Nel marzo 2010, sulle pagine di Micromega, era uscita la lettera di una professoressa a don Milani. Forse vale la pena rileggerla.
Caro don Lorenzo,
sono passati quanti anni dalla lettera che mi hai inviato? 42? 43? Il mondo è cambiato mille volte da allora. E’ cambiato il mondo, sono cambiata io, anche se ho esattamente gli stessi anni di quella lettera che tengo sul comodino e conosco a memoria. Eppure io mi ritrovo a insegnare incredibilmente nella scuola dei tuoi poveri Giovanni, sempre più distinti dai ricchi Pierini. Non a Barbiana, bensì in una periferia palermitana, in Sicilia, nella regione più povera d’Italia. Quella che avrebbe bisogno di attenzioni e aiuti e invece ha avuto, indistintamente, gli stessi identici tagli che si sono verificati altrove. Solo che qui un taglio è la decapitazione. “Non si divide una torta in parti uguali tra diseguali”, così mi hai spiegato e mi avevi convinta. 40 anni fa, ci avevi convinti tutti. Noi insegnanti e quelli che decidono. Avevamo capito la tua lezione. Ci abbiamo provato a fare una scuola migliore. E l’avevamo fatta, lasciamelo dire, prima che arrivasse questo disastro.
I tuoi erano altri tempi e altre anime. Da un lato c’era l’ignoranza, quella vera, quella che vivevi come un'onta e dall’altra, come un sole, come una promessa di progresso, la cultura. I pochi che sapevano guidavano dall’alto lo sterminato numero di quanti non sapevano. Io ero tra quelli che sapevano, e me ne vantavo, nel bene e nel male. Ero una professoressa e persino don Milani, tu, mi temevi, mi rispettavi, riconoscevi un valore in quello che facevo. Oggi è il contrario. Sembra quasi che la cultura sia un’onta e che tutto sia riducibile a quantità. Tutto, ogni cosa. Non solo la cultura dobbiamo difendere, ahinoi. Dobbiamo rispiegare da zero alcune cose che avevamo assunto per fondamenta: il valore delle regole, dell’onestà, della legalità, della dignità, della coesione sociale. Si sono sfaldate mentre stavamo nelle classi: senza accorgercene ce le siamo fatte levare una ad una quelle certezze. Siamo rimaste così: oltre ai gessetti ci hanno tolto la terra da sotto i piedi. La terra delle quantità al posto dell’humus delle qualità.
[...]
Sono una professoressa e molti mi disprezzano. Forse anche tu mi disprezzavi, non certo per il mio mestiere, che hai scelto anche tu di fare: insegnare. Mi disprezzavi perché insegnavo solo ai Pierini, i figli dei ricchi e lasciavo indietro i tuoi Giovanni, poveri e malandati e mi dimenticavo che la Costituzione recita che tutti hanno diritto a un’istruzione pubblica di qualità. Io ti ho ascoltata eccome e oggi insegno in una scuola di tanti piccoli Giovanni. Accade esattamente la stessa cosa: i miei Giovanni sono nuovamente distinti dai Pierini. Si è però verificato uno scambio curioso. Siamo solo noi da dentro quelle aule sporche e fredde a difendere il diritto a un futuro migliore per i Giovanni di oggi. Noi professoresse. E lo facciamo adesso perché stanno mettendo in pericolo quella possibilità.
Oggi le scuole migliori si pagano, è sempre stato così mi dirai. Ma non da far diventare sempre peggiori quelle destinate ai più. Quasi fossero anch’esse ad esaurimento, come le graduatorie dei miei colleghi precari, senza che nessuno dica o faccia nulla. Ad esaurimento come la coesione sociale che noi, soli, dentro le aule, possiamo ripristinare. Sono altri i nemici che allontanano i miei ragazzi dal proseguire gli studi. Non certo io. Sono i ritorni ai “5 in condotta”, sono il ripristino di parole vetuste come “apprendistato”. L’Italia è cambiata, caro don Lorenzo, ma è cambiata perché sta tornando indietro. In ogni casa c’è una tv, ogni mio alunno ha un cellulare ma spesso non ha i libri. E perché mai un libro dovrebbe essere più importante di un cellulare per una mamma di periferia? [...]
Ti dico di più: come faccio a convincerli che solo la conoscenza li salverà? Solo la conoscenza li farà padroni del mondo? Solo la conoscenza ne farà adulti consapevoli? Come faccio a convincerli che la scuola non è un “servizio” ma un diritto alto? Se poi i loro fratelli più grandi, che faticosamente arrivano alla laurea e sono più bravi degli altri perché hanno studiato sodo e da soli, e poi magari decidono di accedere alle cariche o alle carriere che meriterebbero, cioè le migliori, beh, per quei ragazzi qua a Palermo, non c’è altra via che andarsene?... a Palermo? Correggo: in Italia. E allora a che serve battersi per una scuola pubblica? Per la diffusione della conoscenza, per la promozione del merito? [...] A che serve se nessuno si rende conto che quella ad essere davvero messa in discussione, con la distruzione della scuola pubblica italiana, è la natura stessa della democrazia? Chi vuole veramente assicurare ai nostri figli oggi quel pensiero critico e libero che solo una scuola pubblica sana e voluta da tutti potrebbe ottenere? Chi? Mi giro intorno e vedo solo qualcun altro come me, qualche altro professore. E nemmeno tutti.
Non vedo classi dirigenti che gridano allo scandalo. No. Non vedo intellettuali. Non vedo scrittori, artisti, giornalisti. Non ne vedo nessuno che sia sceso con me a darmi forza e a sostenermi. [...] Anzi, quegli stessi intellettuali, da una lontananza ben più siderale di quella di cui tu, caro don Lorenzo, accusavi me, professoressa, quasi quasi, mi additano sospettosi. Non sei brava, hai due mesi di vacanze, hai tanti privilegi, siete troppi. E non sono mai entrati in una mia aula. Non hanno mai visto in che condizioni lavoro, in che condizioni costringo i miei ragazzi alla disciplina, quando vorrei che spaccassero quelle pareti sporche e facessero la rivoluzione anche contro di me, che non ho la forza che hai avuto tu, caro don Lorenzo, di spiegarglielo a tutti gli italiani cosa voglia dire fare scuola.
Il valore di un popolo è direttamente proporzionale al valore che attribuisce alla scuola e alla conoscenza. E mi rattrista riconoscere che il valore del nostro popolo si sta frantumando come la mappa di Borges proprio mentre da più parti per molto meno le folle si riuniscono chiamate dal piffero della telecrazia imperante. Tutte le mattine mi siedo alla mia cattedra, faccio l’appello, inizio la mia lezione restituendo il sorriso della vita che mi regalano i ragazzi e mi ripeto che quella forza la devo ritrovare intera. Perché io non rimango muta di fronte a questa ignobile distruzione: io non ne sarò complice. Siatelo voi, complici. Io no. E da quando mi sveglierò la mattina a quando andrò a letto la sera, in ogni angolo e con tutta la voce che ho lo ripeterò fino a quando non mi ascolteranno: stanno distruggendo la scuola, evitiamolo.
(11 marzo 2010)
La mittente della lettera, Mila Spicola, è un'insegnante palermitana delle scuole medie politicamente impegnata. Cura un blog che prende il nome dal suo libro, La scuola s'è rotta. Lettere di una professoressa (Einaudi, 2010).
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