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martedì 6 novembre 2018

Invito alla lettura (D. Eribon raccontato da J. Simonini)

Devo al consiglio del più brillante dei giovani che io conosca (più brillante anche dei meno giovani) la scoperta di un libro importante, un racconto familiare e sociale che solleva domande scomode su un tema che a tutti dovrebbe stare a cuore: che cosa rimane della scuola come ascensore sociale?
Ho chiesto perciò a lui, Jessy Simonini, di raccontarci il suo punto di vista sul libro. Non una recensione generale (quella l'ha già scritta: potete leggerla qui) ma alcune note di lettura centrate sul tema della scuola e dei destini di chi la attraversa, visti da chi si muove tra Francia e Italia, tra Medioevo e contemporaneità.
Buona lettura!




Rileggendo Ritorno a Reims di Didier Eribon (Flammarion, 2010. E poi, in italiano, Bompiani, 2018), emergono alcune riflessioni utili per l’azione didattica e, più in generale, per ripensare il proprio rapporto con la scuola e con l’università; scuola che nel libro di Eribon si configura ancora, molti anni dopo le teorizzazioni di Althusser, come un apparato ideologico dello stato. Ma sarà meglio sgombrare il tavolo dalle categorie marxiste troppo strette e, come suggerisce Annie Ernaux, immergerci in tutta la «riflessione e l’emozione che la lettura di questo libro può suscitare». Del resto, questi pochi appunti vogliono essere prima di tutto un invito alla lettura. Aperto soprattutto a chi vive, ogni giorno, nel mondo educativo, come insegnante o aspirante tale.
Chi scrive, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza ha frequentato scuole di periferia. Dove intorno a insegnanti luminose si dispiegavano i problemi di ogni famiglia, storie di violenza e di abbandono, una grande solitudine. Le elementari al centro di un parco, nella prima periferia milanese. Le medie in fondo alla provincia di Bologna, molto lontano dalla città. E poi, tutto è cambiato. Un liceo del centro, già abitato dalla retorica della «meritocrazia» : i nostri lari, quasi modelli da imitare, erano presidenti della Camera, avvocati, notai, medici. Dopo la maturità, le università di « eccellenza», un percorso di studi «eccellente». Così si dice nel gergo accademico di inaugurazioni e prolusioni. Come ad allontanare la mediocrità o l’ipotesi di un fallimento. Come a spingere via il mondo fuori e la vita vera: nient’altro che due dettagli di cui nessuno si occupa. 
C’è come una discrasia fortissima fra il destino di classe al quale anche io, come la maggior parte dei miei compagni alle elementari e alle medie, ero predestinato, e quello che, contravvenendo alle regole rigide del determinismo sociale, è accaduto, nei fatti. A volte si può avere l’impressione, forse sbagliata, di essere una delle pochissime falle previste nel sistema. «Quello che ce l’ha fatta» e che quindi rilegittima il sistema, ne giustifica l’esistenza e la resistenza. Piccole sentinelle per dare respiro allo spirito della «meritocrazia repubblicana» e farla continuare ad esistere per quello che è: una costruzione retorica che giustifica la riproduzione sociale, le dà più forza. 
Perché «meritocrazia» ed «eccellenza» sono le parole più politiche che esistono oggi, quando si parla di scuola o università. Sono quelle che definiscono i contorni ideologici del discorso ed esprimono lo spirito più limpido del neoliberismo. Nelle sue molteplici espressioni.
 
Ma il percorso di cui Eribon racconta nel suo Ritorno è in parte diverso. Da un lato, perché è in Francia che si snoda; dall’altro, perché quello del giovane Didier non è, in alcun modo, un percorso scolastico «di eccellenza». In Francia esistono due strade ben definite, che corrispondono ad una altrettanto definita divisione di classe. Il percorso canonico, le medie, un liceo «generale», la fac, cioè l’Università pubblica. E poi il percorso per gli eccellenti, al 90% figli di dirigenti, quadri, professionisti, intellettuali: il liceo migliore, quello che a sua volta garantisce l'accesso alla migliore classe prépa, necessaria per poter partecipare ai concorsi per le grands écoles, una delle Normali, il Politecnico, Sciences Po, le grandi scuole di commercio… Ne ha scritto Bourdieu, molti anni fa, nel suo Les héritiers
A differenza degli altri intellettuali della sua generazione, Eribon ha studiato in un liceo di provincia, poi in una università di provincia e provinciale. Quando in un esame universitario citò Simone de Beauvoir (quest’anno inserita nel programma del concorso per l’insegnamento, l’agrégation. Due anni fa ci fu posto per Christine de Pizan: cose impensabili fino a pochi anni fa), il professore gli mise un brutto voto, sostenendo che la signorina De Beauvoir aveva mancato di rispetto alla propria madre. Un aneddoto ancora molto significativo.
Eribon è stato il primo, di tutta la sua famiglia, a iscriversi alle scuole superiori. Il primo, fra tutti, a studiare all’università. E, peraltro, non qualcosa di pratico, capace di dargli subito un lavoro: no, filosofia. Per il giovane Didier, leggere Marx o Sartre era come un modo per uscire dallo spazio ostile della sua famiglia; un modo per vivere qualcosa di diverso, andando contro la prospettiva di classe alla quale era stato destinato. La ricostruzione autobiografica del suo percorso educativo diventa così un elemento essenziale per elaborare una personalissima cartografia dei rapporti di dominio. E per descrivere la differenza, così ben descritta da Ernaux nel suo La place (Il posto, ma sarebbe stato meglio tradurre Una differenza/distanza di classe) fra una generazione e l’altra, fra padri e figli. Una differenza che è, appunto, « di classe »: differenza di pratiche, di mentalità, di visione. Da un lato c’è Didier, che nel pieno dell’adolescenza si iscrive al liceo; dall’altro ci sono i suoi fratelli, che alla stessa età, si dirigono invece a passi veloci verso il loro destino di classe, praticando forse una piccola ascensione sociale, quasi impercettibile, rispetto ai loro genitori, entrambi operai.
Il racconto degli anni del liceo, segnati dal disagio di classe ma poi, soprattutto, dalla scoperta necessaria e liberatoria della propria identità sessuale e della rilevanza del politico (a sedici anni D. si iscrive a un locale gruppo di trotzkisti: è il ’68) sono forse il cuore della riflessione di Eribon. Intimo e politico, certo. Ma soprattutto aperto ad un’autoanalisi che non è consolatoria ma, al contrario, ci può fornire strumenti di riflessione sulle pratiche e i rapporti di classe, su come pensare tutte queste categorie nello spazio della scuola e dell’università. 
 
Ma in cosa può esserci utile, allora, il Ritorno? In cosa ci può servire questo saggio autobiografico quando ci pensiamo o ripensiamo nella dimensione educativa?
In primo luogo, leggere dell’itinerario educativo di Didier - anche lui, in qualche modo, una falla nel sistema (rimasto per anni fuori dall’Università, cui è arrivato tardi, quasi per caso, dopo una lunga esperienza in campo giornalistico e divulgativo) - può essere utile per darci, banalmente, più strumenti di riflessione teorica. Ricordandoci sempre quali sono le dinamiche di classe e di dominio che possono materializzarsi, anche a scuola o in un’università. E pensare una risposta politica all’armamentario lessicale e ideologico dominante: «scuola di eccellenza» (profondamente legato alla « interdisciplinarità »), « meritocrazia », « buon liceo ». Un armamentario da ribaltare e da riempire di contenuti sovversivi.
Non perché le « scuole di eccellenza » siano sbagliate in assoluto. O perché la meritorietà, assai diversa dalla meritocrazia, sia una categoria intrinsecamente sbagliata (e questo meriterebbe un dibattito più ampio). Ma perché il sistema è problematico nelle sue fondamenta: la meritocrazia diventa plutocrazia; le scuole di eccellenza (per non parlare delle prestigiose università private) sono spesso spazi di riproduzione sociale e culturale (e il caso francese è emblematico)  il «buon liceo» è un luogo in cui spesso chi viene dalle classi subalterne non prende nemmeno in considerazione di iscriversi. L’università stessa, in molti casi, è inaccessibile a chi non viene dalla piccola o media borghesia: per ragioni economiche, ma anche per ragioni culturali. 
 
La scuola allora non è semplicemente un « apparato ideologico », ma si configura oggi soprattutto come un dispositivo di riproduzione sociale, dove la dominazione di classe può esprimersi e strutturarsi con alibi efficaci e parole all’apparenza sovversive (interdisciplinarità) ma che in realtà sono intrise di ideologia mainstream. Ripoliticizzare il discorso su questi temi è necessario e va fatto subito. Problematizzare queste categorie interpretative, opporsi alle semplificazioni, anche. Iniziando per esempio a dire che non può esistere eccellenza senza uguaglianza. Invitando gli studenti a farsi delle domande sul sistema nel suo complesso, facendo un lavoro di trasmissione che è profondamente politico e quantomai necessario. Mostrando le contraddizione di un sistema che, nei fatti, non è democratico.
 
Il libro può così essere un invito a lavorare al fianco degli studenti per scardinare il sistema, metterlo in discussione, non dare per scontato che le cose debbano sempre essere così. Nella mia università, una grande école francese, gli studenti sono quasi tutti bianchi, francesi da generazioni, principalmente provenienti da quartieri borghesi di Parigi o di altre città di dimensioni medio-grandi. Una vecchia statistica mi informa che solo l’1% degli studenti di questa scuola viene dalla classe operaia. Non se se le cose siano cambiate. Didier Eribon non ha mai studiato qui. A dire il vero, come racconta nel suo saggio, terminato il liceo non conosceva nemmeno l’esistenza delle classi preparatorie e delle scuole normali, che pure potrebbero essere stata la logica prosecuzione dei suoi studi. 
Perché la categoria di «eccellenza» è per sua natura escludente. Non contiene il diverso, chi non si conforma, chi esprime una differenza - di classe, di orizzonti, di aspirazione. E se le strutture educative, nel loro complesso, sono gli spazi in cui l’ideologia dominante può manifestarsi con tutta la violenza, esse sono anche lo spazio in cui dare voce, corpo e respiro proprio a questa vitale, necessaria differenza.

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