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domenica 15 aprile 2018

Neuroni e voci del verbo amare

In un'intervista a Riccardo Staglianò intorno ai rapporti tra neuroscienze e psicanalisi (pubblicata su La Repubblica di domenica 25 marzo), così parla il professor Vittorio Gallese (scienziato italiano noto per aver scoperto negli anni Novanta, insieme con Giacomo Rizzolatti e Leonardo Fogassi, il meccanismo dei neuroni-specchio):

Quando dico "amo mio figlio" o "amo il mio lavoro" uso la stessa parola e tutti capiscono le differenze. Lo stesso verbo ha la stessa base neurobiologica? Io non credo. [...] quando io dico "amo" c'è una sola scatolina nel cervello che si attiva, ma si connette dinamicamente a circuiti cerebrali diversi a seconda che l'oggetto sia il figlio o il lavoro.

Questa frase mi gira in testa da un paio di settimane. Penso al verbo amare e alle sue diverse collocazioni, che ne sfumano il significato al punto da attivare circuiti cerebrali differenti.




Il dizionario Sabatini-Coletti alla voce amare riporta tre accezioni per la costruzione bivalente (soggetto-verbo-oggetto diretto): amare qualcuno e amare qualcosa (i diversi significati cui allude il neuroscienziato) cui aggiunge un uso particolare del verbo amare che si ha quando il soggetto è non umano: diciamo che una pianta ama la luce intendendo che ha bisogno di luce per crescere.
A questa costruzione si aggiunge quella pronominale: amarsi, con valore sia riflessivo ('essere soddisfatti di sé') e sia reciproco ('amarsi l'un l'altro').
Nel caso del verbo riflessivo si parla di costruzione monovalente perché il pronome non introduce un nuovo attore sulla scena ma si limita a duplicare i ruoli attribuiti a uno stesso attore (il soggetto), che ama ed è amato.
Il secondo caso è più complesso, perché gli attori sono già due e il pronome rende bidirezionale la direzione del sentimento: se dico Renzo e Lucia si amano intendo che Renzo ama Lucia e Lucia ama Renzo.

Dico sentimento e non azione, perché amare non può essere considerato un verbo d'azione (a meno che non lo usiamo in senso "biblico", cioè eufemistico): è un verbo di affezione, che comporta sì un soggetto umano, ma non pienamente responsabile, almeno nel primo manifestarsi dei sintomi associati al fenomeno amoroso. L'innamoramento, infatti, è in larga parte spontaneo, cioè non attivato consapevolmente dall'individuo, che può tuttavia in un secondo momento decidere se "nutrire" (come si fa per un cucciolo) l'amore e "coltivarlo" (come con una pianta) o contrastarlo con la forza della ragione e della volontà.
Il soggetto, dunque, non è un agente, ma di certo è il primo riferimento del verbo, che al soggetto si accorda (come notava Otto Jespersen). Al tempo stesso, la presenza dell'altro, dell'oggetto d'amore è quello che fa la differenza: una persona in carne e ossa, un artefatto (un libro o un film per esempio), un'attività, un'idea... attivano emozioni e sensazioni molto diverse e comportano un diverso grado di coinvolgimento del soggetto.

Se dico Renzo ama Lucia assumo la prospettiva di Renzo: è ai suoi sentimenti che guardo, incurante di quelli di Lucia, che di quell'amore è l'oggetto (magari inconsapevole). E tale Lucia rimane, sul piano semantico, anche se la trasformo in soggetto grammaticale della frase attraverso la forma passiva: Lucia è amata da Renzo. Se uso questa forma è perché sento più vicina a me Lucia rispetto a Renzo, ma non mi pronuncio sui sentimenti di lei nei confronti di lui.

L'assenza di controllo da parte del soggetto su ciò che accade nel processo amoroso è qualcosa di ben presente anche al senso comune, che fa appello a cause esterne quando si tratta di descrivere l'innamoramento: frecce scoccate da un dio alato, filtri d'amore, colpi di fulmine...
Innamorarsi, appunto: un verbo specializzato per descrivere il momento iniziale del processo; costruito con quel prefisso iniziale in-, che indica la direzione, o l'inizio di un processo di cambiamento. Un verbo pronominale che, in quel -si finale, dice lo spontaneo attivarsi del processo nella persona e il coinvolgimento a parte intera del soggetto: come per vergognarsi, arrabbiarsi e tanti altri sentimenti che ci capita di provare.

Ragionare in classe sui verbi e le valenze permette di capire meglio non solo la grammatica ma anche il modo con cui mettiamo in forma di parole esperienze condivise (è quella che, con Michele Prandi, chiamo "grammatica filosofica").
Oggi sappiamo che questo tipo di riflessione grammaticale permette anche di far luce sui nostri meccanismi cerebrali: tornando alla riflessione del prof. Gallese, il verbo (amare e tutti gli altri) ha non solo il potere di attivare relazioni sintattiche, ma anche quello di creare scenari diversi a seconda dei "nomi" che chiama intorno a sé.
Nomi e verbi, come hanno mostrato gli studi basati su neuroimmagini, hanno del resto una localizzazione diversa nelle aree cerebrali: i nomi attivano perlopiù le aree posteriori, i verbi quelle anteriori legate al movimento.

Anche per questo la valenza è un concetto illuminante.
Le neuroscienze, poi, hanno mostrato che l'intelligenza umana non si comprende se la dissociamo dal corpo delle passioni, delle emozioni.
Questa è forse un'altra storia... ma anche un'altra buona ragione per "coniugare al presente il verbo amare", come cantano i Baustelle.




    

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