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domenica 19 novembre 2017

Dal parlato alla grammatica (recensione a M. Voghera)



Da studentessa ero stata piacevolmente colpita nello scoprire che dietro le iniziali puntate dei nomi degli autori dei due volumi di riferimento sull'italiano parlato, R. Sornicola (1981) e M. Voghera (1992), ci fossero due donne: Rosanna e Miriam, rispettivamente - almeno quanto, da dottoranda, sono stata stupita nello scoprire che G.E.M. Anscombe, autrice del più importante studio sull'intenzionalità, era una filosofa.

Tornando al parlato (e più precisamente a quello che, a partire dal classico saggio di Giovanni Nencioni del 1976, viene definito parlato-parlato), la prima ondata di studi (tra cui rientrano i saggi delle studiose citate) risale al decennio che va dai primi anni Ottanta ai primi Novanta del secolo scorso. Allora i linguisti cominciavano a rivolgere la loro attenzione all'italiano finalmente divenuto lingua "dell'uso medio" e lingua colloquiale, tentando di delineare una serie tratti ascrivibili alla "grammatica del parlato" (o comunque a una varietà di lingua non limitata agli usi scritti formali). La descrizione della lingua si apriva così all'analisi di dati provenienti da registrazioni e trascrizioni di discorsi pronunciati in situazioni più o meno spontanee e formali, in contesti monologici e dialogici, e a diverse latitudini della nostra penisola.

La fase successiva degli studi è stata caratterizzata dalla costruzione e dall'analisi di basi di dati: i "corpora" dell'italiano parlato, a partire dal pionieristico LIP (il Lessico dell'Italiano parlato, del 1993, al quale Miriam Voghera aveva lavorato accanto a De Mauro, Mancini e Vedovelli), che ha contribuito al rinnovamento della produzione lessicografica (grazie alla costruzione di lessici di frequenza e alla conseguente estrazione di marche d'uso ed espressioni polirematiche).
Contemporaneamente, prendevano vigore gli studi sull'analisi della conversazione: anche in questo caso i nomi che mi vengono in mente sono quelli di studiose: Carla Bazzanella, Franca Orletti, Emilia Calaresu.

E siamo arrivati all'oggi: già nella voce "lingua parlata" dell'Enciclopedia dell'Italiano Treccani (2010), Miriam Voghera definiva il parlato come una particolare modalità di comunicazione caratterizzata da un’ampia gamma di registri (non limitata ai registri informali o trascurati).
In questo libro appena uscito per i tipi di Carocci, dal taglio tecnico ma affabile, apprendiamo con sollievo che elementi che ricorrono regolarmente nel parlato non sono segnali di incuria (come le ripetizioni) o, peggio, erroracci (a me mi, gli per le ecc.), ma "caratteristiche funzionalmente necessarie al buon successo della comunicazione" in tutte quelle situazioni in cui affidiamo al canale della voce (fonico-uditivo) e alla modalità del dialogo lo scambio di messaggi.

Il primo capitolo (Quando parliamo usiamo la grammatica?) ci pone subito di fronte all'antitesi scolastica "parlato" (spontaneo, immediato, disordinato ecc.) vs "grammatica" (costruita, stabile, ordinata ecc.).
Di fronte alla "naturalezza", alla concretezza e alla dinamicità del parlato, si staglia l'astrattezza e la stabilità della grammatica, che "per la maggior parte dei parlanti è priva di qualsiasi riferimento agli scambi reali": prova ne sono gli esempi presentati dalle grammatiche , "costituiti da frasi isolate più o meno complesse, che non hanno un emittente e un destinatario dichiarati o individuabili". (p. 17)
Questa "grammatica senza parlato" fa parte dell'esperienza di tutti noi scolarizzati, come pure della nostra tradizione storico-linguistica, che ha fondato su testi scritti la selezione di modelli finalizzata alla costruzione della norma e, insieme, della nostra identità linguistica.
Un atteggiamento, questo, che ha determinato, in noi parlanti italofoni, una sorta di "doppia morale linguistica": le esigenze di efficacia e vicinanza comunicativa ci portano a trasgredire continuamente (con un senso di colpa più o meno vigile) le buone regole in situazioni di scambio simmetrico (per esempio nel dialogo amicale) e ad assumere posture di ipercorrettismo nel dialogo asimmetrico (nella relazione educativa).

Per uscire da questa pericolosa scissione, e insieme dall'"idea irrealistica di una lingua amodale, aspecifica, ideale", questo libro ci accompagna alla scoperta delle strategie (linguistiche, ma non solo) cui i parlanti ricorrono per assicurare la "felicità" degli scambi comunicativi: partendo dal livello della testualità per arrivare agli elementi costitutivi del testo/discorso (le parti del discorso), come ogni grammatica ragionata (e non puramente tassonomica) dovrebbe fare.
Tutti gli esempi, inoltre, sono autentici, tratti da grandi corpora della lingua parlata e trascritti secondo le convenzioni correnti utilizzate per l'annotazione di caratteristiche prosodiche del parlato (la pausa, per esempio, non è contrassegnata da virgole o da punti, ma da uno, due o tre # a seconda della durata).

Particolarmente interessanti i capp. 3 e 4, dedicati ai "correlati testuali e sintattici della modalità parlata", che ci mostrano come la discontinuità e scarsa programmazione del parlato sia bilanciata da configurazioni specifiche (accorgimenti prosodici, uso dei segnali discorsivi) che assicurano la coesione e la coerenza dei messaggi, come il discorso si ancori al contesto (attraverso la deissi), come si modifichino le strutture di frase per rispondere alle esigenze di una "sintassi in tempo reale".
Troviamo così enunciati senza verbo, per lo più indipendenti e giustapposti: come nelle favole per bambini (che si richiamano a una matrice orale), e a differenza delle narrazioni per adulti, "la quantità di informazione si sviluppa attraverso un processo additivo", che permette di procedere a piccoli passi (cammina cammina...) e in modo sequenziale (poi, allora...), senza sovraccaricare la memoria.
Merita una lettura attenta anche il capitolo 7, dedicato alla Grammaticalità dei testi parlati, che correla queste caratteristiche sintattiche e testuali a qualità di "elasticità" e "leggerezza" funzionali alla comunicazione parlata.

E quante novità nel capitolo 8, dedicato alle Modalità di comunicazione nell'educazione linguistica: perché la sfida, oggi, per l'insegnante, non è solo quella di portare i ragazzi verso un modello standard e ideale, ma di muoversi con consapevolezza e agio in ambienti plurimodali e plurilingui, imparando a riconoscere la "grammaticalità" e l'appropriatezza dei testi orali, in ricezione e in produzione. Perché

il parlare è parte della costruzione primaria del sé e del sé relazionale: parlare e ascoltare sono primari per l'instaurarsi delle relazioni sociali e interpersonali, prerequisito di qualsiasi relazione educativa. Riconoscere al parlare e all'ascoltare attenzione e dignità di oggetto di studio è inoltre un passo importante anche per l'accettazione della propria identità personale e comunitaria [...]   
Limitare alla lettura/scrittura di testi letterari l'esperienza didattica, censurando il parlare/ascoltare, significa del resto togliere alla scrittura un correlato importante: l'insegnamento della scrittura, infatti, ha bisogno del confronto con altre modalità comunicative perché possano emergere le sue caratteristiche specifiche.
Operazione fondamentale, tanto più oggi che (nella comunicazione mediata da dispositivi elettronici)  anche la scrittura è entrata nello spazio del dialogo e nelle classi c'è bisogno di educare alla "quinta abilità": la capacità di passare da una modalità comunicativa all'altra, gestendo in modo consapevole e controllato le scelte linguistiche e testuali.

Buona lettura!

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