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mercoledì 5 dicembre 2018

Insegnare emancipando: la lezione del "maestro ignorante"

Quando tengo corsi di formazione sulla grammatica valenziale a insegnanti di vari ordini di scuola, uno degli ostacoli maggiori che mi trovo a fronteggiare è la resistenza, intesa nel senso psicologico di "opposizione più o meno consapevole", che raramente arriva a essere espressa, ma viene di fatto agita e diventa come tale percepibile sia negli atteggiamenti di ascolto, sia sotto forma di domande che richiamano l'esigenza di avere regole precise, chiaramente insegnabili.
Mi sono spesso interrogata sulle ragioni di questa postura difensiva, attribuendole di volta alla solidità del sapere grammaticale tradizionale, alla scarsa formazione linguistica degli insegnanti, alla conservatività delle pratiche didattiche, all'indifferenza dell'editoria scolastica nei confronti della necessaria selezione e gradualità di presentazione dei contenuti grammaticali (oltre che verso il rinnovamento dei contenuti alla luce delle acquisizioni della linguistica moderna).

Le mie riflessioni si sono arricchite di un tassello grazie alla lettura del prezioso libro di un filosofo francese allievo di Althusser, Jacques Rancière: Il maestro ignorante. Cinque lezioni sull'emancipazione, uscito in Francia nel 1987 e tradotto in Italia nel 2009 per Mimesis.



Si tratta della biografia filosofica di Joseph Jacotot (1770-1840), rivoluzionario francese esule in Belgio, iniziatore di una pratica di emancipazione intellettuale fieramente opposta alla vecchia pedagogia tradizionale basata sull'autorità del maestro. Trovatosi a insegnare letteratura francese a  un pubblico di studenti comprendente fiamminghi che non conoscevano il francese, diede loro in mano l'edizione bilingue di un romanzo di formazione e di avventure: il Télémaque di Fenelon. Rendendosi conto che i suoi studenti riuscivano a imparare il francese da soli (aiutati dalla motivazione e servendosi del testo a fronte), Jacotot ne ricavò un metodo fondato sul riconoscimento dell’eguaglianza delle intelligenze. Il metodo si basava su un percorso di emancipazione in cui il maestro metteva da parte il proprio sapere e il proprio potere per fare leva sul desiderio spontaneo dell'allievo di imparare facendo. Una pratica inedita, destinata a sovvertire le gerarchie intellettuali e le tecniche pedagogiche in nome di un'emancipazione intellettuale affidata a un rapporto paritario tra maestro e allievo.




Uno dei capitoli più interessanti del libro è dedicato al cosiddetto "ordine della spiegazione". Rancière riflette, sulla scorta di Jacotot, sull'importanza che, nella pedagogia tradizionale, la parola del maestro riveste ai fini della comprensione. La spiegazione orale sembra essere necessaria per rompere il mutismo della materia insegnata: anche quando il libro fornisce una spiegazione chiara, l'intervento chiarificatore del maestro (e, andando avanti nell'istruzione, di tanti maestri quante sono le materie insegnate) sembra ineludibile ai fini della comprensione. Eppure, l'apprendimento della lingua materna funziona senza spiegazioni, e il bambino che arriva a scuola ne conosce già le regole sotto forma di quella che noi oggi chiamiamo "grammatica implicita".
Come mai, anche nell'insegnamento della lingua materna, l'insegnante non rinuncia alla "spiegazione scolastica" che, nei modi in cui si manifesta, appare influenzata dalla tradizione dogmatica del catechismo?
La risposta di Jacotot, attraverso le parole di Rancière, è che l'insegnante "sapiente" - cioè detentore di un sapere, vero o presunto - non vuole abdicare alla propria autorità, alla possibilità di dare la regola e di correggere l'errore, di lodare e punire; fatica a lasciare all'allievo l'iniziativa della riflessione, a seguirlo e accompagnarlo nei suoi percorsi di scoperta, a fronteggiare dubbi che non sempre hanno un risposta univoca e codificata.  

Ebbene, nell'idea di "lezione di grammatica" che implicitamente il modello valenziale evoca, si parte da ciò che l'allievo sa già (anche se non sa di saperlo) e si arriva alla costruzione di un sapere condiviso. L'insegnante fa da guida e, se accetta - anche agli occhi della classe -  di essere "ignorante", può scoprire insieme agli allievi la struttura della frase a partire dal verbo, interrogarsi con loro su ciò che è necessario e ciò che è facoltativo, ripensare insieme a loro il percorso da seguire nella riflessione linguistica "esplicita".
La differenza di ruolo tra allievo e maestro permane, ma si esprime sotto forma di distanza tra uno stadio iniziale e uno stadio finale dell'apprendimento linguistico (che nell'insegnante sarà nutrito anche di coscienza storica e consapevolezza della varietà degli usi): il ruolo del maestro, da questo punto di vista, concilia autorità ed emancipazione. L'intelligenza dell'allievo non è umiliata e accantonata, ma valorizzata.  

"Maître est celui qui mantient le chercheur dans sa route, celle où il est seul  à chercher et ne cesse de le faire."

Di solito uso, negli incontri con gli insegnanti, un argomento polemico che ha sempre effetto e che mi aiuta a capire il loro grado di attaccamento all'idea di grammatica come forma di autorità: la liceità del costrutto a me mi.
Non pretendo che gli insegnanti (pagati anche per fare i guardiani della norma) promuovano a regola un uso relegato al parlato colloquiale, ma vorrei che smettessero di rifiutare la cittadinanza, in nome di una regoletta scolastica, a un uso perfettamente lecito nella grammatica del parlato. Un uso che ha una motivazione e una legittimità molto più profonde e più forti della volontà logicizzante che pretende di cancellare le ripetizioni inutili (inutili per l'occhio, ma non per l'orecchio) di pronomi (e non solo), costringendoci a sorvegliarci in continuazione e ad autocorreggerci per non sembrare sciatti o, peggio, ignoranti. Eppure basta leggere la migliore letteratura, da Manzoni indietro e in avanti, per rendersi conto che quella costruzione - che in linguistica si chiama "focalizzazione" - è ineludibile quando si voglia riprodurre un parlato autentico, non costretto dalla camicia di forza del monolinguismo scolastico.
Che nella costruzione a me mi la funzione di a me sia diversa da quella di mi (e che la presenza di entrambi non sia una ridondanza) ce lo conferma il fatto che usiamo questa costruzione anche con verbi transitivi: non solo diciamo a me mi piace, ma anche a me non mi ascolta (dove il mi sta per 'me', oggetto, mentre a me equivale a 'quanto a me'). 
Che l'ostilità verso a me mi sia legata alla forza del divieto scolastico ce lo dimostra la diffusione indisturbata di costrutti analoghi: a te ti, a noi ci ecc. (quasi che la sorveglianza si esercitasse solo sulla prima persona), di questo ne... E poi, basta che a me e mi si allontanino un po'... che la ripetizione non ci allarma più: "a me mi a me tu non me lo dici" - gridava una maestra in aula, convinta di essere dalla parte della ragione (pur avendo solo l'autorità, o quel che ne rimane, dalla sua).
Che l'intolleranza verso la ripetizione sia un tratto culturale italiano ce lo conferma il fatto che costruzioni analoghe sono considerate perfettamente accettabili in lingue vicine come lo spagnolo (a mí me gusta) o il francese (Moi, j'aime ça).
Non vincerò questa battaglia, ma continuerò a combatterla, in nome dell'emancipazione delle intelligenze!

P.S.: Per una riflessione su un altro cavallo di Troia dei neopuristi, il moribondo congiuntivo, rimando a questo vecchio post.


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