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sabato 21 aprile 2018

Prototipi e stereotipi: fare le femminucce

Un paio di settimane fa ho tenuto una lezione sullo stereotipo insieme con Giovanna Cosenza per le/gli studenti iscritti a un corso attivato dal nostro Ateneo nell'ambito delle competenze trasversali, chiamato Diversity Management (Gestione delle differenze).
Ci siamo divise i compiti: io la parte linguistica, lei quella semiotica (immagini comprese). L'obiettivo comune era quello di sensibilizzare il nostro uditorio rispetto al modo in cui la lingua e i mezzi di comunicazione trattano le differenze: facendo un ampio uso di stereotipi, appunto, cioè di termini e immagini che funzionano come "stampi", gabbie tipografiche precostituite (questa l'etimologia del termine stereotipo, letteralmente "impronta fissa").

Da quando il termine è stato inventato, cioè a cavallo tra Settecento e Ottocento, nell'età della riproducibilità tecnica, non gode di buona fama: la stereotipia, cioè la riproduzione massiva di un cliché (altro termine tecnico, fotografico stavolta), è sicuramente un procedimento economico, ma poco originale.
Anche il parlare per stereotipi, luoghi comuni o idées reçues, frasi fatte è un fenomeno tanto diffuso quanto poco apprezzabile (o almeno fino a qualche tempo fa era così, nel discorso pubblico).
Inoltre, nella conversazione, l'uso dello stereotipo può diventare veicolo di pregiudizi (cioè di valutazioni negative assegnate in modo precostituito), e questi a loro volta possono diventare motivo di discriminazione (possono cioè dar luogo a comportamenti escludenti).
E' evidente che stiamo parlando di stereotipi applicati a persone, e più in particolare a gruppi sociali: per esempio gli italiani, le mamme italiane, i dongiovanni, gli intellettuali, le streghe, i maschi e le femmine, i maschiacci e le femminucce...




Barbie role models (Mattel 2018)


Le femminucce, appunto: durante un'assemblea di classe, le maestre di mio figlio ci hanno mostrato un cartellone di autoregolamentazione per il gioco del calcio scritto dai bambini (fino a quel momento il gioco si svolgeva durante la ricreazione in modo a dir poco sregolato).
Tra le regole compariva "non si fanno capricci". La spiegazione relativa recitava: "se no sembriamo femminucce".
Intelligentemente, le insegnanti hanno colto l'occasione per fare una discussione in classe su cosa significhi essere/sembrare/fare le femminucce e quale sia il contrario di femminuccia.
Prima fase: giro di idee a voce, per alzata di mano. Mio figlio sostiene di aver risposto alla seconda domanda: "aiccunimmef". Fin qui mi sono sentita al sicuro (e grazie Vivian Lamarque!).
Seconda fase: bigliettini anonimi in cui ognuno (bambino o bambina) doveva scrivere parole associate a "femminuccia" e "maschiaccio". A questo punto il suddetto mi ha candidamente confessato di aver scritto: "maschiaccio = coraggio", "femminuccia = debolezza". Sottoposto a interrogatorio dalla sottoscritta, ha ammesso nell'ordine: che sua sorella non è una femminuccia, al contrario è una femmina "forte e sportiva", che non piange mai e anzi fa ridere tutti; che la compagna che gioca nella sua squadra di calcio è "una delle più forti"; che io so cucinare ma sono anche una brava "muratrice" (sic) all'occorrenza. Insomma: riconosce le differenze, ma quando si tratta di generalizzare, si basa sul senso comune e noi diventiamo eccezioni trascurabili. Del resto, quei suffissi (-uccia, -accio) gli sembra che non dicano niente di buono: dobbiamo dunque ritenerci contente di non essere state prese in considerazione.
Uscita dallo stampo della mamma politicamente corretta e rientrata nelle vesti della linguista, cerco di trarne alcune considerazioni.

Il punto è che lo stereotipo, prima di diventare un automatismo linguistico, è un meccanismo cognitivo di cui non possiamo fare a meno perché è basato su quelle stesse operazioni di categorizzazione e generalizzazione che presiedono all'apprendimento del linguaggio.
Per riprendere l'esempio del gatto - proposto da Giovanna Cosenza a lezione e in un suo scritto -, un bambino che debba imparare a usare la parola gatto deve in breve tempo farsi un'idea generale di che tipo di animale sia un gatto selezionando alcuni tratti ed escludendone altri: prescindendo cioè dalle differenze (fisiche e di comportamento) tra il Fufi gatto tigrato che ha in casa, il Minù gatto persiano bianco dei vicini e l'anonimo gattaccio nero che fa fermare le macchine quando attraversa la strada.
Anche noi adulti, del resto, abbiamo in testa un'immagine stereotipata di gatto: una rappresentazione schematica che costituisce il terreno comune dell'interazione. Quando parliamo di un gatto in generale, abbiamo in mente un esemplare tipico (quello che gli psicologi definiscono un prototipo) che consideriamo il più rappresentativo della specie (per noi sarà probabilmente il gatto europeo a pelo corto, con orecchie piccole, carattere vivace ecc.). E ci intendiamo sulla base di questa rappresentazione comune.

Un altro esempio: tutti noi adulti sappiamo che tacchini, struzzi e pinguini sono uccelli, ma sfido chiunque a pensare a uno di questi animali quando pronuncio la parola uccello (absit iniuria verbis atque metaphora). A torto o a ragione, infatti, la parola è associata al volo e in prima istanza viene attribuita ad animali dotati di ali e capaci di staccarsi da terra. Questo, almeno, è il modello ideale di "uccello". In un secondo momento, pensandoci su, potremo renderci conto che non tutti gli esemplari corrispondono a questo modello: alcuni ci si avvicinano di più, altri meno. Ci rassegniamo così a considerare i pinguini uccelli, senza mettere in discussione il concetto, riconoscendo però che soddisfano solo in parte i requisiti del modello.

Insomma: possiamo e dobbiamo contrastare alcuni contenuti stereotipati (in questo caso gli stereotipi di genere, che rischiano di immobilizzare i ruoli maschili e femminili, rendendo indistinti desideri, modi di essere e di pensarsi), ma non possiamo illuderci di smantellare il meccanismo della stereotipia per il semplice fatto che non possiamo farne a meno: non possiamo sempre fermarci a contare i fili d'erba prima di chiamare prato un prato.
Inoltre, non dobbiamo commettere l'errore di trascurare il "nucleo di verità" contenuto nella maggior parte degli stereotipi. Se le bambine si mostrano deboli anche quando non lo sono, se chiedono protezione anche quando potrebbero benissimo farcela da sole, è perché nella nostra società alcuni comportamenti sono consentiti o viceversa inibiti fin da quando siamo piccoli in rapporto alla nostra appartenenza di genere: è tollerabile che una bambina faccia la lagna o pianga, meno che scagli oggetti in preda alla rabbia o si azzuffi con un compagno.
I ruoli di genere (costruzione culturale per eccellenza) si modellano così: incoraggiando o scoraggiando certi comportamenti e attitudini, oltre che con la scelta di colori, abiti e giochi diversi. Non c'è dunque da stupirsi se i bambini confermano le nostre attese! C'è semmai da chiedersi come mai, con l'andar degli anni, questo nucleo di verità si ribalti nel suo contrario: per la mia limitata esperienza, sono più gli uomini che si comportano in modo vile e le donne che ostentano coraggio, e non il contrario...
Insomma: se vogliamo un futuro con meno stereotipi, non dobbiamo partire da bambine e bambini, ma da noi educatrici ed educatori!

Ultimo ma non ultimo, fare le femminucce è un tipico esempio di predicato nominale. In questo caso il verbo fare non ha valenza: ha un significato sbiadito e si limita a fare da "supporto" alla predicazione, affidata al nome femminucce (che non è un complemento oggetto!!!!!!!!). Ci si comporta da "femminucce", non si producono "femminucce" nel comportamento (stando a quanto ci dice il verbo). 
La lingua è piena di questi modi di dire, espressioni cristallizzate, frasi idiomatiche, che spesso non hanno corrispondenza in altre lingue proprio perché - come gli stereotipi o le parolacce - sono radicate in certe culture ed estranee ad altre.
Vanno prese per quello che sono, come un abito prêt-à-porter, che nessuno ci obbliga a usare - tantomeno dovremmo farci condizionare da formule prêt-à-penser.

Ciò che fa la differenza nell'uso della lingua, infatti, non è la "correttezza politica", ma la consapevolezza e la responsabilità. Che vanno educate fin da piccoli e continuamente sorvegliate anche nell'uso linguistico irriflesso di noi adulti.

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