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giovedì 21 settembre 2017

Grammatica glamour (scritta a mano)



Il libro di Matteo Motolese, uscito pochi mesi fa per Garzanti, ci accompagna con garbo e sapienza in fondi bibliotecari pubblici e privati, sacri e profani, tra i manoscritti di otto opere capitali della civiltà letteraria italiana, mostrandone il carattere "umano" (fragilità del supporto, mutevolezza linguistica, tentennamenti e ripensamenti stilistici).
Tra le opere sfogliate troviamo (siamo al Capitolo 3, L'architettura segreta della lingua) la Grammatichetta attribuita a Leon Battista Alberti (conservata presso la Biblioteca Moreniana di Firenze e rimasta inedita fino a metà del secolo scorso): si tratta della prima grammatica della lingua volgare italiana, volta a dimostrane il carattere "regolato", alla stregua del latino (che, ancora nel XV secolo, era chiamato grammatica per antonomasia). Partendo, a differenza di quanto farà nel secolo successivo Pietro Bembo, non da modelli di lingua letteraria, ma dalla lingua "toscana" parlata dal popolo (il volgo).
Il manoscritto (che compariva tra i pezzi esposti nel 2013 alla mostra padovana "Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento") si apre con l'Ordine delle lettere: di fatto un alfabeto in cui si cerca, non senza incertezze e con l'aiuto di godevoli scioglilingua, di fissare la forma delle lettere corrispondenti ai diversi suoni vocalici e consonantici (molti dei quali, vale la pena ricordarlo, non esistevano nel latino classico: è il caso delle vocali e ed o aperte, o di suoni consonantici come c(i) g(i)).






Tanto per ricordarci che l'ortografia è stata una conquista lenta e tarda nella nostra storia linguistica, cui molto contribuirà la diffusione della stampa, e che alcuni dei nostri maggiori autori (Dante, Petrarca, Boccaccio) nonché gli amanuensi che ne copiavano a mano le opere, scrivevano senza un libro di grammatica né un dizionario di riferimento, "in un mondo in cui la scrittura era solo manuale e dunque variabile per forma, funzione, tradizione" e la standardizzazione delle forme non rientrava nelle preoccupazioni degli scrittori perché non rientrava nel loro "orizzonte visivo".
Vale la pena, a tal proposito, riportare una considerazione dell'autore (p. 80): 
ci sembra naturale che la lingua che usiamo abbia delle regole. Ma... lo sforzo che dobbiamo fare è quello di staccarci dal nostro tempo, dalle nostre consuetudini mentali, dalle idee ormai assimilate, e calarci in un sistema di conoscenze completamente diversi.
Ci renderemo conto così che per Boccaccio o Petrarca non era certo la mancanza di una h, o di una i, o l'unione sbagliata di due parole a rappresentare l'errore (ciò che noi, sulla base delle abitudini interiorizzate a scuola riconosciamo come sbagliato). Boccaccio, per esempio, non usa gli accenti né gli apostrofi, alterna boce e voce, bacio e bascio, affianca kare e cose. Leon Battista Alberti usa ancora l'articolo el al posto di il, scrive le parte anziché le parti, duo invece di due; usa le forme verbali oggi desuete abbino o andaremo.
Ma quello che a Leon Battista Alberti, come ai poeti del Trecento, non sfugge sono gli errori di grammatica propriamente detti: il mancato accordo tra soggetto e verbo, per esempio, o la mancata concordanza tra avverbiali di tempo e tempi verbali. Tu hieri andaremo alla mercati è un esempio di frase agrammaticale proposto nella Grammatichetta.

Insomma: leggiamo i classici senza idealizzarli e insegniamo (con la i, possibilmente) la lingua senza dogmatismi - anche per evitare di ricadere in quell'atteggiamento che un poeta minore del Trecento, Antonio Pucci, etichettava come "superbia di gramatica" (e che nei secoli successivi sarebbe stato chiamato "sprezzatura").

Un atteggiamento che può sembrare bizzarro ma che ci riporta ma che porta invece dritto nella modernità: glamour non è che la trasformazione della parola gramatica.


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