Stiamo assistendo a un fenomeno: i mali del nostro sistema di
istruzione vengono spesso denunciati pubblicamente non dalla scuola, ma
dall’Università e, a livelli più avanzati, dagli ordini professionali. Non si
contano le lamentele dei professori di Giurisprudenza sull’incapacità degli
studenti di quella Facoltà (la chiamo ancora così, anche se questa struttura è
stata cancellata) di redigere la tesi o anche solo una tesina in un italiano
accettabile. Alcuni docenti hanno deciso di eliminarle, perché sarebbero tutte
da riscrivere. Fanno seguito le lamentele dei presidenti degli ordini forensi,
nazionali e regionali, che denunciano l’impreparazione linguistica di molti
giovani avvocati. Sui concorsi che riguardano questa categoria e anche quella
degli aspiranti magistrati cali un velo pietoso (basta leggere le cronache dei
giornali a ogni tornata di tali concorsi). Non si contano neppure le lagnanze
per l’oscurità delle circolari ministeriali, dei testi normativi (perfino lo
schema preliminare del decreto per l’esame di italiano nella maturità!), degli
avvisi pubblici, criptici (che cos’è il “luogo dinamico di sicurezza” negli
aeroporti, se non un “percorso di fuga” in caso di pericolo?) o pletorici (le
Ferrovie dello Stato stanno consultando l’Accademia della Crusca per
migliorarli).
A questo
punto s’innesta la polemica sul numero chiuso per l’iscrizione alla Facoltà
umanistiche deliberato dalla Statale di Milano. Motivazione: l’insufficienza
numerica dei docenti e l’inadeguatezza delle strutture didattiche e di ricerca.
Tutto vero, per il blocco dei “ricambi” nelle assunzioni e per i tagli profondi
ai finanziamenti. Ma anche perché, è sottinteso, troppi giovani, scoraggiati
dalle prove di accesso alle altre Facoltà, vedono nelle “dolci” discipline
umanistiche (dolci purché non si tratti delle lingue classiche, della filosofia
e delle discipline linguistiche più scientifiche) come anche nella Facoltà di
Giurisprudenza i porti più aperti. Porti non difesi da precise corporazioni
professionali gelose del proprio prestigio e/o dei possibili alti redditi.
Altri Atenei si difendono di fatto dal forte afflusso con un altro deterrente:
molti corsi sono in inglese e quindi bisogna superare anche il requisito di una
forte anglofonia all’entrata e per tutto il percorso.
Lasciamo la
casistica e puntiamo al denominatore comune. L’Università da una parte, gli
ordini professionali dall’altra giudicano, apertamente o indirettamente,
un’ampia parte dei diplomati dalla nostra Scuola Secondaria impreparati per gli
studi superiori, che richiedono una buona capacità di comprensione del
linguaggio complesso. In altri termini: della lingua italiana nella sua forma
più strutturata, prima che nelle sue specificità settoriali (alla cui base, non
dimentichiamolo, c’è lo strato delle lingue classiche!).
L’italiano.
Ogni tanto lo si proclama, nella nostra scuola, come la disciplina centrale e
trasversale per tutti gli studi, ma di fatto non viene coltivato come tale,
anche qui per molti motivi, ma tutti riconducibili a una causa profonda: manca
ampiamente nel nostro mondo scolastico una cognizione scientifica del ruolo che
ha la lingua prima nello sviluppo
cognitivo generale dell’individuo. Tutto il curricolo di questo insegnamento
(per l’uso parlato e ancor più per l’uso scritto) è inficiato da errori di
impostazione che le scienze del linguaggio hanno messo da tempo in evidenza, ma
che non vengono conosciuti e riconosciuti nelle sedi responsabili: la
formazione universitaria dei futuri docenti; la tradizione dei nostri curricoli
scolastici ispirati alle “Indicazioni” ministeriali, ogni tanto ritoccate, ma
mai veramente ripensate; di conseguenza anche l’impostazione di molti dei libri
di testo, che non osano scalfire l’esistente.
Molto
dipende, se vogliamo andare più a fondo, dall’antica concezione
retorico-letteraria dei fatti linguistici. L’esistenza del nostro Paese nella
carta geopolitica d’Europa si deve ampiamente alla forza edificatrice delle
nostre tradizioni letterarie e artistiche (queste ultime molto meno considerate
nella scuola). Io stesso ho scritto, venti anni fa, un ampio saggio dal titolo L’italiano: dalla letteratura alla Nazione.
Ma far dipendere da questo dato storico l’impostazione generale
dell’insegnamento che ha ragioni e radici antropologiche molto più profonde
conduce a una serie di distorsioni dell’attività didattica. Insomma, la nostra
scuola deve ancora scoprire che l’italiano in Italia è la lingua prima, della quale il nostro cervello, se non vive in
ambiente paritariamente bilingue, deve servirsi per “conoscere” nella maniera
più ravvicinata e stabile il mondo: le cose e i fenomeni, e sviluppare su di
essi i ragionamenti, da quelli elementari a quelli più complessi, che si sono
formati in tutti i campi del sapere, specialmente attraverso la scrittura.
La
scrittura. Nella scuola Primaria “modernizzata” viene insegnata in maniera
sempre più approssimativa, per la mancata considerazione del complicato
processo cerebrale che consente il suo apprendimento, attraverso l’attivazione,
a fini linguistici, di un nuovo canale sensoriale, la vista, in aggiunta
all’udito, con l’apporto fondamentale delle operazioni della mano. Una
sottovalutazione che si accompagna da un lato alla convinzione che ormai serve
solo la scrittura elettronica (si dimostra di ignorare che lo scrivere a mano
coinvolge tutto il nostro corpo), dall’altro a un incontrollato desiderio di
molti insegnanti di “andare avanti”, per insegnare quanto prima la
“grammatica”, che ritengono necessaria fin dall’inizio (ma così non è) o per
elevare il proprio ruolo e far bella figura con i docenti della Media e con i
genitori. Intanto il bambinetto e la bambinetta leggono male e scrivono peggio,
beccandosi a volte, a torto, le qualifiche di dislessici e disgrafici, che
distorcono tutto il loro percorso scolastico successivo.
Qui mi fermo
e non procedo nel segnalare le lacune di scientificità e le deviazioni che
penalizzano l’insegnamento dell’italiano nella Scuola Secondaria, di primo e di
secondo grado. Accenno soltanto all’incapacità di lettura autonoma in cui si
trovano i quindicenni, che a quel punto dovrebbero immergersi da soli nel mare
di testi che li attendono, letterari, ma non solo; smarriti davanti alla
effervescente letteratura contemporanea, ma anche incapaci di leggere testi
scientifici e refrattari al linguaggio (più codificato) della matematica! Non
ha senso parlarne in poche righe, di fronte all’insensibilità di tutti i nostri
ministri “riformatori” della scuola, che non sono intervenuti in nessun modo in
due direzioni: ottenere dall’Università (con il meccanismo “retroattivo” del
controllo in sede di esame di concorso) una più appropriata formazione dei
docenti di italiano in campo linguistico (proprio nei concorsi per l’ingresso
in ruolo dei docenti la parte linguistica è quasi mancante!); rivedere con criteri
più scientifici le “Indicazioni” d’indirizzo (verbose e perfino
contraddittorie). Mentre l’attenzione dei riformatori va in altre direzioni:
massimo potenziamento dello studio dell’inglese (necessario, per carità, ma non
a scapito dell’italiano) e ogni altro possibile “allargamento”, spesso
sperimentale, delle discipline (ma una brutta fine ha fatto la geografia). Il
clima generale è in fondo creato dalle attese frettolose delle famiglie:
soprattutto di quelle che chiedono di far studiare quello che, secondo loro,
serve direttamente a trovar lavoro, meglio se all’estero; tanto, si sente dire
da non pochi, “l’italiano prima o poi diventerà un dialetto europeo che non
servirà a nessuno”. E in questo modo si toglie al cervello dei nostri studenti,
dai 6 ai 19 anni, in un contesto già pieno di altre suggestioni, la possibilità
di sviluppare al meglio in sé la facoltà linguistico-cognitiva di base, propria
ed esclusiva della nostra specie, facoltà ulteriormente evoluta con
l’invenzione, estremamente significativa e impegnativa, della scrittura.
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