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lunedì 2 aprile 2018

Lettera a una maestra (su un libro di Giorgio Bini)

Da qualche tempo provo un certo disagio nelle occasioni in cui vado a fare formazione nelle scuole. Ho più volte pensato ai motivi possibili. Oggi ho trovato più di una risposta leggendo un librino scovato alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna.
Si chiama Lettera a una maestra. Tecniche didattiche per fare scuola. E' stato pubblicato nel 2001 dalla casa editrice della CGIL, Valore Scuola (oggi divenuta Edizioni Conoscenza). L'ha scritto un maestro, pedagogista e deputato oggi scomparso: Giorgio Bini.




Bini si rivolge, con uno stile affabile e cortese, a una giovane collega che stia per intraprendere il lavoro di maestra. L'obiettivo dichiarato è quello di darle consigli e suggerimenti, collocandosi
"dall'unico punto di vista valido, che è quello delle alunne e degli alunni: di ciò che sanno (si suppone che sappiano), capiscono (si suppone che capiscano) e perciò possono imparare; del loro star bene (e perciò volentieri) a scuola".
Questa frase mi ha subito persuasa ad andare avanti. Il "ritratto d'insegnante" (Capitolo I) non è da meno: Bini traccia il profilo di una "lavoratrice intellettuale", che come tale ha bisogno di studiare sempre, attenta anche agli aspetti artigianali del proprio lavoro: "per l'atteggiamento concreto che deve continuamente assumere, per la coerenza dell'impegno, per la costanza della verifica che deve operare sui risultati, per lo sforzo di tenere collegate teoria e pratica".

Parla dell'importanza dell'aggiornamento, anche, e della "postura" corretta da adottare nei confronti dei formatori (solitamente degli universitari): nessuna sudditanza intellettuale, disponibilità ad accettare insegnamenti e suggerimenti purché applicabili in classe, capacità di approfondire le proposte attraverso lo studio personale.
La consapevolezza, soprattutto, che le persone cui ci si rivolge per ottenere aggiornamenti conoscitivi sono sicuramente più informate nel campo disciplinare di competenza, ma lo sono meno in fatto di conoscenza di ciò che vuol dire lavorare con bambine e bambini in carne o ossa. E non solo per mancanza di esperienza, ma proprio per quell'eccesso di specializzazione che porta noi universitari a trattare le nostre discipline come campi di conoscenze ben delimitati rispetto ad altri (nel mio caso, per esempio, la grammatica rispetto al resto dell'educazione linguistica e letteraria), laddove il bravo insegnante dovrà riuscire a farli dialogare insieme nella prassi educativa quotidiana.

Neppure si deve pensare di poter tradurre tutti gli spunti in pratica didattica: certi argomenti, che gli insegnanti sono tenuti a conoscere (per esempio le nozioni fondamentali elaborate dalle teorie grammaticali moderne) non necessariamente devono essere introdotti alla scuola primaria (o alla secondaria di primo grado).
Come giustamente osserva Bini nel capitolo dedicato alla Grammatica (V), perché lo studio grammaticale sia efficace non bisogna cercare di insegnare a scuola la grammatica scientifica dura e pura: basterebbe diventare capaci di guardare alla vecchia grammatica alleggerendola delle sovrastrutture inutili e delle parti più palesemente antiscientifiche o equivoche ("il soggetto indica chi compie l'azione..." e così via).

Negli insegnanti, del resto, dovrebbe venir meno quel riflesso (nato nella scuola di fine Ottocento, quando l'istruzione elementare divenne obbligatoria) a esaurire interi percorsi astratti (inculcando molte idee troppo generali) nell'arco di un solo ciclo scolastico, come se la scuola dell'obbligo (e con essa la possibilità di dare un'infarinatura generale, elementare appunto, delle varie discipline) si esaurisse anch'essa con le elementari o le medie.

Ecco: in questo sta il mio disagio. Nella difficoltà di superare le barriere difensive, i confini di "campo", per mettersi insieme dalla parte giusta: quella degli scolari, alunni, allievi, apprendenti, discenti, o come li vogliamo chiamare. Considerandoli parte in causa, e non semplicemente una controparte fittizia.

Perché parliamo sempre molto di noi, noi, noi. Troppo poco di loro.



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