Dopo aver intervistato Adele Corradi per saperne di più sul "metodo geniale" inventato da don Milani per fare analisi logica, racconto il mio viaggio alla scoperta dei materiali didattici usati nella scuola di Barbiana per lavorare sulla grammatica. Una lezione per imparare a "fare tanto con poco".
“Metodo pratico per studiare i verbi”: a scuola
con don Milani
In questo articolo vorrei offrire agli insegnanti una testimonianza sulla possibilità di “fare grammatica” in
classe in modo vivo, basato su “sensate esperienze” e su ragionamenti sensati.
La testimonianza che ho raccolto è quella di Adele Corradi, la professoressa di italiano e latino
nella scuola media che lavorò a fianco di don Milani negli ultimi anni della sua vita, a Barbiana.
Nel suo libro di memorie, Non so se don Lorenzo (Feltrinelli, 2012), tra i materiali di Appendice,
compare uno scritto in cui la professoressa riflette, a distanza, sui “metodi della scuola di
Barbiana”
, accennando a “un metodo geniale, simile a un gioco, inventato da don Lorenzo per
far imparare ai ragazzi modi e tempi dei verbi e per farli esercitare nell’analisi logica” (p. 164).
Incuriosita da questo aspetto “pratico” dell’insegnamento dell’italiano, di cui non avevo trovato
traccia negli scritti del Priore, ho deciso di andare a trovare la professoressa nella sua casa
fiorentina per saperne di più. E sono rimasta incantata dal candore e dall’ironia di una donna
minuta e sorridente, capace di serbare integra la fedeltà del ricordo.
Grammatica a Barbiana
Era don Lorenzo a insegnare italiano nella pluriclasse: muovendo da una base tradizionale, ma
con la capacità di partire dai ragazzi (da quello che sapevano fare e da ciò che avevano
bisogno di imparare) e avendo ben chiaro il punto di arrivo: “capire e farsi capire”
. Il possesso
della lingua era il perno dell’insegnamento a Barbiana, e la grammatica, per rientrare in questo
orizzonte di attese, doveva servire a controllare testi via via più complessi, come quelli che i
ragazzi leggevano quotidianamente sui giornali e scrivevano individualmente e collettivamente.
Durante una visita a Barbiana, ho annotato i titoli di alcuni manuali di grammatica contenuti
nella bibliotechina della scuola: per lo più testi scolastici risalenti agli anni Cinquanta e
Sessanta, come La Grammatica italiana di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone (Loescher
1951) o Grammatica e vita di Luisa Monti (Loescher, 1966).
Alcuni libri utilizzati e conservati a Barbiana
Ma la mia attenzione è caduta soprattutto sul tabellone “grammaticale” affisso a una parete
nell’aula, e sui barattoli Bormioli (forse sottratti alla cucina dell’Eda) riempiti di striscioline di
carta colorata con scritte battute a macchina, collocati in alto, sopra la libreria in legno costruita
dai ragazzi.
Illustrazione tratta da “La Scuola di Barbiana. Il percorso didattico” (Fondazione don Milani
2015, p. 38)
Rovesciando con delicatezza il contenuto sul tavolone di noce ho osservato con stupore e
ammirazione l’intelligenza delle operazioni, manuali e cognitive insieme, sottese al “metodo
pratico” usato da don Milani, nato – come mi aveva raccontato Adele – da un’idea venutagli
mentre diceva messa.
Barattoli e striscioline verbali
Uno dei barattoli contiene forme verbali: attive, passive, riflessive, coniugate nei vari tempi e
modi. Un primo esercizio, di riconoscimento e memorizzazione, consisteva nel collocare
ciascuna strisciolina nella casella giusta del tabellone. Un compito fatto individualmente dai
ragazzi, ciascuno dei quali riceveva un mucchietto di striscioline, ma verificato insieme: alla fine
dell’esercizio, don Lorenzo – come testimonia il racconto di Adele – passava a ritirare le
striscioline collocate correttamente e lasciava sul tabellone quelle messe al posto sbagliato, in
modo che ognuno prendesse coscienza dell’errore e, al contempo, ci si potesse ragionare
insieme. Un esercizio che doveva servire a fornire ai ragazzi le nozioni necessarie per superare
l’esame di Stato, ma anche a verificare il possesso delle forme verbali standard in studenti
dialettofoni, tenuto conto del fatto che il verbo è, tra le parti del discorso, quella che presenta la
flessione più complessa, con paradigmi che possono superare le 150 forme per verbo (se
teniamo presenti anche le forme passive).
Lo stesso metodo veniva applicato alla grammatica (cioè al riconoscimento delle parti del
discorso) tramite un analogo tabellone in cui erano elencate le 9 parti del discorso (articolo,
nome, aggettivo, pronome, verbo, avverbio, congiunzione, preposizione, esclamazione). Le
striscioline usate in questo caso comprendono spesso, entro parentesi, un minimo di contesto,
in molti casi necessario per disambiguare il valore di una parola:
mio (fratello)
(ho) male (alla testa)
parecchio (denaro)
(il) proprio (lavoro)
(non so) quale (scegliere)
appunto (parlavo di te)
Riservano sorprese anche le strisce più lunghe contenute in una scatola, destinate
evidentemente all’analisi logica: qui troviamo quei “gruppi di parole” che la linguistica moderna
ci ha insegnato a chiamare “sintagmi”. Mobili, pronti a combinarsi su un tabellone non solo per
imparare a nominare le funzioni sintattiche (soggetto, oggetto ecc.), ma anche per allenarsi a
costruire frasi sempre nuove e sempre più complesse, allo stesso modo per cui nell’officina al
seminterrato si inchiodavano e saldavano pezzi sulla morsa e sulla forgia.
Un metodo non dissimile da quello usato da Wittgenstein per costruire il testo delle sue
Ricerche filosofiche (dattiloscritto e poi spezzettato in tanti foglietti destinati a essere
ricomposti) e che ritroviamo anche nella genesi di Lettera a una professoressa, testo nato dalla
cucitura di tanti “foglietti” scritti e discussi dai ragazzi di Barbiana.
Una lezione di umiltà per noi tutte/i noi che ci accingiamo a rientrare in aula: perché possiamo
imparare a “fare tanto con poco”
.
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