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giovedì 29 ottobre 2020

Luminosa festosa viva: la grammatica di Rodari (intervista a Daniela Marcheschi)


È da poco uscito il Meridiano delle Opere di Gianni Rodari, curato da Daniela Marcheschi: un volumone di 1800 pagine sottili (rigorosamente senza figure!) corredato di un quaderno illustrato a colori (curato da Grazia Gotti) dedicato alle opere dei tanti illustratori e illustratrici (compresa la figlia Paola) che hanno accompagnato con le loro immagini i testi di Rodari nel tempo.

Il volume raccoglie la produzione narrativa, poetica e saggistica di Rodari, consegnandoci un ritratto a figura intera dello scrittore. Ne parliamo con Marcheschi: letterata, critica e studiosa di storia culturale, epistemologia, antropologia delle arti, già curatrice per i Meridiani Mondadori delle opere di Collodi e di Pontiggia. 



Rodari è considerato uno scrittore per l'infanzia, ma il suo lavoro di "scardinatore della lingua" (come lo definiva Tullio De Mauro) si rivolge solo ai più piccoli? Le sue opere per ragazzi con quali altri opere per grandi dialogano?

No, si rivolgeva a tutti: «Tutti gli usi della parola a tutti» era il suo motto, com’è noto. La lingua è un bene di cui il bambino ha diritto; ed è un dovere degli adulti, della società, consentirgli di apprenderla al meglio, di “abitarla” al meglio, per poter diventare un uomo libero. Non a caso Rodari parla di «civiltà dell’infanzia», nel senso di ciò che si deve costruire perché il bambino possa crescere in piena armonia: da un lato, istituzioni come scuole, biblioteche, ludoteche e simili, dall’altro, letteratura, cinema, teatro, ecc., per l’infanzia. In Rodari, che è originale in questo, si ritrova in filigrana tutto il miglior Novecento educativo-pedagogico: da Maria Montessori a Don Milani, da Mario Lodi a Danilo Dolci, giusto per fare qualche nome.

Rodari nota come il bambino sia diverso dall’adulto, ma pensa sempre i bambini insieme con gli adulti, e gli adulti insieme con i bambini: in ciò non tradisce mai il giovane maestro che era stato. Lui stesso non può pensare di scrivere i suoi libri senza farne una verifica incontrando scolaresche su scolaresche e discutendoli con loro. I suoi libri sono per tutti, e da leggere insieme. Generazioni diverse, ma insieme.

Sul piano letterario come si possono incontrare il bambino con l’adulto? Appunto sul piano di una lingua dell’uso, di un linguaggio chiaro, di uno stile semplice, di ritmi-danza corporea che permettono quella che Marcel Jousse chiamava «la manducazione della parola», dell’umorismo e della satira. Non per nulla Rodari scrive ad esempio per gli adulti versi comici e umoristici, che pubblica nella rivista satirica romana «Il Caffè» di Giambattista Vicari; e in Parole per giocare (1979) include versi per bambini e altri per adulti. Pensare a Rodari come a uno scrittore moderno di dual audience e di double audience, che scrive via via per i bambini e per i grandi e, insieme, per grandi e piccoli e viceversa, è fondamentale per capirne la complessità del lavoro.


Grammatica della fantasia è un titolo ossimorico, almeno così doveva essere recepito nei primi anni Settanta, e forse ancora oggi nel senso comune. Che letture ci sono dietro la valorizzazione dell'immaginazione combinatoria di Rodari? Che influenza ha avuto nella costruzione del libro l'originaria destinazione didattica delle lezioni che compongono il libro?  

La nostra cultura era ed è ancora talmente imbevuta  di  romanticismo (attraverso l’esperienza decadente) che tendiamo a vedere ovunque opposizioni antitetiche, eppure già Kant  - lo sapeva Rodari che lo aveva bene assimilato fin dalla giovinezza - aveva osservato come immaginazione e intelletto siano due facoltà dell’essere umano tutt’altro che in antitesi, sebbene in grado di esplicarsi in modo distinto. Pertanto, secondo l’ausipicio di Novalis - «Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare» -, Rodari ha preso a indagare la Fantastica nel tentativo di chiarirne le “leggi” e il funzionamento: Introduzione all’arte di inventare storie recita non per niente il sottotitolo di Grammatica della Fantasia.

La combinatoria di Rodari è, così, particolare: non confonde mai la regola con la costrizione di un vincolo assunto a priori, che non può non tralasciare leggi dei materiali, intenzionalità e finalità artistiche, le reciproche determinazioni fra soggetto che scrive e oggetto scritto. La tecnica, la regola sono sempre il punto di partenza, mai l’unica strada forzatamente percorribile. Infatti il finale delle sue storie presenta sempre uno scarto, è poco prevedibile, al contrario, ad esempio, di quanto accade con il Calvino più tardo (ad esempio: Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979).  

Grammatica della fantasia è un’opera di straordinaria complessità, un tutto: strumento didattico-pedagogico, saggio, autobiografia, narrazione aperta, riflessione critica sulla lingua e la letteratura, conversazione amichevole ecc. ecc. Ha dietro una sterminata quantità di letture di ogni sorta: di «psicologia», «pedagogia», «didattica», «sociologia», ma anche di storia, grammatica, filosofia, scienze, musica e via ad libitum. Non si può infatti, «fantasticare nel vuoto», Rodari scriveva in La letteratura infantile oggiEsercizio di insegnamento e, insieme, di  apprendimento, Grammatica della Fantasia è il libro-giocattolo per eccellenza: unisce piccoli e grandi e fa della fantasia un modo più intenso di vivere, come del resto lo è il pensiero; stringe il libro di lettura alla vita in un vincolo di necessità e di piacere profondo: perché è senz’altro anche un modo per insegnare a leggere le fiabe o il limerick, oltre che a produrli. Nel libro-giocattolo di Rodari sono mirabilmente sintetizzati l’azione educativo-didattica, l’estetica, la ricerca tecnica, l’esperienza e il gioco.


Grammatica della fantasia si occupa di "grammatica delle storie", ma tante storie e filastrocche rodariane mettono in scena anche la grammatica della lingua e la sua terminologia. Che importanza ha avuto sul piano educativo la sua valorizzazione creativa dell'errore?  

Notevole, perché le filastrocche sulla punteggiatura, sugli errori dei bambini, consentono proprio ai piccoli di memorizzare la forma sbagliata e quella corretta: il verso della filastrocca, il ritmo giocoso si stampa nella memoria grazie alla festa del corpo che ascolta e “inghiotte” la parola. Siamo ben lontani dal lassismo pedagogico, da una eccessiva indulgenza o dallo scadimento della sostanza didattica. Anzi. Rodari, che aveva dentro di sé la gioia di studiare e imparare, trasmetteva in questo modo ai bambini la gioia della conoscenza,  la bellezza di sapere.


Marcheschi, lei ha curato anche il Meridiano di un altro classico per l'infanzia, Carlo Collodi. Il lavoro di edizione di testi ottocenteschi e di testi novecenteschi ha comportato grandi differenze? Ha trovato analogie tra le operazioni culturali dei due autori e tra le diverse immagini di scuola e di infanzia proposte?

Il lavoro filologico è comunque sempre necessario per qualsiasi autore si voglia studiare: dal testo, dalla lettera dei testi, bisogna partire, proprio per evitare equivoci, chiacchiere inutili e approssimative. La filologia è base fondamentale per l’esercizio della interpretazione e della critica, perché ci mette a confronto con la storicità della parola e del testo, con i suoi significati, e illumina lo stile di un autore.

In genere l’Ottocento si studia meglio del Novecento: gli archivi di 200 anni fa non sono chiusi o soggetti a tanti vincoli come invece possono essere spesso quelli che conservano documenti più vicini nel tempo.

Nel caso di Collodi e Rodari - che pubblicano, correggono e ripubblicano i loro testi su varie testate, e più volte, magari recuperando anche redazioni già accantonate -, bisogna talora procedere in analogo modo. Se ne deve “leggere” bene non solo il percorso variantistico, ma anche il contesto specifico a cui una redazione è destinata e perché. Oltre a differenze che qui non vale la pena di enumerare, la grande diversità è che le opere di Collodi sono oggetto di una Edizione Nazionale, che ho l’onore di presiedere e che ne sta dando finalmente, tra le altre cose, pure una edizione critica. Per Rodari una simile edizione manca; e in occasione del Meridiano una delle tante fatiche è stata anche quella di cercare di individuare la direzione e le peculiarità degli usi scrittori dell’Autore. Per il confronto delle versioni dei testi usciti sui giornali e in edizioni a stampa, per aver assecondato in uniformità i criteri indicati implicitamente da Rodari nelle singole opere e in generale nella sua scrittura, si può anzi dire che il volume mondadoriano costituisce un primo avvio a verifiche storico-filologiche più puntuali di quanto in genere non si sia fatto finora*, e di cui dà conto la Nota all’edizione.

Quanto all’idea di infanzia, Collodi e Rodari presentano affinità: c’è un comune rispetto del bambino e dell’infanzia, concepita come un momento di festosità e conoscenza. Le spettano la libertà di fare esperienza e il dovere di andare a scuola; il diritto di avere una esistenza che le permetta di esplicarsi in serenità e il dovere di rapportarsi al mondo degli adulti, familiarizzando con le responsabilità; il dovere di mantenere la propria integrità morale e cercare la verità. Del resto, fra il Collodi, che nasce nel 1826 e muore nel 1890, e il Rodari, che muore quasi cento anni dopo nel 1980, all’età di 60 anni, c’è un terreno che vorrei dire, con un paradosso ma non troppo,  “d’intesa”: il Risorgimento, con tutti gli slanci che tanti giovani partigiani, uno fu appunto Rodari, sentirono proprio come radicati nella matrice risorgimentale. Non era poco; e non per nulla Collodi era andato a combattere, come volontario, nelle prime due guerre d’Indipendenza.

Sia Collodi sia Rodari cercavano di creare una letteratura per l’infanzia nuova: non moralisticamente pedagogica, non severa né consolatoria. Non propongono ai loro piccoli lettori una visione edulcorata della società e del mondo, che sono mostrati loro in tutta la cattiveria e pesantezza che vi possono albergare: povertà, ingiustizia, falsità, fatica, morte. Poi, naturalmente, la scuola ai tempi di Collodi era diversa: più mnemonica, più “inquadrata”, sebbene un testo come Quand’ero ragazzo, in Storie allegre (1887) la dica lunga sulla scuola ottocentesca. Non va dimenticato poi che, a lungo, i libri collodiani furono sgraditi al Ministero della Pubblica Istruzione, perché  “concepiti in modo così romanzesco, da dar soverchio luogo al dolce, distraendo dall’utile; e sono scritti in istile così gaio, e non di rado così umoristicamente frivolo, da togliere serietà all’insegnamento” (cfr. Editori a Firenze nel secondo Ottocento [...], a cura di I. Porciani, Prefazione di G. Spadolini, Firenze, Olschki, 1983, pp. 480-481). Collodi nutriva del resto una idea della infanzia come rivoluzionaria in sé – si pensi alla parentela stretta fra il Gavroche di Victor Hugo e Pinocchio –, di cui ho scritto in  Per una idea di infanzia (e dell'età adulta): immagini del bambino nella narrativa europea dell'Ottocento, in «Enthymema» (VI, 2012,  pp. 101-117, I ediz. : Madeira, 2008).


Ci dia una sua definizione della lingua di Rodari.

Luminosa, festosa: viva.


*Si veda, per esempio, il testo di Grammatica della fantasia, per la prima volta ricontrollato ed emendato da refusi e indicazioni bibliografiche imprecise.

P.S.: Se volete leggere due belle recensioni al Meridiano, a questo link trovate quella di Roberto Carnero, qui quella di Gino Ruozzi. 


domenica 11 ottobre 2020

Alice nella selva oscura (sulla nuova grammatica De Santis-Prandi)

...... CI SIAMO

La nuova grammatica dell'italiano, essenziale e ragionata, sbocciata durante il periodo della prima quarantena (ma risultato di un decennio e oltre di riflessioni), è arrivata. Ed è anche recensita

Questa è la copertina che vedrete, "senza figure" (direbbe Alice nel Paese delle Meraviglie), di un color lavanda molto glamour (aggettivo che nasce dalla trasformazione della parola latina gramatica) e a lettere sfalsate (come nelle copertine più recenti dei libri di Rodari):


 Questa, invece, è la copertina che non vedrete, ma che ci sarebbe piaciuta per più motivi:


Innanzitutto il libro, che esce a ridosso dell'anno dantesco e del Dantedì, è dedicato a lui (a ser Durante Alighieri) per quel "naturale amore" verso la lingua materna (il "volgare" e il suo potere generativo) che ci ha condotti fin qui.

Poi, il libro inizia con una domanda: "Per quale porta siamo entrati nel territorio della grammatica?". E sì, il riferimento è all'Alice di Lewis Carroll, la bambina che deve farsi piccola o crescere a dismisura per entrare in una porta non pensata per lei, per le sue dimensioni ridotte ma non microscopiche, e addentrarsi in un territorio noto (quello della lingua materna) con una mappa pensata per un altro, più antico, territorio (quello del latino).

Cito dall'introduzione al secondo volume di una Grammatica delle due lingue italiana e latina compilata a uso dei ginnasi della Lombardia dal canonico Ferdinando Bellisomi, stampata a Milano nel 1827 dalla tipografia Pogliani e venduta al prezzo di 2 lire austriache:

Fu sciagura della grammatica italiana che i primi, i quali si diedero a compilarla, avvisassero di doverla ritrarre col linguaggio che già vedevano adoperato per la grammatica latina. Di qui venne che un tempo fu insegnato che la lingua italiana aveva casi e declinazioni e genere neutro e verbi deponenti e verbi neutri e gerundi e supini ecc. ecc., e sebbene col volger degli anni e col sorgere di una sana ed illuminata filosofia, qualche parte ella abbia dismesso di queste anticaglie, nondimeno ne conserva ancora, e, tolta per tal modo la semplicità del linguaggio didascalico, che dovrebbe rispondere alla semplicità delle cose, la verità perde assai di quella luce che è guida alle menti per giungere a lei e per darle grata accoglienza.

Al prezzo di 6 lire toscane era venduta in quegli stessi anni (in un'Italia disunita) la seconda edizione di una Grammatica ragionata della lingua italiana uscita a Livorno dai torchi di Luigi Angeloni nel 1834 (ma la prima edizione è del 1828), opera di Carlo Antonio Vanzon. Un esempio dello sforzo di produrre strumenti nuovi, ispirati a una "sana e illuminata filosofia" (la scuola di Port-Royal, che aveva prodotto nel 1660 la Grammaire generale et raisonnée, opera del grammatico Claude Arnauld e del filosofo Antoine Lancelot), che avessero "per iscopo il far riflettere l'alunno su ciò che sa, anzi che insegnargli la propria lingua" - cito dalla Prefazione dell'Autore all'opera. L'obiettivo era quello di "alleggerire il peso dell'ammaestrare, e abbreviare, di gran tratto, il cammino".

La metafora del cammino è quella che ci ha guidati nella stesura dell'opera. Non abbiamo guardato alle altre grammatiche, con lo scrupolo di aggiungere ogni minima eccezione, ma ripensato alle nostre con l'obiettivo di trovare una più agevole e "diritta via". Disboscando per ridurre all'essenziale la materia. Modificando, se necessario, le etichette che indicassero la direzione da seguire. Procedendo per via induttiva: attraverso il ragionamento guidato che parte da esempi concreti, li analizza e li confronta per arrivare poi alla formulazione della regola o della definizione.  

Rivolgendoci ad adulti, quindi potendo fare riferimento (a differenza delle grammatiche scolastiche) a «una normatività di carattere diverso, più elastico, più "ragionevole a ragionevole"», per citare Antonio Gramsci (Postille alla Grammatica di Panzini).  

Una grammatica ragionevole e "ragionata": nella disposizione delle parti, nello sviluppo di ciascuna di esse e nella descrizione dei fatti di lingua. 

Per procedere razionalmente abbiamo ritenuto necessario partire dalla frase, e da questa muoverci guardando verso l'alto (ai periodi e ai testi in cui la frase è destinata a entrare) e verso il basso (alle parti del discorso e alle unità intermedie, i sintagmi, che compongono la frase). Abbiamo cercato di districarci tra regole e scelte, smettendo l'abito dei censori e osservando senza pregiudizi la realtà mutevole della lingua circostante (che non si confà sempre alla logica, né all'economia). Ci siamo sforzati di capire e di mostrare in che modo possibilità diverse di espressione possano rispondere alle varie esigenze comunicative: dare forma a un pensiero, scambiare informazioni, persuadere, produrre bellezza.  

Non è stato facile. Ci sono state esitazioni, ripensamenti, rinunce più e meno sofferte (dovendo stare in 260 pagine...).

Non si tratta di una grammatica che risolve tutti i dubbi, ma che invita a porsene di nuovi, più fondati. Per questo motivo abbiamo scelto di inserire un glossario con rimandi interni, ma non un indice analitico delle forme. Abbiamo poi potuto rinunciare alla bibliografia perché è evidentemente la stessa del nostro Manuale di linguistica e di grammatica italiana uscito nel 2019.

Non è una grammatica normativa, ma una grammatica descrittiva, che sostituisce al principio di autorità quello della responsabilità individuale.  

Un obiettivo ambizioso, che si traduce in un testo agile e comprensibile. Perché individuare con chiarezza le regole fondamentali e condivise è il presupposto necessario per orientare le nostre scelte di parlanti consapevoli del potere delle parole. Consapevoli anche dell'importanza - ce lo ricorda Paul Celan nei suoi versi - di "non dividere il sì dal no".

Buon viaggio, allora, con l'augurio - già espresso da Salvatore Corticelli nella sua grammatica (1745) - che "l'udir ragionare alcuno ben pratico delle cose grammaticali" possa "arrecarvi maraviglioso diletto". 


P.S. Il volume ha come sottotitolo Per imparare, per insegnare. Perché per insegnare a riflettere sulla lingua bisogna prima aver imparato: non basta richiamare alla memoria il sapere scolastico. Bisogna emanciparsene, per rifare da capo il percorso. Noi siamo partiti in avanscoperta, ma non al posto vostro. A ognuna e a ognuno il compito di sperimentare una strada nuova.

venerdì 2 ottobre 2020

Penso di essere un verbo (Magris e Sebeok in dialogo)


Nel suo ultimo libro, Croce del sud. Tre vite vere e improbabili (Mondadori, 2020, p. 36 s.), Claudio Magris scrive:

Come ogni lingua, ma con intensità particolare, quella araucana si raccoglie, si agglutina intorno al verbo, si avvolge nella sua "selva intricata", in un groviglio di forme, parole e soprattutto di tempi verbali, non dissimile da quello della giungla. La lingua sembra essere non soltanto e forse non tanto l'espressione del vissuto quanto il vissuto stesso. 

Intervistato da Paolo Di Paolo per La lingua batte (27 settembre), Magris precisa che "la lingua in noi è quella parte che dà valore o rifiuta o ama o rigetta la vita che noi stiamo facendo [...] e il verbo certamente in una lingua è la componente per eccellenza che può dire l'esistenza di tutta una vita".

Mi piace accostare a questa affermazione quella del semiologo Thomas A. Sebeok, che nel saggio Penso di essere un verbo (Sellerio, 1990) riprende la frase scritta da Ulysses S. Grant, 18mo presidente degli Stati Uniti, poco prima di morire (1885): "io penso di essere un verbo e non un pronome personale. Un verbo è qualsiasi cosa che significhi essere, fare o soffrire". 


Se il pronome personale è pronto a designare chiunque se ne impadronisca, il verbo appare a Sebeok un "segno vitale" in grado di condensare il senso di un'esistenza. 

Il semiologo fa notare la quasi contemporaneità della frase di Grant con un'altra celebre affermazione "finale": quella di Ch. S. Peirce per cui "l'uomo è un segno" (1905 ca.). 

Sebeok cita anche questo libro, di pochi anni precedente il suo (1970): "una sorta di pastiche con illustrazioni", opera di un pensatore originale (Fuller), che identifica la propria energia creativa con quella del verbo: 




Pensarci come pronomi ci pone come segni vuoti (io è chiunque prenda la parola). Pensarci come nomi (per esempio scrivente, lettrice) ci reifica e, nel dare una forma precisa alle nostre ambizioni, ci blocca in un'istantanea. Pensarci come verbi (scrivo, leggo) restituisce alla nostra esistenza la sua mobilità e imprevedibilità.  

Scrive Alice Ceresa alla voce Grammatica del suo Piccolo dizionario dell'ineguaglianza femminile (Nottetempo, 2020):

Le parole non si possono usare liberamente e secondo ispirazioni personali, né a questo modo interpretare; bensì esse rappresentano frammenti concettuali prestabiliti e convenzionali che ai popoli vengono faticosamente insegnati nella prima infanzia, insieme con i rudimenti appunto grammaticali che ne permettono l'estensiva e corretta combinazione significante per le mille circostanze della vita e delle morte.  

Già, perché con i nomi e i pronomi, in italiano, la scelta si impone: i nomi vanno declinati (al singolare o al plurale, tenuto conto del loro genere intrinseco o di quello del referente nel caso dei nomi mobili), i pronomi prevedono un paradigma complesso (che prevede distinzioni di persona, numero, genere, caso, umano/non umano, tonico/atono), ma i verbi di più, se è vero che li coniughiamo tenendo conto del tempo, del modo, della persona, del numero, in alcuni casi anche del genere del soggetto, dell'aspetto verbale e della diatesi (attiva/passiva). 

Complessità grammaticale e complessità dell'esistere, norme sociali e norme linguistiche (queste ultime si danno sempre insieme alla possibilità della loro violazione), convenzionalità ed emancipazione linguistica. Ne parleremo questa domenica, a La lingua batte. 

Lontano da noi, intanto, il dibattito sul linguaggio inclusivo si muove in direzioni diverse: Noam Chomsky è tra i firmatari della lettera (apparsa su Harper's Magazine il 7 luglio 2020) in difesa del free speech negli Usa (dove è uscito il libro di Suzanne Nossel, Dare to speech). In Francia 32 linguisti hanno firmato una lettera aperta (apparsa su Marianne il 18 settembre 2020) che mette in guardia dai pericoli della scrittura "inclusiva" (posizioni simili a quelle di Nossel, a favore di una "retorica del dissenso" che accolga posizioni contrastanti all'interno del dibattito pubblico, sono state però espresse da Ruth Amossy, analista del discorso di cui è stato recentemente tradotto in italiano il volume Apologie de la polémique. Si veda inoltre questo splendido articolo di Alice Krieg-Planque). 



P.S.: Per sé, Sebeok sceglie il verbo interpretare, a riassumere (e far coincidere) la sua concezione della vita e quella del proprio lavoro. E voi, quale verbo scegliereste?


N.B.: Se volete conoscere meglio Alice Ceresa, potete ascoltare questa bella discussione tra studiose.