il metodo può essere agevolmente applicato: sarà l'insegnante a scegliere come suddividere il percorso continuo delineato dalle lezioni, in base ai tempi della classe; la classe dovrà poter contare su un'ampia presenza di parlanti nativi, che possano pronunciare giudizi sulla grammaticalità degli enunciati; in caso di presenza di bambini non italofoni, sarà necessario prevedere approfondimenti di tipo contrastivo sui verbi in lingue diverse (un confronto è possibile anche con l'inglese, insegnato - più o meno - già nella primaria). 
Oltre a illustrare i benefici del metodo per l'inclusione (il supporto degli elementi grafici favorisce i bambini con DSA, il metodo dialogico favorisce la partecipazione dei bambini APC - che pure possono costituire un problema...), la Premessa mette in luce una condizione importante per lavorare in modo induttivo e laboratoriale:
avere una classe che possa formarsi come comunità di apprendimento: la difficoltà più grande da questo punto di vista non è di tipo cognitivo, come potrebbe sembrare a prima vista, o di competenze pregresse, quanto piuttosto di tipo comportamentale. È necessario che la classe sia in grado di affrontare una lezione stimolante e a tratti non prevedibile, che ciascuno sia capace di rispettare il turno di parola dei compagni e di proporre le proprie riflessioni una volta recepite quelle degli altri.

Insomma, per cominciare a riflettere in modo attivo e autonomo sulla lingua, è necessario non solo aver imparato a leggere e scrivere con sicurezza e aver sviluppato il pensiero astratto, ma anche aver acquisito sicurezza emotiva e quelle competenze orali che sono alla base dell'esercizio di una cittadinanza attiva.

mercoledì 24 giugno 2020

Smuoviamo qualcosa: per la riapertura delle scuole

 Chiara Panzieri, docente di ruolo nella secuola secondaria, ha elaborato una proposta di mozione sulla riapertura delle scuole a settembre, da presentare al proprio Collegio Docenti.
Si tratta di un testo articolato, che raccoglie le riflessioni fatte da una collega che ha avuto la capacità di leggere ascoltare discutere e pensare, e il privilegio di osservare - durante un anno di aspettativa trascorso in Francia - le diverse scelte in materia di istruzione fatte da due governi alle prese con l'emergenza sanitaria.



A questo link potete leggere alcune sue riflessioni, pubblicate sulla testata "La scuola e noi".


Qui di seguito il testo del modello di mozione:


MODELLO proposta mozione Collegio Docenti su riapertura a settembre

Att.ne - MIUR tramite DS
- SINDACATI tramite RSU

Noi docenti della scuola ____________________________________________________ ,
riuniti in Collegio Docenti in data _________________________ ,  giunti quasi al termine di un’esperienza scolastica unica e necessaria, quella della DAD, dovuta alla situazione di emergenza sanitaria causata dalla diffusione del COVID19, dopo un sereno e costruttivo confronto e un’attenta e animata discussione,
DICHIARIAMO
- che la didattica a distanza, necessaria nel periodo di chiusura totale, non può essere una soluzione, neppure parziale, per il piano di ripartenza della scuola.
Se a settembre sarà necessario, per ragioni sanitarie, rispettare norme di distanziamento fisico, occorre trovare soluzioni – e risorse necessarie per metterle in atto – per tornare in presenza.
La crisi sanitaria che stiamo vivendo ci offre anche l’opportunità di un cambiamento, ma perché possa essere realizzabile occorre tornare a investire nell’educazione e nella scuola, come beni primari essenziali per un Paese, per la costruzione della società del futuro.
CHIEDIAMO
- che alunni e alunne e tutto il personale scolastico tornino da settembre a frequentare la scuola in presenza, che questo avvenga in sicurezza coerentemente con la situazione sanitaria del nostro paese;
- che il protocollo sanitario per il rientro sia non solo realizzabile, ma anche praticabile nell’esperienza scolastica e che tenga conto delle specificità educative, didattiche e pedagogiche della scuola;
- che la responsabilità dell’applicazione del protocollo sanitario sia condivisa e non ricada soltanto sulle scuole;
- che la scuola sia considerata dalla nostra politica una priorità e che le vengano quindi destinate attenzioni e risorse adeguate, coinvolgendo nella progettualità figure e realtà provenienti dal mondo della scuola;
- che vengano stanziati fondi per aumentare il personale, docente e ata, un personale qualificato e stabile, per la gestione di classi con un minor numero di alunni e alunne; per creare, reperire, immaginare più spazi e spazi diversi e per renderli adeguati; per aumentare il personale ausiliario e garantire la corretta pulizia di tutti gli ambienti scolastici;
- che si rivedano le modalità di collaborazione tra scuola ed educatori / mediatori culturali, figure professionali necessarie al funzionamento delle nostre scuole;
- che si riveda il profilo del docente, investendo sulla serietà del suo reclutamento, sulla sua formazione universitaria, iniziale e  in itinere e sulla sua retribuzione;
- che vengano attivate e/o rafforzate reti territoriali, coinvolgendo scuole, enti locali, terzo settore, al fine di arrivare a una progettazione condivisa nella creazione di un’offerta formativa territoriale per una scuola diffusa e aperta;
- che siano le scuole a guidare la progettazione sul territorio al fine di evitare il rischio di una mera esternalizzazione di attività e servizi;
- che si provveda da subito a una mappatura di nuovi spazi educativi possibili (biblioteche, teatri, cinema, musei, palestre, laboratori, sale polivalenti, associazioni, centri sportivi, palestre ecc.) in ogni quartiere, prevedendo anche nuovi percorsi e modalità di mobilità sicura e sostenibile intorno a ogni edificio scolastico;
- che si attivi un serio piano di edilizia scolastica (a partire da una nuova normativa sull’edilizia scolastica, l’ultima è del 1975) per realizzare nuovi ambienti e architetture per l’apprendimento.
In particolare ai sindacati chiediamo di sostenerci nelle nostre richieste e di aiutarci a immaginare anche forme possibili e sostenibili di protesta, soprattutto nel caso in cui ci venga impedito di tornare a scuola in presenza a settembre con tutti gli alunni e le alunne.
Riteniamo tutto ciò necessario e irrinunciabile, se vogliamo davvero che il prossimo anno (come dichiarato dal prof. Patrizio Bianchi, coordinatore della commissione ministeriale per la riapertura delle scuole) sia l’inizio di una stagione “costituente” per la scuola italiana, che realizzi finalmente la scuola immaginata e disegnata dalle Indicazioni Nazionali.