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lunedì 21 ottobre 2024

Guerre culturali? Sull'insegnamento della grammatica

Da qualche settimana, in ambito accademico, si è aperto un dibattito culturale intorno all'insegnamento della grammatica. Prima sulla rivista online di cultura e politica il Mulino, che ha pubblicato in 3 puntate una lunga analisi di Mirko Tavoni (già professore ordinario di Linguistica italiana presso l'Università di Pisa, noto per i suoi studi danteschi) dal titolo La grammatica a scuola serve? (1, 2, 3). Alla pubblicazione ha fatto seguito un dibattito su un social accademico, Academia.edu, al quale erano stati invitati oltre un centinaio di colleghi e colleghe (tra queste c'ero anch'io, ma ho ritenuto di non intervenire in quella sede per le ragioni che dirò di seguito). 

Resa di Breda - Wikipedia 

Ora, però, quel dibattito è uscito dal circuito accademico per approdare sulle pagine di un supplemento culturale di grande diffusione: il Domenicale del Sole 24 ore, grazie a un intervento di Claudio Giunta (che si può leggere per intero qui), professore di Letteratura italiana presso l'Università di Torino, membro del comitato di direzione della rivista "il Mulino". In un certo senso, una "normale" chiusura del cerchio, verrebbe da dire. Ma c'è altro da dire.

Iniziamo dalla fine. Giunta, dopo aver riportato il contenuto di una telefonata nel corso della quale Tavoni gli avrebbe sintetizzato le sue idee e presentato il suo progetto sperimentato in classe (www.grammaticanativa.it/), così conclude il suo articolo: "Dopo tanti anni, qualcosa sembra muoversi sul fronte del rinnovamento scientifico della grammatica scolastica".

Tavoni, per parte sua, concludeva il suo intervento tripartito sulla rivista del Mulino annunciando proprio il suo progetto, nato in seguito all'organizzazione di corsi di formazione per insegnanti per la Fondazione Lincei per la Scuola (Polo di Pisa - Scuola Normale Superiore). A più edizioni di quei corsi avevo partecipato come relatrice, fornendo materiali e collaborando con le tutor: anche per questo motivo ho provato un certo imbarazzo a intervenire nella discussione su Academia. D'altra parte, alla pagina del progetto "Grammatica nativa" non è possibile sapere nulla di più sulle sperimentazioni scolastiche condotte da Tavoni e dal suo gruppo a partire da attività basate sulle intuizioni e sui giudizi dei parlanti. Avrei voluto capirne di più per citarla eventualmente nella nuova edizione della bussola sulla grammatica valenziale che sto allestendo, ma non ci sono riuscita.

L'altro motivo per cui non sono intervenuta è legato a una consapevolezza che ho maturato leggendo il libro di Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, 2024): entrare nell'agone di dibattiti culturali fortemente polarizzati serve soprattutto a fare branding, ovvero "ad accrescere il capitale simbolico di accademici e intellettuali che pensano oramai a se stessi come small independent business". Una tentazione difficilmente eludibile in un ambiente in cui la concorrenza nel mercato dell'attenzione diventa sempre più serrata. Ma resistere è possibile, specie se si è impegnati a tempo pieno in quel tipo di didattica di cui tanti lamentano la mancanza (ma che pochi ritengono gratificante): la grammatica spiegata a futuri insegnanti di primaria e secondaria. 

Esco per un momento dallo scompartimento lettori e taciturni per capire le ragioni del frastuono accanto. Incontro subito chi mi obietta che un dibattito sul tema "grammatica a scuola sì o no, come e perché" non ha i connotati tipici della cultural war (quelli, per intenderci, che presenta un altro dibattito ad alto tasso polemico di cui pure si è parlato in queste pagine, quello su "lingua e genere"). Ma nello spazio mediatico odierno basta poco perché anche una schermaglia tra antichi cavalieri diventi una lotta per l'egemonia culturale. Ecco tre ingredienti:

1- Innanzitutto, bisogna individuare un obiettivo polemico: chiunque abbia una formazione scientifica sui temi del linguaggio riconosce l'inadeguatezza della grammatica scolastica di impianto tradizionale, ma non siamo tutti disposti a considerare responsabile dei mali della scuola chi, tra i primi, di quella grammatica denunciò l'inadeguatezza. Tullio De Mauro non ha certo bisogno di essere difeso: né le sue idee sulla grammatica né quelle del movimento per l'educazione linguistica democratica sono rimaste ferme all'affermazione perentoria delle Dieci tesi (1975): ne parlavo in vecchio post intitolato A che cosa serve la grammatica? (Un ricordo di Tullio de Mauro). Accusarlo oggi in modo pretestuoso rischia di prestare al fianco a quei conservatori che non esitarono ad attaccarlo all'indomani della sua morte (su questo tema si veda l'articolo di Lorenzo Renzi del 2018 sulle idee-forza di Tullio De Mauro e questo mio vecchio e fortunato post), e che ora siedono in posti di comando. 

2- In secondo luogo, è opportuno erigere un monumento al capolavoro inascoltato: la Grande grammatica dell'italiano di stampo generativo, uscita per il Mulino in tre volumi dal 1988 al 1995 (riproposta in seconda edizione nel 2001 e poi ristampata da Libreria Universitaria nel 2022). Un meritorio lavoro collettivo che, per le sue dimensioni e la complessità, mal si sarebbe prestato a un adattamento scolastico (Chomsky stesso, del resto, aveva messo in guardia dalla facile illusione che il modello generativo-trasformazionale potesse essere trasferito in classe). E che oggi, a trent'anni di distanza, pur rimanendo un riferimento per gli studi, rivela il suo legame con un'epoca: quella antecedente alla ricerca linguistica basata su corpora elettronici di grandi dimensioni, in cui ci si poteva fermare alle intuizioni di parlanti modello. Una grande grammatica, sincronica e di stampo descrittivo, destinata a un pubblico ampio, oggi assomiglierebbe a questa, più che a quella, e per l'italiano è ancora da scrivere. Ma ci sono "piccole" grammatiche di riferimento, scientificamente aggiornate, pensate proprio per la formazione dell'insegnante, da cui partire (come questa, o anche questa). 

3- In terzo luogo, per fomentare la polemica, bisogna ignorare tutto quello che è stato fatto negli ultimi 50 anni, fuori e dentro il movimento per l'educazione linguistica democratica. In primo luogo quella pedagogia linguistica razionale, opposta alla grammatica scolastica tradizionale, proposta dal gruppo di Domenico Parisi nei primi anni Settanta a partire proprio dal concetto di "competenza spontanea" formulato da Chomsky. Ci sono state poi, a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, grammatiche scolastiche fortunate che hanno fatto scuola e cambiato il modo di guardare alla lingua e ai testi: la "grammatica dal testo" di Maria Luisa Altieri Biagi o il modello valenziale e testuale di Francesco Sabatini. Operazioni innovative sostenute da editori coraggiosi e impegnati. In altri casi, non sono stati testi scolastici, ma articoli e libri destinati alla formazione dell'insegnante a rovesciare la prospettiva: penso al volume di Monica Berretta (1979) o al lavoro di una linguista come Maria Pia Lo Duca che, partendo da una prospettiva acquisizionale, ha valorizzato l'intuizione del parlante (anche bambino) e costruito percorsi per scoperta (esperimenti linguistici) che hanno contribuito, nell'arco degli ultimi trent'anni, a un reale rinnovamento delle pratiche di riflessione linguistica in tante scuole di diversi ordini e gradi, per alunni nativi e non nativi. Generosi innovatori (penso anche ad Adriano Colombo) che hanno dedicato un'intera vita professionale alla grammatica muovendosi tra scuola e università. E poi c'è il lavoro di tante persone della mia generazione (quella dei "figli" della generazione che ha fatto i gloriosi Settanta), di cui questo blog, da dieci anni, cerca di dare notizia attraverso recensioni e segnalazioni. C'è tutta una letteratura, insomma, da scoprire nell'ambito della didattica della lingua e della grammatica italiana. Tanto si è fatto, dentro e fuori l'accademia: dimenticarlo vuol dire arare terreni già fertili, che aspettano nuove seminagioni.

Con questi tre presupposti, nella carrozza Business si potrà ottenere riconoscimento e magari anche riconoscenza per aver sollevato una questione su cui tanti finora non si erano interrogati (se non in qualità di nonni o genitori di prole in età scolare).

Certo, il successo non è garantito: anche alle annunciate novità toccherà aspettare qualche decennio - i tempi della scuola - per dare i loro frutti. Accettando magari di venire nel frattempo semplificate, ibridate, stravolte per diventare digeribili e sfruttabili commercialmente.


P.S.: Due interrogativi di metodo, non di merito: 

- per quanti apprendenti in una classe media l'italiano (e quindi la sua grammatica) può essere considerato nativo? Dagli ultimi dati diffusi dal MIM (riferiti all'a.a. 2022/23), l'11% degli iscritti a scuole italiane ha un background migratorio.

- un modello come quello generativo, pensato per una lingua a diacronia breve come l'angloamericano, benché adatto a rendere conto della struttura profonda comune alle lingue naturali, può dare conto della ricchezza dei fenomeni di superficie che creano la marezzatura tipica di una lingua a diacronia lunga come l'italiano (dal dominio dei quali dipende in larga parte la definizione di una competenza "adulta" della nostra lingua)?