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mercoledì 25 ottobre 2017

Libriamoci! (Letture grammaticali in classe)

Oggi ho prestato la mia voce per una giornata di lettura in una scuola primaria bolognese nell'ambito dell'iniziativa Libriamoci.

 

Mi piace andare nelle classi a leggere: libri che ho scritto io per bambini e ragazzi, o libri che ho amato da bambina e da ragazza e che spero possano ancora appassionare un giovane pubblico.




Così oggi ho portato in classe, insieme ai miei Fatti di lingua e Grammatica in gioco (Edizioni Dedalo), uno dei miei libri preferiti: Through the looking glass di Lewis Carroll.
Un libro che vale un intero corso di linguistica e che, almeno nel mio caso, ha avuto un ruolo importante nelle mie scelte di vita.
Me ne se sono resa conto alcuni anni fa leggendo un libro di Marina Yaguello, linguista francese allieva di Antoine Culioli (il Lacan della linguistica francese):






Dentro il libro del reverendo Carroll - scritto a sei anni di distanza da Alice in the wonderland e mezzo secolo primo dell'uscita del Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, che porrà le basi della moderna scienza linguistica - il gioco linguistico e il non-sense diventano una chiave filosofica per interrogare il linguaggio e i suoi meccanismi.

Con Alice e le altre bambine e bambini delle scuole Fortuzzi di Bologna, mi piace ricordare che:
"La linguistica è una cosa troppo seria per essere lasciata ai soli linguisti"... specie a quelli che non sanno, o hanno smesso di, giocare.

giovedì 19 ottobre 2017

Su Scuola7 si parla di valenziale

La grammatica valenziale nella scuola delle competenze, un articolo di Alan Pona apparso su Scuola7  la newsletter settimanale on line, del 18 settembre 2017, n. 58


mercoledì 18 ottobre 2017

V Giornata pro-grammatica

Tra le iniziative della Settimana della lingua italiana nel mondo si inserisce oggi la quinta giornata pro-grammatica, iniziativa promossa da "La lingua batte"- Radio3 e dal MIUR per la promozione e la valorizzazione della lingua italiana e della sua grammatica.

Mi piace festeggiarla con questa foto di una foto esposta alla mostra itinerante, a cura della Fondazione Don Lorenzo Milani, "Gianni e Pierino. La scuola di Lettera ad una professoressa”, approdata nell'atrio del mio Dipartimento in occasione del convegno "La scuola di Barbiana come scuola di cittadinanza", che si terrà domani (giovedì 19).




Gianni, il bambino di campagna (ma anche il nome dello scolaro per antonomasia, destinatario di tante grammatiche ottocentesche, dal Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini al Giannettino di Carlo Collodi, fino al Viaggio meraviglioso di Gianni nel paese delle parole di Laura Orvieto, scritto negli anni Trenta ma edito solo nel 2007 per i tipi di Olschki) opposto al Pierino borghese, appare qui intento a fare grammatica secondo il metodo approntato da don Milani per le esigenze dei suoi allievi, del quale ho avuto occasione di parlare in un vecchio post e in questo articolo.




lunedì 16 ottobre 2017

L'albero e la foresta (recensione a M. Palermo)

 
 
Ci sono libri che si leggono per dovere, e libri che si leggono con piacere. Tra i libri di linguistica, quelli che mi appassionano sono sempre quelli in cui riesco a "sentire" la voce dell'autore: una voce non urlata ma sicura, arguta ma affabile, capace di sciogliere la complessità dei temi in un discorso arioso perché pieno di aperture. Spesso basta leggere le prime pagine e guardare la bibliografia per convincersene. Cito dalla Premessa del volume di Massimo Palermo Italiano scritto 2.0. Testi e ipertesti (Carocci, 2017):

Se si guarda alle periodiche lamentationes del mondo accademico e mediatico per le scarse competenze di scrittura degli studenti di ogni ordine e grado [...] senza tener conto degli scossoni a cui viene sottoposto il rapporto tra società, sistema di trasmissione delle conoscenze e mondo della scuola, si corre il rischio osservare l'albero perdendo di vista la foresta.
L'elenco dei testi citati in bibliografia ci rassicura sul fatto che l'autore ha percorso la foresta (o meglio, il bosco) in lungo e in largo per restituirci un'istantanea in cui la vegetazione, vista dall'alto, non ci appare più come una macchia impenetrabile, ma come un luogo naturale fatto di alberi di diversa età, statura, fogliame. Un luogo in cui, a inforcare il cannocchiale giusto, d'improvviso appaiono radure. E riusciamo a seguire con benevolenza i tanti Pollicini (per riprendere la metafora di Michel Serres) che, in solitudine, affollano i sentieri intenti a digitare messaggi.

Eccoci dunque guidati in una breve storia delle tecnologie della parola: dall'oralità primaria alla scrittura manuale, coi suoi diversi supporti materiali, quindi alla scrittura a stampa con le sue diverse tecniche, e infine alla comunicazione digitale con mezzi informatici e connessione in mobilità.
Come sono cambiate le nostre modalità di accesso alla conoscenza, di creazione e fruizione di testi in quest'ultimo - recente, rapido e radicale - mutamento? Come sono cambiati di conseguenza i tipi di testo, i contenuti e le forme testuali?
Quali sono le implicazioni per il mondo della scuola, diviso tra fautori del BYOD (bring your own device) e della scuola digitale da una parte, e difensori della scuola tradizionale, roccaforte dell'intelligenza sequenziale e analitica, dall'altra? E' possibile trasmettere un sapere critico con/nonostante i nuovi mezzi di comunicazione? E' possibile insegnare/imparare a scrivere testi "solidi" e controllati in un ambiente comunicativo in cui prevalgono le forme brevi e destrutturate? Può la scuola continuare a fornire gli strumenti per comprendere e produrre testi monologici nei registri più alti della lingua, senza per questo demonizzare i nuovi mezzi e le nuove forme di trasmissione e comunicazione del sapere?
A queste domande risponde efficacemente la seconda parte del libro, che sviluppa un precedente Vademecum per il docente e le sfide della testualità digitale (Speciali Treccani). 

Anche in questo libro, come in altri lavori precedenti di Palermo, la base teorica e metodologica è fornita dagli strumenti della linguistica testuale: in particolare dalla riflessione su generi, tipi di testo e tradizioni discorsive, nonché sulle strategie linguistiche di costruzione testi che siano coerenti e coesi, pertinenti e non ambigui, possibilmente vagliati criticamente e non copiati pedissequamente, ben contestualizzati e sufficientemente "raffreddati" sul piano emotivo.

Che posto occupa la grammatica in questo discorso? Opportunamente, l'autore distingue tra la "grammatica implicita" (acquisita insieme alla lingua madre come set di regole che consentono di fatto la produzione e interpretazione di frasi ben formate) e "grammatica esplicita" (dispositivo culturale formato da un insieme di norme che regolano l'accettabilità delle diverse parole e frasi, e da un insieme di pratiche finalizzate ad acquisire una terminologia metalinguistica insieme a una maggiore consapevolezza rispetto alle strutture della lingua, necessaria per decodificare testi complessi).
Sicuramente, nell'ambito della fonologia, morfologia e sintassi della frase semplice, la padronanza della grammatica costituisce un requisito fondamentale per la buona costruzione e la corretta interpretazione di parole e frasi. Ma nell'ambito superiore della testualità, ciò che conta è la capacità di orientarsi in un tessuto complesso, facendo le scelte più opportune ai fini di una comunicazione efficace.

Particolarmente interessante, da questo punto di vista, mi sembra la distinzione tra la "verticalità sintattica" tipica del testo scritto tradizionale, caratterizzata da una complessità ipotattica che solo l'occhio e l'orecchio addestrati sanno riprodurre e decodificare, e la  "verticalità prospettica" tipica della scrittura digitale che aspiri ad avere una qualche profondità. In questo caso è l'uso dei capoversi e la collocazione di blocchi di testo in primo piano vs sullo sfondo a creare una prospettiva mossa, sia pure in superficie. Con un effetto che non è di semplice "mimesi del parlato", ma che consiste in una diversa architettura dei contenuti, più adeguata al canale di trasmissione del messaggio.
Perché le competenze di cittadinanza si misurano anche dalla capacità di gestire tipi di testi diversi, abbandonando le rigidità della composizione scolastica.


P.S.: Rileggendomi, mi rendo conto di aver usato una sintassi fin troppo ipotattica, tipica dell'immigrata (o e-migrata) digitale. Rileggerò il libro per migliorarmi.
 

mercoledì 11 ottobre 2017

Per lo ius soli (due poesie per voce non sola)

Nell'ambito dell'iniziativa Docenti universitari/e per lo ius soli e lo ius culturae (nata a sostegno dell'appello promosso dalle/gli insegnanti di scuola dal 3 ottobre al 3 novembre, a favore del disegno di legge in corso di dibattito parlamentare sul diritto di cittadinanza), ho scelto due poesie da leggere in aula ai miei studenti e alle mie studenti, futuri e future insegnanti:



Stiamo separati di fronte al mondo,
ognuno incatenato alla sua ora,
i nostri cani vanno a toccare un ieri,
quante volte e senza conseguenze?
 
Nebbia avvolge quel laggiù privo di sponde
nebbia si appoggia sulla mia spalla,
diventa pesante, più pesante, diventa pietra.
 
C’è una sola parola captata origliando
Che voglio cavare fuori e conservare,
perché resti indietro una ferita aperta,
a mia consolazione, una via nel domani.
 
Bastava la speranza? Allora sperate con me
Tutti voi soccombenti.
Spera anche tu,
mio cuore,
un’ultima volta.
 
27.01.05
 
(M. Mehr, da Ciascuno incatenato alla sua ora, Einaudi, 2014; trad. dal tedesco di Anna Ruchat)
Mariella Mehr, poetessa di etnia Jenisch (gli "zingari bianchi"), è stata vittima di abusi fisici e psichici all'interno di istituzioni educative aderenti al programma eugenetico "pro Juventute", promosso dal governo svizzero per la rieducazione dei figli di nomadi nel 1926 e chiuso nel 1989.  
Alla sua vicenda è ispirato il film di Valentina Pedicini, Dove cadono le ombre, presentato all'ultimo festival di Venezia.
 
******************* 
 
 
Rosa marina
 
                              Sub rosa dicta vel acta…
 
E questa tua rosa, senza terra,
se a una corolla dà smalto,
dapprima tutta muta in serra,
poi al chiuso cresce ed al caldo…
 
E nasce in tempo più oscuro,
svegliata da peccati, a foggiare
senza vergogna, al futuro
stanco un cielo di pioggia sul mare…
 
E rada, sonnolenta, non ricorda
Chi traffica al verde che gètta;
gela in un bianco l’onda sorda
ciò che la sua linfa dètta…
 
Germoglia lentamente come idea,
si compie come un ciclo di marea…
 
(Gianni d’Elia, da I fiori del mare, Einaudi, 2015)

Gianni D'Elia, poeta pesarese, nel suo "canzoniere adriatico" recupera le forme chiuse della tradizione poetica in componimenti che esercitano lo sguardo poetico su un presente di ozi balneari estivi e corpi di migranti alla deriva.

domenica 8 ottobre 2017

Ammaestrare, istruire, educare

Danilo Dolci in un ritratto di Carlo Levi



Per educare meglio
                               non inizi
dalla grammatica, dall'alfabeto:
inizia dalla ricerca del fondo interesse
dall'imparare a scoprire,
dalla poesia ch'è rivoluzione
perché poesia.
Se educhi alla musica:
dall'udire le rane,
da Bach, e non da pedanti esercizi.
Quando avranno saputo, i tuoi alunni
può una carezza essere infinite
carezze diverse, un male infiniti
mali diversi,
e una vita infinite vite,
arrivando alle scale chiedi le suonino
tesi come una corda di violino
con la concentrazione necessaria
al più atteso concerto.

(Danilo Dolci, da Poema umano, Einaudi, 1974)


Sono grata a Marco Dall'Occa Dell'Orso perché ogni ottobre, sul suo banchetto sotto il tendone allestito a Porta Galliera, trovo libri - usati e dismessi, ma selezionati con la sapienza del bibliofilo - che mi emozionano e mi aprono la mente.
Come il libro di poesie civili, scritto da Danilo Dolci, educatore e uomo d'eccezione, da cui ho citato il testo che precede, e che ben si presta anche a essere applicato alla didattica della grammatica.

Tra le mie trouvailles c'è un altro libro, un saggio stavolta, scritto nel 1962 da Lucio Lombardo Radice, matematico e pedagogista: L'educazione della mente, da cui cito l'inizio di un paragrafo intitolato Gli ammaestrati e gli istruiti (p. 21)

"Il mio a quattro anni, sa già contare fino a venti...".  E il piccolo pappagallo, se ne ha voglia, comincia la filastrocca. Ma se deve aiutare a preparare la tavola, e deve prendere un cucchiaio per uno, si sbaglia. Il fatto è che non sa i numeri: sa i nomi dei numeri, il che è molto diverso.
Risuona in questa parola le lezione del padre Giuseppe Lombardo Radice, Direttore Generale dell’Istruzione Elementare sotto Giovanni Gentile, ispiratore di alcune tesi sull'educazione linguistica democratica, che nelle sue Lezioni di didattica, scritte un secolo fa, ricordava, con Plutarco, che "il fanciullo non è un vaso da riempire, ma una fiaccola da accendere".
Come Danilo Dolci combatteva per dare voce a chi non voce, così Lucio Lombardo Radice si è speso  per promuovere il passaggio da una mentalità magica a quella scientifica, da un sapere dogmatico a un sapere critico.

Più avanti nel libro (p. 216), il principio posizionale del numerare (quello arabo-indiano, opposto al principio additivo dei romani) è accostato alla corrispondenza suoni-lettere nell'alfabeto: anche in questo caso, il possesso strumentale dell'alfabeto (o l'acquisizione rapida e precoce della scrittura attraverso "strumenti pratici" che consentono l'assimilazione meccanica) non contribuisce a quella "educazione della mente" necessaria per essere cittadini consapevoli e affrontare con rigore scientifico l'impresa della conoscenza.

Mi piace riportare anche un'altra osservazione di Lombardo Radice figlio a proposito delle resistenze dell'insegnante di fronte al nuovo - spesso correlate con una forma di aristocraticismo, tipica di chi ha interesse a essere seguito solo dalle "pattuglie più avanzate" (p. 208):

Le novità appaiono difficili a chi ha già una ben determinata struttura mentale e culturale, a chi già conosce le cose in un certo modo; ma sono molto spesso più facili del vecchio, del tradizionale, per chi non sa ancora nulla, per chi deve ancora formarsi una mentalità e una cultura. Le novità, in definitiva, prevalgono perché rappresentano strumenti più potenti e più semplici di quelli in uso precedentemente. Chi ha l'abitudine al vecchio strumento, troverà difficile assuefarsi al nuovo; chi non ha nessuna abitudine, si impadronirà dello strumento nuovo con uno sforzo minore di quello che avrebbe richiesto l'impossessamento dello strumento vecchio. E' il maestro d'abaco che, a suo tempo, avrà trovato il nuovo algoritmo arabo più difficile dell'uso delle tavolette per contare: non lo scolaro.

Algoritmo, appunto: la parola-chiave delle nostre ricerche. La scoperta che fa arrivare alcuni lettori qui, per caso o per serendipità, mentre cercano altro sulla rete.
Mi piace pensare che la valenza sia un po' come l'algoritmo: un concetto fecondo destinato a entrare nel nostro patrimonio culturale condiviso.
 

lunedì 2 ottobre 2017

La sventurata rispose



A proposito di valenze non saturate nella lingua letteraria: abbiamo tutti in mente - forza della memoria scolastica - la frase con cui Manzoni mette fine, nel silenzio della narrazione, alla vicenda della monaca di Monza.
La sventurata rispose.
Una frase etichettata come "elusiva" da molte antologie. Ma è davvero così? E se così fosse, come è ottenuto l'effetto di reticenza?
Evidentemente, cancellando due degli argomenti che ci aspetteremmo di trovare alle dipendenze del verbo rispondere: l'espressione del cosa e dell'a chi. Rimane il soggetto: un "incapsulatore nominale" che si incarica di riprendere il nome di Gertrude, aggiungendo un epiteto (sventurata) che dà all'intera vicenda una coloritura morale fosca e drammatica. E il verbo, che rimane come sospeso, in attesa di essere completato.

Riesaminando con più attenzione la frase alla luce di queste osservazioni sintattiche, calate nella realtà del testo romanzesco, e riflettendo sul concetto di "vincolo interpretativo" (Sabatini), capiamo che l'intenzione dell'autore non sarà stata tanto quella di chiudere in fretta una vicenda compromettente, quanto di lasciare aperte le porte, di non saturare l'interpretazione.

Come ha scritto Giuseppe Pontiggia a proposito di questa "frase potente":
Manzoni ci comunica alcune cose essenziali: il rapporto tra passione e sventura e soprattutto l'amore come risposta: come risposta all'altro, alla vita, ai sensi, alla parola.
Va detto che questa frase, diventata quasi proverbiale e come tale citata fuori contesto, segue nel testo - accostata per semplice giustapposizione - a un'altra frase:
Egidio [...], per ozio, [...] un giorno osò rivolgerle il discorso. 
Dunque, a rigore, potremmo supporre che l'argomento o gli argomenti sottintesi del verbo rispondere possano essere ricavati dalla frase precedente: il riferimento anaforico, cioè, ci permette di saturare le valenze del verbo.
Ma resta l'ambiguità, l'apertura interpretativa del testo letterario: è a Egidio che Gertrude risponde? Al suo osare? O al suo discorso ozioso? E se risponde al discorso, è alle parole di cui questo si sostanzia (magari una domanda banale), o a ciò che le parole implicano (l'empia impresa della seduzione)?
In ogni caso, la risposta di Gertrude è evidentemente un : una parolina dotata di grande valore performativo, perché capace di modificare la realtà, di definire destini.

Il procedimento della mancata saturazione di valenze verbali è ancora più sfruttato ed evidente nella poesia.
Ecco allora che, in Montale (I limoni), "la mente indaga accorda disunisce": dove l'assenza del secondo argomento dei verbi disposti in terna crea un effetto di vorticoso e vano girare a vuoto dei pensieri.


                                            Foto Ugo Mulas


P.S.: Questa lettura è solo un esempio della ricchezza delle prospettive interpretative che si aprono quando osserviamo la lingua letteraria con strumenti di analisi fine della sintassi e semantica verbale messi a punto dalla linguistica moderna.
Un altro esempio che mi è capitato di fare nei miei lavori di ricerca riguarda l'uso della ripetizione verbale del tipo Cammina cammina nella prosa manzoniana: una strategia morfologica al servizio della sintassi per indicare la durata, e insieme marca di oralità tipica della tradizione fiabesca di stampo toscano, che Manzoni omaggia nell'ultima edizione del romanzo.