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sabato 26 gennaio 2019

Il dettato a scuola: notizie dalla ricerca

La recente polemica seguita alla "lettera dei 600" ha riportato all'attenzione l'importanza del dettato ortografico nella scuola dell'obbligo ai fini del miglioramento della competenza ortografica.
In realtà questa pratica (di cui già si parla nella Institutio oratoria di Quintiliano) non è mai uscita dalle aule: è una di quelle cose che tutte le maestre fanno, in particolare negli anni della prima alfabetizzazione. Per convinzione o per convenzione.

Ma che testi dettano e come dettano le insegnanti? Quali sono gli scopi che assegnano a questa attività? Che cosa imparano i bambini che scrivono sotto dettatura? L'ortografia trae davvero beneficio dal dettato?
Per rispondere a queste domande è utile leggere il volume di Elisa Farina, uscito nel 2014 per Franco Angeli, con presentazioni della pedagogista Lilia Teruggi e del linguista Gabriele Iannaccaro:
Il dettato nella scuola primaria. Analisi di una pratica di insegnamento.

Il volume nasce da una ricerca sul campo (condotta nel 2009 in alcune scuole milanesi e basata su interviste a maestre, osservazione e analisi di situazioni di dettatura in classe) e restituisce un'immagine sfaccettata di una pratica routinaria finalizzata all'interiorizzazione di corrispondenze tra suoni e grafia. Il dettato rivela infatti connessioni inattese non solo col sistema linguistico di riferimento, ma con il quadro socio-culturale in cui si colloca l'apprendimento della lettura e della scrittura.

Parto da questa constatazione, che è quella che mi ha più colpita: il dettato è efficace solo per quei bambini che sono già alfabetizzati, cioè che hanno già scoperto le corrispondenze tra oralità e scrittura (hanno cioè acquistato una padronanza sufficiente del codice scritto); per quelli che non hanno ancora compreso tale rapporto, il dettato non è di alcun aiuto. Non solo: per i bambini più in difficoltà, la pratica della scrittura sotto dettatura è un'esperienza molto più complessa e frustrante della scrittura spontanea.
L'oggetto di insegnamento della didattica della lingua deve essere individuato nelle pratiche sociali di lettura e di scrittura, facendo attenzione a evitare occasioni di scrittura fine a se stesse e prive di reali scopi comunicativi. Non potendo identificare la scrittura come la semplice traduzione dei suoni orali in grafemi, l'uso del dettato così come osservato nella presente ricerca focalizza esclusivamente l'attenzione sul codice facendo perdere di vista, in molti dei casi analizzati, il senso e lo scopo per cui si scrive.
Se riduciamo la scrittura a una tecnica da apprendere (trascurando peraltro l'entità dello sforzo cognitivo richiesto dall'impianto del circuito visivo della lingua nel cervello del bambino, che Maryanne Wolf ripercorre in un libro splendido: Proust e il calamaro), finiamo per allontanare gli allievi dalla comprensione della funzione sociale e culturale della scrittura: si scrive sempre per qualcuno, con un'intenzione precisa.

Ho letto con curiosità le interviste alle insegnanti per capire se fossero consapevoli del "rituale" previsto dalla situazione di dettatura: l'adozione di un tono di voce particolare, la riduzione della velocità di eloquio, le pause forzate.
Quando mio figlio era in seconda primaria, l'insegnante aveva dato come compito a casa un testo da farsi dettare da un adulto. Io avevo incominciato a leggere lentamente, in modo chiaro ed espressivo, ma mio figlio non scriveva. Di fronte al mio sguardo interrogativo, mi aveva spiegato che io non dovevo leggere per fargli capire il significato: dovevo DET-TA-RE. Così lui si sarebbe concentrato sulle lettere da scrivere, anziché distrarsi per seguire la storia, che peraltro non era nemmeno interessante (spesso le frasi e i testi sono solo un pretesto per inserire parole "capricciose" di cui si vuole verificare la corretta trascrizione). Insomma, mi chiedeva di decontestualizzare le parole e di adottare l'intonazione artificiale tipica della voce della maestra che sta dettato (ma solo quando recita il testo di un dettato: quando detta una comunicazione da scrivere sul diario, infatti, parla in modo normale...).
In effetti, l'analisi delle situazioni di dettatura individua una struttura comune, con una serie di istruzioni iniziali, una breve presentazione del contenuto, ripetizioni e informazioni per scrivere correttamente (spesso espresse per via di metafora: si chiede di fare attenzione a fatine, cappellini, gemelline...). Una maestra interpellata nelle interviste paragona il dettato ai lavori di casa: devi farli e li fai quotidianamente in un certo modo, ma meccanicamente, senza pensarci su ogni volta.

La ricerca conferma che dietro la pratica del dettato c'è la convinzione "adultocentrica" che l'apprendimento proceda in modo lineare e sequenziale, dal piccolo al grande: lettere, sillabe, parole, frasi... (La stessa convinzione che giustifica la presentazione delle parti del discorso nelle grammatiche scolastiche a partire dall'articolo...). Eppure le ricerche sull'apprendimento della scrittura portate aventi negli anni '80 da Emilia Ferreiro e Ana Teberovsky hanno mostrato come sia la ricerca di senso a guidare i bambini nella costruzione di idee sul funzionamento della scrittura...

Il dettato si basa inoltre sulla falsa credenza di una corrispondenza percepibile tra suoni e lettere, che nella realtà non si dà neppure in una lingua come la nostra, che pure ha fama di "scriversi come si legge": in azione, se dessi retta alla pronuncia (standard), dovrei mettere due z. Non ci sarebbe motivo per scrivere diversamente quadro e cuore, non dovremmo ricordarci di mettere la i quando insegniamo o disegniamo e che è importante imparare a mettere la m davanti alla p anche se quella che sentiamo è una n. 

L'apprendimento della scrittura a scuola comporta in effetti una sorta di "ri-apprendimento" dei suoni del parlato (che il bambino è in realtà capace di discriminare con maggiore finezza rispetto a un adulto) finalizzato alla fissazione in segni scritti. Se vogliamo che le norme ortografiche siano introiettate con successo, tuttavia, dobbiamo essere sicuri che il bambino abbia raggiunto una capacità di riflessione sulla lingua sufficiente a fargli cogliere e accettare gli aspetti convenzionali del codice scritto. Deve inoltre avere sviluppato una sensibilità per la correttezza ortografica che si acquista più facilmente attraverso la scrittura di testi significativi, che verranno letti da persone diverse dall'insegnante (che spesso si interessa esclusivamente alla correzione). Conoscere gli effetti pragmatici dell'errore di ortografia - che si tratti di mancata comprensione del testo o, più frequentemente, di una sanzione sociale (non sa scrivere...) - è la migliore motivazione al controllo della grafia.
In generale, poi, per il bambino è più utile "vedere" e non "sentire" come funziona l'ortografia: è il contatto quotidiano con i testi e la riflessione su di essi che aiuta a prendere coscienza delle convenzioni ortografiche e ad interiorizzarle, più che l'esercizio ad hoc decontestualizzato.
Insomma: se il bambino non è consapevole del carattere convenzionale delle corrispondenze tra suoni e lettere, il dettato suona a vuoto...  E quello che verificheremo è il prevedibile vantaggio di bambine e bambine nati in case con molti libri dentro.
Come per la riflessione grammaticale, dunque, meglio non anticipare troppo. Più che la pratica costante del dettato, inoltre, conta la capacità dell'insegnante di sfruttare ogni occasione utile per incoraggiare i bambini a osservare la forma delle parole e formulare ipotesi circa il modo in cui sono scritte. Utili anche i giochi di parole e forme alternative di dettato come il dettato di non-parole, il dettato muto, il dettato di gruppo, il dettato all'adulto.

Leggendo il volume, ho imparato anche qualcosa di interessante sui verbi contenuti nei testi dettati a scuola: sono quasi tutti all'indicativo presente. Le scritture spontanee dei bambini, al confronto, presentano una grande varietà di modi e tempi: forme che i bambini usano correttamente e senza preoccuparsi troppo della coniugazione (come faranno invece più avanti, quando inizieranno a confrontarsi con la memorizzazione dei paradigmi).

Interessanti anche le osservazioni relative alle parole che si sbagliano: non conta solo la difficoltà dei suoni, conta anche la frequenza d'uso di una parola: se la parola dettata non appartiene al vocabolario fondamentale è più facile cadere in errore perché non si associa quella catena a un significato.
Da questo punto di vista è interessante ricordare l'esperimento fatto da una maestra nel 2003 (ne parlò Michele Smargiassi in un articolo su la Repubblica del 6 settembre 2003): sottoporre il testo di un dettato del 1956 intitolato "Primavera in città", di cui la scuola aveva conservato le copie corrette di una classe quinta elementare dell'epoca, a bambini della stessa età ma nel 2002. Da 1,5 errori di media a bambino si passava a 5,5. Leggendo il testo, è facile rendersi conto dei motivi: gran parte delle parole trascritte in modo sbagliato dai bambini di oggi sono uscite dall'uso quotidiano... Siamo di fronte a errori fonologici (di cattiva percezione dei suoni delle parole) o piuttosto a errori lessicali? Se non ho mai incontrato parole come scialba o sciàmano, come faccio a sapere che ci va una i che è di fatto muta nella pronuncia?

Dettati, sì, dunque, ma con giudizio (e senza troppi giudizi)!
E soprattutto: leggere leggere leggere e scrivere scrivere scrivere (a mano, testi autentici). Perché è questo il migliore antidoto per gli errori di ortografia.

P.S.: A questo link si può leggere una recensione di Marco Belpoliti al libro di Elisa Farina

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