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sabato 2 gennaio 2021

La sintassi del lessico, il lessico della sintassi (sui volumi di Gross/Fasciolo e Mereu)

Nell'anno che ci siamo appena lasciati alle spalle sono usciti due libri che ci interrogano, e di cui voglio darvi brevemente conto perché assumono la frase come punto di partenza per la costruzione di significati.





Il primo si chiama La sintassi del lessico (sottotitolo: Manuale di linguistica aperto all'informatica e alla filosofia), è uscito per UTET Università ed è la versione italiana del Manuel d'analyse linguistique (PUS 2012) di uno dei miei maestri, il francese Gaston Gross. La traduzione, l'adattamento (che ha comportato anche un'operazione di "conciliazione" del testo di partenza con il filone di ricerca linguistica italiana più aperto al dialogo con la linguistica informatica francese) è opera di Marco Fasciolo, linguista di estrazione filosofica oggi docente presso l'Université Sorbonne di Parigi dopo un dottorato in Linguistica a Ginevra e un master in linguistica informatica nell'Università di Paris XIII (che ospitava il glorioso Laboratoire de Linguistique Informatique del CNRS, in cui entrambi abbiamo lavorato). Di questo libro, che richiede una lettura attenta (e una mediazione concettuale per chi non si sia mai inoltrato nella via francese al trattamento automatico delle lingue), parlo più diffusamente in una recensione. Si tratta comunque di un manuale che propone una descrizione integrata di lessico, semantica e sintassi basata su dati raccolti da grandi corpora e finalizzata al trattamento automatico della lingua. Ma con una teorizzazione originale a monte, che ruota sui concetti di emploi prédicatif (tradotto come "impiego predicativo" di una parola: elettivamente il verbo, seguito da nome e aggettivo), classe di oggetti (per descrivere semanticamente gli argomenti che entrano in una struttura predicativa), verbo supporto (concetto già importato nella linguistica italiana), figement (la cristallizzazione lessicale, qui resa con il termine "fissità"). 

Mi interessa citarlo qui per metterlo in dialogo con un altro libro, uscito invece per Carocci: Semantica della frase di Lunella Mereu, docente di Linguistica generale nell'Università di Roma 3.  Anche in questo libro, infatti, si tenta di far dialogare semantica, sintassi e costruzioni lessicali. Anche in questo caso, inoltre, la descrizione si appoggia su dati linguistici estratti da corpora di grandi dimensioni (in questo caso dell'italiano). L'idea centrale del libro è che la costruzione alla base del significato della frase (qui definita "struttura argomentale", in omaggio alla grammatica generativa e alla grammatica delle costruzioni, ma reinterpretata anche alla luce del concetto fillmoriano di frame, la "cornice" rappresentativa di una particolare scena) ci sia la geometria variabile delle relazioni verbo-argomenti. (Una recensione dettagliata del libro è apparsa sul portale Treccani e si può leggere a questo link).

Entrambi i volumi parlano di valenza
Il volume di Gross-Fasciolo affronta il tema nella Parte III, dedicata alle parti del discorso, all'interno del Capitolo dedicato ai Predicati verbali. La valenza è infatti considerata proprietà elettiva dei verbi, che in base alla valenza possono essere classificati. E saggiamente vengono classificati in base alla costruzione massima (cioè quella contenente il maggior numero di argomenti), anche se non è quella statisticamente più frequente: andare, per dire, ha come costruzione massima andare da un luogo all'altro, anche se più spesso diciamo andare in un luogo.  Il confronto con i dati autentici offerti dai corpora permette poi di verificare i diversi "impieghi" del predicato, dati non solo dagli schema argomentali, ma anche dalle attualizzazioni e trasformazioni del predicato), e di affinare così le definizioni in vista del riconoscimento automatico della frasi in un testo. 
Anche nel libro di Mereu si parla di valenza, ovviamente, e il concetto viene introdotto subito, nel Capitolo 2 (Primi approcci alla struttura argomentale). Anche in questo caso si cerca di dare alla macchina il maggior numero di informazioni semantiche possibili per riconoscere le strutture argomentali. Qui, però, la prospettiva è rovesciata: le costruzioni maggiormente utilizzate sono considerate quelle più tipiche. Il punto di partenza dell'analisi non è infatti la frase (come il titolo dichiara) ma l'enunciato, ovvero la realizzazione comunicativa della frase. Una differenza non da poco, che incide anche nella discussione sui confini tra nucleo e periferia della frase, tra argomenti e "aggiunti" (come vengono chiamate le espressioni circostanziali), che finisce per diventare così "flou" da lasciare spazio all'idea che le costruzioni verbali avrebbero un carattere così imprevedibile da dover essere considerato idiomatico.

Non so se sia chiaro quello che ho provato a spiegare. Quello che mi sta a cuore sottolineare, comunque,  è l'importanza del limite che ogni teoria linguistica, in quanto basata sulla conoscenza empirica, dovrebbe kantianamente darsi. La tentazione di oltrepassare il limite per arrivare a spiegazioni totalizzanti e universali è stata una caratteristica di tante correnti linguistiche novecentesche: così è avvenuto nella linguistica formale (che ha avuto il merito di individuare la struttura in costituenti ma ha poi sancito con X e barre la sua inaccessibilità) e così rischia di avvenire anche negli approcci funzionali quando eleggono la funzione a criterio che dovrebbe giustificare l'esistenza delle strutture. 
Dire che è argomento è tutto ciò che contribuisce semanticamente e pragmaticamente alla completezza informativa di un enunciato in una precisa situazione comunicativa vuol dire svuotare di senso il concetto di valenza.

La valenza, nella teoria di Tesnière, è un criterio sintattico, e la sintassi serve per modellare concetti. Se distinguiamo il livello in cui la struttura prende forma dal livello superiore in cui possiamo osservare il funzionamento delle strutture, evitiamo di fare l'errore che fanno i bambini: pensare che in una frase come Il calciatore ha commesso fallo in area di rigore, la circostanza spaziale abbia nella struttura la stessa rilevanza di un argomento solo perché in una data situazione comunicativa (e nella reale dinamica di una partita di calcio) l'area di rigore non è un luogo qualsiasi e un fallo commesso in quel luogo può cambiare le sorti della partita. 
Tornando alle nostre questioni di adulti - che discutono piuttosto se in una frase come Parla chiaro o Compra a rate l'espressione avverbiale sia da considerare modificatore o un argomento - mi sembra importante chiarire che in un enunciato la presenza/assenza di argomenti è legata a scelte del parlante  che decide come mettere in prospettiva (ed eventualmente nascondere) i diversi costituenti a seconda delle esigenze comunicative e dei dati contestuali  (per fare un esempio banale, se scrivo in un messaggino Arrivo o Sono qui, al destinatario è chiaro quando e dove mi trovo).

Dal momento che una struttura ha una funzione, è normale che ci spinga in avanti, a un livello superiore dell'analisi (la semantica e la pragmatica): ma questo non vuol dire che la struttura non debba essere riconosciuta come tale, con una sua fisionomia e una sua legittimità, a prescindere dalle manipolazioni che delle strutture possiamo fare per migliorare l'efficacia dei nostri scambi comunicativi.  

Un corpus, in quanto costituito di enunciati, riflette a pieno le dinamiche comunicative che portano in molti casi a occultare argomenti (si parla infatti di ellissi argomentali: quella del soggetto è un tratto tipico dell'italiano) e ad attribuire un valore dirimente a espressione marginali. Ma si tratta di enunciati, appunto, non di frasi strutturalmente complete, che riflettono le strategie concettuali con cui costruiamo la rappresentazione di scene, di "processi" (nella terminologia di Tesnière).   

I copora - per quanto grandi, ben annotati e interrogabili da software potenti -  non risolvono problemi concettuali che devono essere discussi a monte. Possono solo (e non è poco) consentirci di verificare a valle la bontà delle categorie individuate: di raffinarle, di sfumarle (mettendoci di fronte a fenomeni di  semplificazione o di arricchimento), di rimetterle in discussione se necessario, di capire fino a che punto siamo noi a scegliere (dato che la lingua spesso ci mette di fronte a costruzioni fisse o idiomatiche: parlare a vanvera ne è un esempio). Senza per questo doverci indurre ad abbandonarle alla minima incertezza, né a pensare che la lingua sia un repertorio di combinazioni bell'e fatte (per quanto diffuse siano le idées reçues).

All'interno della sintassi della frase, regole e scelte si passano il testimone. Questa libertà che la lingua ci lascia è un tratto umano che possiamo felicemente rinunciare a insegnare a una macchina. Anche accettare il limite delle nostre teorizzazioni ci rende umani, del resto. E rende la linguistica una scienza umana, non esatta, senza pretese egemoniche.


P.S.: L'origine della metafora della valenza, come chiave di volta nella spiegazione della frase, è del resto un'autentica avventura della mente umana, che vede coinvolti, con Tesnière (e in modo indipendente da lui) filosofi del linguaggio e linguisti attivi negli anni d'oro della chimica - come ha recentemente mostrato lo studioso polacco Adam Przepiórkowski in uno studio apparso sulla rivista Linguisticæ Investigationes 41, 1 (2018), che ringrazio Anna Thornton di avermi segnalato.

6 commenti:

  1. Molto stimolante, mi fa riflettere molto. Grazie di questi preziosi 'gettoni'.

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  2. Grazie, Vincenzo, del tuo commento. Sono sempre felice quando i miei pensamenti, dispensati sotto forma di "gettoni", incontrano altri occhi, incrociano altre riflessioni.

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  3. Grazie Cristiana per le presentazioni. Molto interessante è il riferimento al concetto di limite, kantianamente. Su questa linea mi viene da pensare che verbo e valenze possano essere considerati come categorie a priori - come le kantiane spazio e tempo - senza le quali non può esserci conoscenza, non può esservi atto comunicativo. Questo viene sviluppato dalle aggiunzioni - i circostanti - che soddisfano tutte le altre categorie della conoscenza. Il problema è il limite che alla conoscenza Kant riconobbe e che dunque si potrebbe trovare anche nell'applicazione del modello funzionalista alla spiegazione della struttura di ogni possibile enunciato.
    Questo significherebbe che il modello valenziale funziona solo nel laboratorio linguistico, dove viene osservato il fenomeno lingua nella purezza delle sue strutture frasali? O no?

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  4. Non direi. Come in tutte le scienze, il modello, per definizione, è uno schema teorico che
    descrive uno o più fenomeni ipotizzando le caratteristiche strutturale più rilevanti (cito dal dizionario De Mauro).
    Il modello valenziale ipotizza una serie di configurazioni delle struttura di frase. Le configurazioni effettivamente documentate dai testi non riflettono direttamente lo schema cognitivo, perché risultano dall'interazione tra la valenza dei verbi e la coerenza della progressione comunicativa di un testo, da cui dipende anche la prospettiva comunicativa degli enunciati.
    Gli studi basati su corpora ci forniscono una base importante per studiare gli esiti testuali di questa interazione. Ma non sono i corpora a dirci quanto "vale" un verbo... Semmai ci dicono di quanto si può scontare, per rimanere nel campo delle metafore commerciali...
    Sul piano della trasposizione didattica questo vuol dire che bisogna fare molta attenzione sia alla gradualità delle proposte sia alla metodologia di analisi della frase vs enunciato.
    Ci sono aspetti molto complessi della teoria della valenza che possono essere compresi solo a livello universitario. Solo quelli più intuitivi possono essere trasformati in un "gioco da ragazzi", lavorando sugli aspetti percettivi delle scene che un verbo che costruisce (nell'abbracciare ci sono sempre due elementi in gioco, nel regalare ce ne sono tre). E ricordandosi quello che ci insegnano le neuroscienze: il numero che possiamo tenere a mente senza errori è 4 più o meno 1 (cito da Marianne Wolf).

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  5. Grazie Cristiana. La mia domanda voleva risuonare come una provocazione, che riflette l'osservazione che fanno molti docenti quando si avvicinano per la prima volta al modello valenziale. Naturalmente concordo pienamente con quello che scrivi e ti ringrazio ancora.

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  6. Fortunatamente, noi abbiamo a che fare con bambine e ragazzi da rendere consapevoli di ciò che sanno, non con macchine da rendere più efficienti nel simulare ciò che non sanno.

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