Un riflessione a più voci su quella che don Milani considerava una risorsa linguistica al servizio dell'espressione dell'affettività. Il passivo, infatti, è un tipo di costruzione che consente al parlante di intervenire sulla prospettiva della frase mettendo in primo piano il Paziente (chi subisce l'azione) anziché l'Agente (chi la compie), il quale può addirittura essere cancellato (magari perché sconosciuto o perché non lo si vuole nominare), oppure viene appositamente ritardato perché introdotto come nuovo o "contrastato" (implicitamente opposto a un altro agente).
Il passivo è una possibilità prevista in molte lingue, ma non in tutte (l'ungherese, per esempio, non ha il passivo). L'italiano, tra le lingue romanze, è la lingua che ha la più vasta gamma di perifrasi per formare il passivo: la forma "canonica" essere + participio passato, le forme con andare/venire + participio passato, vedersi + participio passato/infinito (forma di solito non citata nelle grammatiche), rimanere/restare/risultare + participio passato, oltre al si "passivante".
In italiano, inoltre, è possibile declassare l'agente e promuovere il paziente anche con una costruzione marcata tipica del parlato, chiamata "frase segmentata" (si veda l'immagine, tratta da Sabatini-Camodeca-De Santis 2011):
Nell'italiano contemporaneo, inoltre, tende a diffondersi anche una costruzione causativa o fattitiva con valore indebolito, ricalcata sul francese, che in alcuni contesti riceve interpretazione passiva (es. Si è fatto rubare il portafoglio),
Come ha sottolineato Claude Hagège nella sua relazione inaugurale, se ci sottraiamo alla tirannia del generativismo, che ha ridotto la costruzione passiva a una mera trasformazione sintattica della costruzione attiva che agirebbe in superficie (perché, mantenendo intatti i ruoli di Agente e Paziente, preserverebbe il significato e quindi la struttura profonda della frase), riusciremo a mettere a fuoco il valore pragmatico del passivo, che è utilizzato in determinati contesti comunicativi (nello scritto più che nel parlato) e in alcuni generi testuali più che in altri (scientifico, giuridico, burocratico-amministrativo) perché consente di spersonalizzare e oggettivare il discorso, conferendogli all'occorrenza un "effetto di autorità". O anche solo per aggiungere alla frase una certa modalità (una sfumatura legata all'atteggiamento del parlante rispetto al dire o al detto).
Attivo e passivo, insomma, sono due costruzioni correlate, che si definiscono per corrispondenze reciproche, ma non possono essere considerate equivalenti.
Proprio la ricerca di determinati effetti comunicativi giustificherebbe la tendenza a estendere la costruzione passiva a verbi intransitivi con reggenza preposizionale che non dovrebbero ammetterla (o che la ammettevano nella fase antica della lingua ma che nell'italiano contemporaneo sono sentiti come al limite della grammaticalità): obbedire a / essere obbedito (caso già noto e studiato), ma anche rimediare a / essere rimediato, alludere a / essere alluso e così via. Una tendenza registrata in testi giornalistici e testi burocratico-amministrativi.
Casi di "forzatura del sistema" diversi, ma simmetrici, rispetto alla citazione poetica di Luzi, in cui a essere volto al passivo è un verbo "stativo" (avere), che pur essendo transitivo non ammette il passivo (lo stesso accade per verbi indicanti relazione come concernere e riguardare).
Vale la pena ricordare che nei verbi (in)transitivi non c'è nulla che (non) "transiti": ci sono costruzioni verbali diverse (non di rado comprensenti in uno stesso verbo), dirette o indirette, con restrizioni sintattiche e semantiche diverse che dipendono (anche) dal significato del verbo.
Anche per questo il concetto di "valenza" riesce a descrivere i verbi con una precisione di gran lunga maggiore rispetto alla distinzione tradizionale transitivi/intransitivi, che funziona finché descriviamo la lingua nelle sue strutture prototipiche e negli usi più consueti, ma diventa insoddisfacente non appena - come don Chisciotte - guardiamo il rovescio dell'arazzo.
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