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venerdì 9 luglio 2021

10 tesi per una lingua democratica rispettosa del genere

Le scuole sono chiuse. Se fossero ancora aperte, c'è da scommettere che tante e tanti insegnanti si sentirebbero sollecitati, magari nell'ora di grammatica, a rispondere su una questione che infervora gli animi: la legittimità dell'uso di simboli non appartenenti al nostro alfabeto in un'ottica inclusiva. (Nelle scuole superiori, tanti ragazzi e ragazze cominciano a ostentare per sé l'uso di pronomi inglesi come he-him-his she/her o they). 

Il tema dell’uso di una lingua rispettosa delle differenze di genere è da anni al centro di iniziative istituzionali volte a contrastare il sessismo linguistico. Si tratta di un piccolo sforzo suggerito, in contesti di comunicazione pubblica, per rendere più visibile la presenza delle donne, sfruttando la possibilità che la grammatica dell'italiano offre di formare il femminile di nomi di professione e carica. 

Le recenti proposte “dal basso” in direzione di una lingua inclusiva si spingono più avanti, proponendo di superare la presunta binarietà della lingua italiana. Nascono così e si diffondono soluzioni di vario tipo, tutte accomunate da un presupposto di fondo: la sovrapposizione di un concetto sviluppato dalle scienze sociali (identità di genere) a quello linguistico di genere grammaticale. Tutte le soluzioni proposte puntano inoltre a offuscare le desinenze delle parole italiane che marchino il genere (quindi i nomi e le parole che al nome si accordano o si riferiscono).

Non entrerò nel merito del modo in cui vengono propagandate, anche se la questione potrebbe essere utilmente posta in classe: è legittimo, per promuovere una cultura inclusiva, non discriminatoria e non violenta, ricorrere a forme che forzano la lingua e violano le regole del codice comune?

(Non stiamo parlando della proposta di parole nuove o di nuovi significati per parole esistenti, ma di simboli estranei all’ortografia dell’italiano, che rendono irriconoscibili le parole, con le conseguenze di cui diremo. Non stiamo negando il bisogno sociale di riconoscimento, di diritti civili e non solo, di chi aderisce a certe proposte grafiche, ma la legittimità di estendere il dominio della lotta manipolando la grammatica di una lingua).

Si può ancora parlare di "esperimenti" (nel caso di asterischi e schwa o scevà) quando promotori e attivisti entusiasti ricorrono a un linguaggio autoritario e a tratti intimidatorio per difenderne la diffusione contro chi osi richiamarsi ad altri principi democratici e di inclusione (si veda il recente caso sollevato dall'articolo di Maurizio Maggiani, Io non sono un asterisco)? 

Usare formule come "maschio cisgender (o cishet)" o "TERF" per liquidare avversari(e), riducendone l'identità a un'etichetta che azzera la loro storia e il loro pensiero (anche politico), vuol dire non solo evitare di nominarli, ma circoscriverli entro definizioni con connotazioni spregiative dietro le quali non possono essere riconosciuti né riconoscersi. Anche questo è linguaggio dell'odio

Né si possono liquidare le obiezioni come frutto di ignoranza o di posizioni ideologiche conservatrici e reazionarie, infastidite dal linguaggio cosiddetto "inclusivo". 

Di seguito proverò a dare alcune indicazioni utili per l'insegnante che voglia attivare in classe una riflessione sulla grammatica parlando dalla questione del genere. (I primi punti sono lunghi e impegnativi perché le questioni non sono semplici come vorrebbero farci credere: se le premesse filosofiche non vi appassionano, passate ai punti successivi. Ma tenete in mente la complessità, che si tende a eludere a volte per fretta, talora per incompetenza, talaltra per ideologia, non di rado per malafede). 

 

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1) Il fatto che l’italiano opponga il genere grammaticale femminile e maschile NON ne fa una «lingua binaria»: maschile in grammatica non vuol dire necessariamente ‘del maschio’ né femminile ‘della femmina’. La lingua vive di opposizioni, spesso espresse sotto forma di metafore (femminile/maschile, attivo/passivo, singolare/plurale, forte/debole, dolce/duro, destra/sinistra...). 

In generale, il rapporto tra lingua e realtà è di natura complessa e non si pone in termini di mimesi: la lingua non imita la realtà. La lingua è infatti un sistema simbolico, nel senso che il rapporto tra le parole e gli oggetti del mondo non è motivato dalla somiglianza: la parola cane non abbaia, la terminazione -a non è di per sé indice di femminilità. 

La lingua, in quanto espressione di una cultura, veicola visioni del mondo (talora superate) e stereotipi dei quali dobbiamo essere consapevoli per usare in modo responsabile le parole (ogni italiano sa che il femminile cagna veicola connotazioni negative se riferito a una persona). 

Non ci sono tuttavia prove per affermare che la lingua determini la nostra percezione della realtà - come vorrebbe chi si rifà a teorie in larga parte superate come l'ipotesi Sapir-Whorf (già alla fine anni Ottanta il linguista Geoffrey Pullum, citando gli studi dell’antropologa Laura Martin, mise in luce «la grande frode del lessico eschimese»). Peraltro, a leggere direttamente Edward Sapir si capisce che era ben lontano da certe affermazioni: "la tendenza a considerare le categorie linguistiche come espressive di evidenti lineamenti culturali, tendenza che sembra essere venuta di moda presso certi sociologi e certi antropologi, dovrebbe venir combattuta in quanto non convalidata in alcun modo dai fatti" - scriveva nel 1933. E andava  combattuta perché poneva le basi per il razzismo linguistico, come ha recentemente messo in luce Andrea Moro in un libro che ogni insegnante dovrebbe leggere: La lingua e la razza. Sei lezioni sul razzismo. (Se poi volete ricostruire la storia delle idee di Sapir sullo sfondo della rivoluzione antropologica che portò alla reinvenzione delle idee di razza, sesso e genere a cavallo delle due guerre, vi consiglio la lettura dello splendido libro di Charles King, La riscoperta dell'umanità, tradotto da Einaudi nel 2020)



La presenza o assenza delle marche di genere in una lingua non dice né predice nulla a proposito del sessismo della cultura di cui è espressione (altrimenti non si spiegehrebbero né Orban né Erdogan, visto che né l' ungherese né il turco marcano il genere). Tantomeno la presenza di suoni indistinti nelle finali delle parole è indice di inclusività da parte della comunità che parla quella lingua o quel dialetto (parola di abruzzese proveniente da un paese che ha ben 3 scevà nel nome dialettale, di cui due all'interno di parola, e che prevede comunque opposizioni di genere espresse attraverso alternanze vocaliche della radice invece che della desinenza).

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2) I nomi NON si flettono in base al genere, ma in base al numero: il genere grammaticale è una caratteristica intrinseca e convenzionale del nome. In italiano ci sono nomi maschili e nomi femminili. Alcuni nomi presentano due forme autonome e parallele, M/F, che in italiano tendono a essere molto simili (spesso sono distinte solo dalla vocale finale) ma non sono derivate l'una dall'altra: è vero che signore e signori è la traduzione di ladies and gentlemen, ma signora non deriva da signore, come lady non deriva da gentleman. Il rapporto tra genere grammaticale e sesso del referente è pertinente solo nel caso di un numero ristretto di nomi di questo tipo, riferiti a esseri animati sessuati. E' inoltre pertinente per i pronomi personali riferiti ad esseri animati (es. lui/lei), ma non in quelli riferiti a inanimati (esso/essa). Il genere neutro, quando è presente in una lingua, è tendenzialmente associato a inanimati.

Nelle parole che accompagnano il nome (come l’articolo o l'aggettivo) il genere è una semplice manifestazione dell’accordo. (Se volete approfondire questo tema vi consiglio di leggere il volumetto Le parti del discorso di Giampaolo Salvi). 

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3) Se la lingua ha gli strumenti per nominare una realtà, i parlanti sono legittimati a usarli, ricordando però che "la grammatica non deve rendere conto di nessuna realtà". La frase è tratta dalla Grammatica filosofica di Ludwig Wittgenstein, un filosofo spesso citato nel dibattito per un'altra e ben più celebre frase (ovviamente avulsa dal suo contesto, inaccessibile ai più): "I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo". 

Wittgenstein fu anche un maestro di scuola elementare,  e come tale ci ha insegnato la dignità delle "lingue di casa" e l'importanza dell'ampliamento del lessico (non lo stravolgimento della grammatica!). Tutta la sua riflessione logico-filosofica è stata "una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio". Sarebbe una buona idea tornare ai suoi testi per capire che la grammatica è una struttura astratta, indipendente dalla realtà. Per il filosofo tedesco si tratterebbe di un "gioco" a carattere convenzionale; per i neuroscienziati (si veda il libro citato di Moro) un meccanismo con basi biologiche. Non la impariamo per imitazione e non funziona per imitazione. 

Pretendere che la lingua rifletta sempre la realtà è una scorciatoia del pensiero, frutto di un bias cognitivo che potremmo chiamare pregiudizio realistico.

Non è la grammatica a dover rendere conto della complessità sociale delle identità, semmai è il parlante che deve rendere conto della grammatica (intesa come sistema di regole di una lingua) all'intera comunità che in quella lingua si riconosce, ed è tenuto a rispettarla come garanzia di comprensibilità reciproca. Il parlante o il gruppo di parlanti è libero di proporre parole nuove, o recuperare parole desuete, e provare a farle circolare e accettare dalla comunità. Il lessico, infatti, è il territorio della lingua più facilmente espandibile e aperto alle scelte individuali.  Mentre il lessico è sensibile a cambiamenti "meteorologici", la sintassi di una lingua è tendenzialmente stabile: i cambiamenti non sono esclusi ma sono legati a movimenti "geologici" ("di deriva" - per citare Edward Sapir), inconsci (non guidati) e lenti (impercettibili nell'arco di una generazione).

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4) Il simbolo attualmente in voga, la e girata o schwa, è un simbolo dell’IPA (International Phonetic Alphabet) utilizzato per indicare un suono vocalico indistinto (un fono, non un fonema: non ha capacità distintiva di parole) in finale di parola o in sillaba atona. Nelle lingue europee che conoscono questo suono e che hanno una tradizione scritta (come il francese o l'inglese), l’evoluzione fonetica verso la terminazione foneticamente indistinta di alcune parole (non necessariamente e non solo nomi) è stata frutto di un’evoluzione naturale e secolare che non ha cancellato i grafemi o i nessi grafici corrispondenti. La transizione forzata e accelerata verso esiti non compatibili con il sistema grammaticale di una lingua non ha precedenti. Nella nostra storia conosciamo gli esiti della forzata italianizzazione delle parole straniere in età fascista, quando si volle bandire anche il "lei" di cortesia perché "femmineo, straniero, sgrammaticato" (sappiamo poi come è andata).  

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5) Il simbolo grafico ə corrisponde a un suono pronunciabile perché nasce, proprio come tutti i simboli fonetici, per farci capire come si pronunciano certi nessi grafici in lingue diverse dalla nostra, oppure per dare "forma" a suoni indistinti, che hanno un ruolo nella formazione della sillaba: per esempio /ʃəˈwa/ è la trascrizione fonetica del termine ebraico שווא (propriamente 'insignificante') traslitterato come schwa, che contiene il famoso suono indistinto nella pronuncia ma non nella grafia (per inciso, l'ebraico si legge da destra a sinistra e trascrive solo le consonanti: di qui le secolari discussioni sulla traduzione dei testi biblici - basta interpolare vocali diverse nella radice consonantica perché il significato cambi)

Il simbolo viene usato solo nelle trascrizioni fonetiche (per esempio nei vocabolari cartacei - quelli elettronici ci fanno sentire direttamente la pronuncia) in combinazione con altri simboli fonetici, NON insieme con lettere dell'alfabeto latino: nessuna lingua ha lo schwa nel suo alfabeto grafico. Che cosa succede quando si trova il simbolo fonetico mescolato a lettere dell'alfabeto corrente? Nulla, perché nessuno lo trasferisce della grafia alla pronuncia né realizza il suono indistinto nell'interazione parlata (né al singolare, né al plurale, che alcuni vorrebbero marcare con un ulteriore simbolo: schwa allungato, trascritto come 3). Quando ci si prova, come ha fatto la giornalista televisiva Flavia Fratello alle prese con la lettura in diretta di un articolo di Michela Murgia, il risultato è il troncamento delle parole, non la realizzazione di un suono indistinto (che garantirebbe la tenuta della sillaba finale). 

Perciò questa soluzione non ha nessun impatto sulla lingua vera, che è quella parlata dalle persone nei più vari contesti e quella che viene acquisita naturalmente dai bambini.

Pensare che l'inclusività si ottenga con una convenzione ortografica è un errore di prospettiva.

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6) L’enfasi su una soluzione che ha impatto solo sull’uso scritto della lingua è un effetto sia della tradizione scrittocentrica della lingua italiana (dalla quale non ci siamo emancipati), sia della lente deformante offerta dai social media: un uso sociale della lingua particolarmente pervasivo, con forte capacità espansiva (anche per ragioni di snobismo linguistico e opportunismo politico), ma non rappresentativo della gamma di usi cui la cittadinanza attiva ci chiama a rispondere. 

Mettetevi nei panni di chi lavori in uno sportello pubblico, nei servizi sociosanitari, o anche a scuola: che cosa fare con un simbolo utilizzabile solo in alcuni contesti comunicativi e per un certo tipo pubblico?  

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7) Il simbolo in questione (ma lo stesso vale per l'asterisco), oltre che essere assente sulle tastiere (problema facilmente risolvibile), non è riconoscibile dai programmi di sintesi vocale e di riconoscimento vocale come Jaws (che non lo realizza) o Voiceover (che lo realizza come “e girata”), utilizzati dai non vedenti: la presunta inclusione non si coniuga con l’accessibilità (l'intersezione con altre minoranze discriminate rivela qui i suoi limiti: i diritti di singoli interferiscono con i diritti di altri singoli, nonché con i diritti della collettività). 

      L'uso di questi grafemi compromette inoltre la trattabilità dei testi con sistemi informatici di analisi dei testi che sono alla base delle nostre ricerche sui browser (e delle proposte suggeriteci in caso di errori di battitura), della traduzione automatica (oggi facilmente accessibile e sempre più precisa nei suoi esiti), della correzione automatica e del calcolo della leggibilità: tutti strumenti di inclusione per i non italofoni (quelli che chiamiamo "gli stranieri") e per gli analfabeti di ritorno (ancora tanti tra gli italofoni). A questi servizi, del resto, chiunque (anche le persone colte) deve poter attingere con facilità in una società plurilingue e multiculturale. A maggior ragione studiosi e i linguisti che usano corpora per le loro ricerche.

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      8) I simboli proposti si limitano a sostituire la vocale finale (-a/-o) anche quando per offuscare il genere sarebbe necessario modificare l’intero suffisso (al maschile animatore, per esempio, corrisponde il femminile animatrice: animator* è un maschile monco). Peraltro, negli usi correnti, il simbolo si trova inspiegabilmente utilizzato anche per le terminazioni di nomi epiceni in -e (es. genitor*). 

      Il simbolo (asterisco o  schwa) crea problemi di (orto)grafia nel caso di nomi che presentino nell'ultima sillaba una consonante palatale/velare, per la presenza di eventuali grafemi "muti" come H o I diacritica (amic(h)? colleg* è colleghi o collegi?).   

      Ma, soprattutto, la convenzione ortografica che si vorrebbe adottare non si limita a occultare il genere: contraddice le regole grammaticali della nostra lingua (la cui struttura prevede la distinzione tra i due generi e il ricorso al maschile plurale come forma non marcata, specie al plurale).

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      9) Il simbolo finisce per occultare l’accordo (anche a distanza) di aggettivi, articoli, participi e i riferimenti anaforici operati dai pronomi: strumenti fondamentali non solo per la sintassi ma per la coesione del testo.

      Il simbolo lascia inoltre irrisolti i problemi della determinazione (viste le molte forme dell’articolo determinativo italiano, distinte non solo per genere e per numero, ma anche in base a ragioni di eufonia), della referenza pronominale (come nominare le identità alias, rimanendo entro i confini della lingua italiana?), degli allocutivi (con quale appellativo rivolgersi a una persona che non conosciamo, senza risultare offensivi?).  

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      10) Come è stato evidenziato nell'ambito del dibattito francese che ha fatto seguito alla diffusione del cosiddetto “punto mediano” o "mezzano" (vietato nelle scuole da una circolare del Ministère de l'Education Nationale), le pratiche di scrittura che sovvertono l'ortografia compromettono non solo la comprensibilità dei testi, ma la loro leggibilità e, nelle classi primarie, l'insegnamento della lettura. Tutto ciò in una realtà scolastica caratterizzata da bisogni sempre più differenziati: pensiamo al numero crescente dei DSA, per i quali il ribaltamento dei simboli è un problema che va ad aggiungersi a quelli creati dalle incongruenze tra grafia e pronuncia. (Vale la pena ricordare che stiamo abbandonando la scrittura in corsivo perché qualcuno ci ha convinti che discrimini i dislessici in quanto non separa e differenzia a sufficienza i simboli: p e d, per dire, sono una il rovesciamento dell'altra. Peccato che nel frattempo le neuroscienze abbiano scoperto l'incidenza della scrittura manuale "legata" - che consente di "correre" - nello sviluppo delle competenze di lettura...). D'altra parte, ogni insegnante sa che l'ortografia è un problema per la maggior parte dei i ragazzi in età scolare (anche normodotati), nonché per gli adulti che abbiano perso dimestichezza con la scrittura di testi complessi.


Queste avvertenze dovrebbero bastare a scoraggiare: non l’uso individuale dei militanti, che hanno sempre manipolato la lingua a fini politici (anche se con mezzi meno pervasivi, come manifesti, volantini e tazebao), ma l’uso di chi, operando a contatto con il pubblico o essendo chiamato a pronunciarsi in pubblico, tenda ad adeguarsi nel timore di apparire reazionario, offensivo o irrispettoso delle diversità. Finendo per mostrare un'adesione spesso irriflessa a mode linguistiche nate in paesi nei quali il genere grammaticale pone problemi diversi e molto più circoscritti.       

Il compito delle istituzioni che devono curare il rapporto con la cittadinanza, o addirittura educare alla cittadinanza (come nel caso della scuola), è quello di promuovere un uso responsabile della lingua, che garantisca a ogni parlante il riconoscimento dei propri diritti, tra i quali rientra la possibilità di capire pienamente i messaggi, a prescindere dal canale (scritto o parlato) e dal mezzo di fruizione. Un diritto che può essere garantito solo se riconosciamo come nostro dovere quello di rispettare le regole che garantiscono la mutua comprensibilità. 

Il compito di ogni linguista competente e responsabile è quello di osservare e monitorare i movimenti linguistici senza censure e purismi, ricordando però i principi fondamentali di ogni lingua e le regole NON negoziabili che fanno parte della struttura della nostra lingua (come le desinenze variabili delle parole), a garanzia di tutti e di ciascuna.

Osservare ed eventualmente pronunciarsi è cosa diversa dal pretendere di indirizzare il cambiamento linguistico verso direzioni che alimentino la propria visibilità e la rappresentazione di una parte a danni di altri (più che l'inclusività della società nel suo complesso).

Insomma, impariamo e insegniamo a pensare la lingua: non è detto che vivremo in una società più inclusiva, ma forse saremo e formeremo persone migliori, senza etichette. 


NEW! 24 settembre 2021... è arrivato il parere dell'Accademia della Crusca nella persona del Presidente del Servizio di consulenza linguistica: da non perdere!

 

NEW! 9 febbraio 2022... è uscito sul Portale della lingua Treccani un mio pezzo, intitolato L'emancipazione non passa per una e rovesciata, che riprende e amplia i contenuti di questo post. Una versione più ampia sarà pubblicata sullo Speciale Treccani Lingua Italiana in uscita a marzo.

 

 

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