Il mio collega George Miller ha proposto un numero magico, 7(+-2), come limite dell'attenzione o della memoria immediata dell'uomo. La nostra capacità ricettiva è veramente molto limitata. Ed è solo attraverso un processo di concentrazione e di sintesi che noi arriviamo a riempire i nostri sette canali con oro anziché con minerale grezzo.
Mentre leggo penso a una canzone di Angelo Branduardi, Alla fiera dell'est, che esemplifica bene i limiti della nostra memoria a breve termine: ci vuole molta ostinazione per arrivare - con sollievo - all'angelo della Morte che pone fine all'elenco.
Assumiamo come misura dell'attenzione quella per difetto: 7-2=5 (come le dita di una mano). In effetti io ho sempre fatto fatica a ricordare il settimo peccato capitale, il settimo re di Roma, il settimo nano... Arrivati a 6 spesso ci si arena (è la crisi del settimo nano).
I bambini arrivano senza troppa fatica a memorizzare la sequenza delle prime 4 azioni (padre compra topo - gatto mangia topo - cane morde gatto - bastone picchia cane). Ovviamente il fatto di cantare più e più volte la canzone (rappresentazione attiva del testo) rinforza la memoria (si arriva magari al fuoco che brucia il bastone, e all'acqua che spegne il fuoco). Anche il fatto di memorizzare la sequenza sottoforma di immagini (rappresentazione iconica) aiuta ad andare avanti (ecco il toro che compare a bere l'acqua!).
Ma in definitiva quello che conta (e di cui la canzone ci fa sperimentare la potenza, insieme con i nostri limiti) è la dimensione simbolica della lingua. Che fa volgere e capovolgere la realtà nella dimensione del racconto, che incatena azioni con sola la forza di un che (ora pronome soggetto, ora oggetto) ripetuto, di frasi relative che si agganciano a un nome per espanderlo.
A parte il fatto che il testo della canzone si presterebbe a un'analisi in chiave valenziale (partendo dai verbi di azione individuiamo e mettiamo in ordine i protagonisti, assegnando loro posizione e ruoli nella scena), quello che mi interessa mostrare attraverso questo testo è la potenza del modello valenziale, che cercherò di sintetizzare in 2 punti.
1. Il modello presuppone che un verbo possa avere un massimo di 4 argomenti. Casualmente, anche in chimica gli elementi possono avere valenza da 0 a 4. Un grande aiuto per la nostra mente, che non deve neppure arrivare fino a 7, ma può fermarsi a un numero di oggetti che sta nelle dita della mano. Una conferma, inoltre, del fatto che questo modello rispecchia da vicino il funzionamento del cervello umano: i verbi, parole relazionali per eccellenza, non agganciano più elementi di quanti la nostra mente potrebbe coglierne e gestirne. Così facendo, d'altronde, facilitiamo anche l'ascoltatore o il lettore, alleggerendo il bagaglio che questi è costretto a portarsi dietro fino alla fine di una frase, per poterla interpretare correttamente.
2. Il modello valenziale unisce la rappresentazione attiva del significato del verbo (con gli argomenti "attori" che lo accompagnano sulla scena della frase), la rappresentazione iconica (grazie agli schemi grafici) e la rappresentazione simbolica (la conoscenza degli schemi di frase ci permette di cogliere in modo sintetico la struttura della frase e di riconoscerne le trasformazioni), in modo adeguato alla crescita del pensiero astratto dello studente .
Forse vale la pena ricordare che, stringi stringi, anche le regole fondamentali della grammatica non sono più di 4: ordine, accordo, reggenza, collegamento.
L'aveva già capito Leon Battista Alberti, allenato com'era - da architetto - a vedere e rappresentare la realtà attraverso schemi.
Ma noi quando insegniamo la grammatica vogliamo fare di testa nostra, anzi, come s'è sempre fatto, finendo per riempire di materiale grezzo l'aurea proporzione che sottende alle nostre operazioni manuali e mentali.
P.S.: Un piccolo esercizio che possiamo a partire dalla Fiera dell'Est per capire il diverso modo di gestire la sintassi nel parlato e nello scritto: confrontare la sequenza proposta dalla canzone
E venne il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò.
con questa
E venne il gatto che il topo che mio padre comprò si mangiò.
Le due frasi hanno lo stesso significato, ma nella prima l'attenzione è proiettata all'indietro (verso le ultime parole percepite da orecchio/occhio) e siamo più cortesi verso l'ascoltatore/lettore; nella seconda l'attenzione è proiettata in avanti (chi parla anticipa nella sua mente quello che dirà e quindi la struttura di frase) e siamo molto più esigenti nei confronti dell'ascoltatore (che deve stare attento per non rimanere indietro e perdere pezzi) o del lettore (obbligato a tornare indietro e ricostruire gli incastri e gli incassi delle frasi, qualora si perdesse).
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