Verbo Essere era così contento come se avesse fatto una conquista lui; la gioia gli schizzava fuori da tutti i lati e da tutti gli angoli. E vedendolo così trasformato, Gianni capì un'altra cosa, più importante di tutte le proposizioni appositive e di tutte le proposizioni attributive del mondo messe insieme. Capì, cioè, che quando arriviamo a godere dei successi degli altri invece di invidiarli - e la cosa non è sempre così facile come sembra - allora tutta la nostra vita diventa più luminosa e più felice.
(Laura Orvieto, Viaggio meraviglioso di Gianni nel paese delle parole, Olschki, 2007)
Mi sono sentita come il Verbo Essere, leggendo questo libro: contenta e sollevata, come davanti a un testo atteso e necessario. Avrei potuto o dovuto scriverlo io? - Un pensiero ingenuo che ricaccio.
Non parlo del Viaggio meraviglioso di Laura Orvieto (una fantasia grammaticale scritta a cavallo degli Trenta), ma del Viaggio nella grammatica (un viaggio senza aggettivi - e già questo è un pregio, in tempi in cui l'italiano sulle copertine dei libri o è bello, geniale, meraviglioso, o non è e destinato a scomparire) compiuto da Maria Pia (Maria G. sulla copertina) Lo Duca, in uscita per Carocci.
Il libro ha come sottotitolo Esplorazioni e percorsi per i bambini della
scuola primaria e costituisce il seguito ideale e l'ampliamento di un
fortunato libro uscito in prima edizione nel 1997 per La Nuova Italia e
poi riedito da Carocci nel 2004: Esperimenti
grammaticali. Il libro raccoglieva una serie di interventi
pubblicati sulla pregevole rivista "Italiano &
oltre" fondata nel 1986 da Raffaele Simone e chiusa nel 2004 (i
numeri, digitalizzati, sono ora gratuitamente consultabili online sul sito
del GISCEL, raggiungibile dal link).
Anche questo nuovo libro nasce da un nucleo di articoli originariamente
apparsi in rivista (su "La
Vita scolastica"), dal 2007 al 2016, dedicati all'insegnamento
della grammatica nella scuola primaria. Al suo sviluppo in volume
hanno tuttavia contribuito altre esperienze dell'Autrice, già docente di Lingua
italiana e Didattica dell'italiano presso l'Università di Padova: il
coordinamento di una ricerca sperimentale pluriennale (cui hanno partecipato
varie laureande, sempre debitamente citate) volto ad accertare,
attraverso colloqui nelle classi, la risposta di bambine e bambini a
sollecitazioni grammaticali di vario genere; il coordinamento del
gruppo di insegnanti della provincia di Bolzano che ha lavorato alla costruzione
di un Sillabo di riflessione sulla lingua
per la scuola primaria e secondaria di I grado (2012) di cui ho
parlato in un vecchio post; il
coordinamento del gruppo di lavoro per le prove INValSI di italiano; l'ascolto
diretto o la lettura delle esperienze di tanti "maestri innovatori"
nell'ambito dell'insegnamento dell'italiano dei quali ho anch'io avuto modo di
parlare in queste pagine (Spadotto, Ujcich, Morgese, Cavalca e
Miserotti).
Il volume è articolato in due parti: una Parte prima di Ragionamenti
preliminari (sull'opportunità di fare grammatica nella scuola
primaria e sulla scelta di un Sillabo grammaticale adeguato) e una Parte
seconda, intitolata Dentro la disciplina, in cui vengono proposti
alcuni temi e problemi grammaticali: la sintassi della frase semplice, le
categorie lessicali o parti del discorso ("nomi, verbi e poco più"),
alcuni fenomeni che impongono di allargare lo sguardo alla dimensione del
testo (come il funzionamento dei pronomi e l'uso della
punteggiatura), la formazione delle parole.
Tutti questi temi sono riletti alla luce delle acquisizioni della
linguistica moderna, con le dovute cautele e mediazioni (per uso
della terminologia, strategie di definizione, selezione e gradualità
della trattazione). Per ciascuno dei temi, inoltre, l'Autrice suggerisce
percorsi da sperimentare in classe basati su un procedimento di scoperta
guidata delle regolarità della lingua.
Il punto di partenza (secondo il metodo citato degli "esperimenti grammaticali") è rappresentato da domande euristiche ("maieutiche", per riprendere un termine caro ai pedagogisti tardo-ottocenteschi e ripreso da quelli oggi in auge): domande che non inducono a cercare una risposta esatta e prevedibile, ma attivano la naturale curiosità e riflessività dei più piccoli verso i fatti di lingua. Il bambino e la bambina, che arrivano a scuola sapendo già parlare e imparano rapidamente (troppo rapidamente?) a leggere e scrivere, sono visti come soggetti attivi, degni di ascolto, motivati a individuare i problemi e a trovare le strategie per risolverli. Il compito dell'insegnante è quello di condurli a una consapevolezza piena, che comporta la fiducia nelle proprie intuizioni e la capacità di tradurle in parole "grammaticali" per poi strutturarle in un sapere che coincida con il "saper fare" (e abbia ricadute positive sulle abilità d'uso della lingua e sul controllo degli errori).
Condivido i presupposti teorici e metodologici del libro: l'idea che ragionare sulla frase sia più naturale e interessante per il bambino rispetto al percorso abituale che comincia dalla parola e va dal piccolo al grande; la necessità di "disarticolare la materia", individuando categorie centrali e periferiche in modo da proporre solo le prime all'attenzione dei più piccoli, spostando in avanti la sistematizzazione grammaticale (non tutto va presentato subito!!!!); l'opportunità di superare l'insegnamento tradizionale basato sulla memorizzazione di definizioni (necessariamente semplificate e spesso scorrette), liste di classi e sottoclassi, paradigmi; la centralità di un tema a torto trascurato, come l'accordo o concordanza; la valorizzazione degli "errori creativi"; l'importanza dell'uso del dizionario in classe.
Ovviamente sono d'accordo sulla scelta del modello valenziale, di cui
l'insegnante troverà una trattazione sintetica (con alcune innovazioni terminologiche) nel capitolo
dedicato alla sintassi della frase. Purché - mi sento di aggiungere - l'entusiasmo non porti a presentare troppo precocemente gli schemi di frase: gli esempi di
risposte improbabili dei bambini, anche quando il concetto di valenza è
avvicinato in forma ludica attraverso la drammatizzazione, mostrano i limiti
del ragionamento astratto nei più piccoli e di conseguenza, a mio parere, l'opportunità di spostare in avanti concetti come la distinzione tra nucleo e periferia della frase (capire se una frase è completa o no è intuitivo; capire se un determinato elemento è necessario o facoltativo richiede di staccarsi dal qui e ora per guardare alle relazioni sintattiche prescindendo dal significato: anche gli adulti spesso fanno fatica, figurarsi i bambini nell'età dell'egocentrismo...).
Più in generale, rimango perplessa di fronte ai motivi che spingono l'Autrice a promuovere un avvio precoce del "fare grammatica" nella primaria, a condizione che il metodo di lavoro sia quello della "domanda e della scoperta". Nutro infatti alcune riserve proprio sulla possibilità che tale condizione si verifichi.
La prima riserva è legata a un entusiasmo più cauto nei confronti dei maestri innovatori, che propongono esperienze non sempre
facilmente ripetibili (perché la realtà non è fatta di maestri e classi
eccezionali).
La seconda riserva nasce da una diffidenza radicata nei confronti degli
editori scolastici e del funzionamento del mercato, che solo raramente (e
casualmente) premia proposte realmente innovatrici e, specie nel segmento della
scuola primaria, infittisce le pagine di immagini e moltiplica le schede grammaticali
fotocopiabili, più che altro.
La terza è legata alla consapevolezza che un metodo è difficilmente
traducibile in un documento ministeriale (l'analisi che l'Autrice fa delle
Indicazioni nazionali del 2007 e di quelle del 2012 mette in luce la genericità
e ripetitività delle formulazioni), ammesso poi che gli insegnanti siano
disposti a seguirlo attraverso un sillabo e una programmazione coerente cui conformarsi, in assenza di
un'adeguata formazione.
Vengo così alla quarta riserva, che deriva dalla scarsa fiducia che
ripongo nella possibilità di agire sulle pratiche scolastiche sommerse,
fondamentalmente refrattarie ai cambiamenti sostanziali. Gli insegnanti di oggi
(complici i genitori invadenti) mi paiono più ansiosi di anticipare i
contenuti (per preparare ai gradi di scuola successivi) che desiderosi di
procedere con la lentezza dovuta (lentezza di cui l'Autrice nel volume richiama
continuamente l'importanza) e con un metodo che valorizzi l'intelligenza linguistica dei
bambini rispettandone il grado di maturazione cognitiva.
(Parlo ovviamente dell'insegnante "medio", escludendo la "prima fila" dei più volenterosi e preparati, sempre pronti a studiare e mettersi in gioco - e ce ne sono, per fortuna, ma non abbastanza e non in tutte le scuole).
(Parlo ovviamente dell'insegnante "medio", escludendo la "prima fila" dei più volenterosi e preparati, sempre pronti a studiare e mettersi in gioco - e ce ne sono, per fortuna, ma non abbastanza e non in tutte le scuole).
La mia esperienza di formatrice nelle scuole (di fronte a un pubblico spesso
attento e interessato ma poco propenso a lanciarsi in sperimentazioni faticose
e rischiose) e quella delle mie studenti (maestre in formazione che entrano a
scuola per i tirocini e tentano di sperimentare modi nuovi e giocosi per
riflettere sulla lingua, incontrando la resistenza delle colleghe esperte, che
spesso non conoscono le Indicazioni, non si attengono al curricolo di istituto
se presente, guardano con sospetto le novità che vengono dal mondo
universitario) è più vicina alla constatazione di Lamberto Maffei.
Nell' Elogio della parola
appena uscito per il Mulino, il neuroscienziato tratteggia un
"cervello globalizzato" che troppi (e non solo i millennial,
anzi) si contentano di far (più o meno) funzionare:
che non vuole cambiare per principio e preferisce restare avvolto volontariamente nella cellulite di una pigrizia egoista e di un funzionamento routinario, prevedibile, ma che ti dà sicurezza […]. La routine dal punto di vista del funzionamento cerebrale significa che circuiti plastici che hanno la proprietà di cambiare con l’esperienza sono diventati stabili come quelli dei riflessi, delle reazioni automatiche o della vita vegetativa (p. 108-9)
Ciò detto (ammesso cioè e concesso il diritto al pessimismo dell'intelligenza), anch'io continuo con buona volontà a proporre un cambiamento auspicabile e forse invidio (questa volta sì) quanto anch'io desidererei avere, ora che ne intravedo la luce nel mondo possibile delineato dalle parole altrui: la fiducia tipica dei visionari nella realizzabilità di un cambiamento scomodo in nome di un ideale, di un valore scientifico e civile insieme; a vantaggio della generazione dei figli e nipoti - cui rischiamo di lasciare in eredità un mondo fragile e impoverito.
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